DIARIO DI UNA ROMAGNOLA D.O.C. (Romanzo)
DIARIO DI UNA ROMAGNOLA D.O.C.
(C) ARMANDO ASCATIGNO
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
PRIMA PARTE
CAPITOLO PRIMO
Il grosso platano che tra Santagiustina e Santarcangelo, a due passi dal
fiume Marecchia sulla via Emilia, segna il confine tra le due località della
Romagna per chi proviene da Rimini era ancora li imponente con le sue foglie
ed i suoi rami a dare ombra a quella casa dove avevo trascorso i miei primi
anni di vita e dove ero nata.
Mi si struggeva il cuore a guardarlo, bello ed enorme ancora di più di quanto
ricordassi e pensai a quanto è effimera la vita delle piante che non possono
parlare e riconoscere tutte le donne, i bambini e gli uomini che invece non
solo le tengono nella memoria, soltanto un po’ distorte dal tempo, ma forse
le amano e le portano con sé sempre, come quell’ alto albero di giuggiole di
fianco nel giardino.che adoravo ed era il punto ci riferimento dei semplici
giochi che creavo nella mia fantasia di bambina.
Scesi dalla mia coupè e cominciai a guardare intorno attentamente
.accorgendomi che una forte emozione mi stava assalendo dal profondo del
cuore davanti a quella casetta a due piani con la mansarda su in alto, mio
rifugio preferito.
Come al solito nemmeno allora riuscii a trattenere le lacrime e tutto il poco
trucco che mi ero messa, sparì in un attimo e fui felice che nessuno si
trovasse nei paraggi perché altrimenti me ne sarei vergognata come una ladra
perchè ciò che sentivo era mio, soltanto mio.
E pensare che tutta quella terra intorno a quell’ unico posto che ricordavo e
che mi era di fronte, per decine e decine di chilometri, era stata dei miei
nonni ed in parte dei miei genitori!
Ora soltanto mi rendevo completamente conto di come sarebbe stata la mia vita
se tutto non fosse cambiato quando ero ancora un piccolo bel fagottino di
carne rosea.
La nonna paterna, Elisabetta, la marchesina aveva dato alla luce una dozzina
di figli, una buona metà dei quali morti in tenera età ed era stata sposata
con un ricco proprietario terriero, banchiere di successo, morto anche lui
piuttosto giovane che tuttavia le aveva lasciato decine di poderi che lei
visitava, a volte, con un calesse trainato da due cavalli bianchi.
Di affari e di amministrazione Elisabetta non ne capiva niente ed era così
presa dalla sua vocazione cattolica,una volta nominata crocifera del Papa,
che una volta sistemati i figli maschi a Milano nel Collegio Demerode, aveva
affidato i suoi beni ad un paio di amministratori che molto velocemente
avevano dissipato, assieme ad alcuni mezzadri responsabili della terra e
delle scuderie, ingenti quantità di denaro
Una notevolissima somma era stata spesa inoltre per ordine diretto della
marchesina nella costruzione di una chiesa a Santagiustina, che era costata
almeno il triplo di quanto valesse.
Tra i figli sistemati a Milano al Demerode c’era anche mio padre che, uomo
alto e dai lineamenti regolari come si addicevano ad un discendente di una
nobildonna, una volta uscito dal Collegio si era dato alla bella vita ed alla
politica.
Filippo Maria, così si chiamava, poteva disporre di una discreta quantità di
denaro proveniente dalla rendita diretta di alcuni poderi di proprietà
personale, eredità paterna e così gli era facile, sia a Milano che a Rimini,
frequentare festini e belle donne nonché famosi sarti.
Oltre a questi capricci costosi ne aveva un altro, costosissimo, il gioco e
poi un altro ancora, pericoloso, il correre in motocicletta ed un difetto,
l’interpretazione che dava all’amicizia che considerava sacra con giovani del
nascente movimento fascista e questo non tanto perché capisse ancora o
credesse a quella ideologia ma per distinguersi dai suoi conterranei quasi
tutti appartenenti alla sinistra repubblicana e socialista:
Dopo aver partecipato alla Marcia su Roma, senza che la violenza appartenesse
al suo modus vivendi, era tornato alla sua Santarcangelo dove era stato
nominato segretario del Sindaco e si era sposato con mia madre, la seconda
figlia di una famiglia di commercianti, dove il benessere era il frutto di
duro lavoro e la serietà di vita, condita da una fede in Dio ferma e così
ciecamente parte del patrimonio cromosomico, faceva da contro altare alle
ricchezze di famiglia dei latifondisti, proprietari pure di immobili di mezza
Rimini.
Il matrimonio era stato voluto da Filippo Maria perlomeno nel tentativo di
dare ordine alla sua vita in un momento di innamoramento impulsivo e perchè
in fondo egli desiderava una famiglia tutta sua, non pensando a quali
responsabilità potesse andare incontro con quel suo carattere così
avventuroso e parzialmente folle.
Infatti mio padre fu talmente impulsivo e pazzoide da combattere, in prima
linea come volontario, tutte le guerre volute da Mussolini a cominciare da
quelle in Etiopia per fare grande l’Italia e per contribuire alla costruzione
dell’Impero, a quella di Spagna ed infine a quella tremenda mondiale.durante
la quale lo inviarono sia sul fronte greco albanese che in Russia.
Così ogni qualvolta tornava in Patria, in licenza, metteva incinta mia madre
che ebbe nello spazio di una decina di anni, oltre ad alcuni aborti
spontanei, cinque figli dei quali io fui la quarta,unica femmina.
Mi diedero un nome bellissimo ed appropriato,considerando quello che mi
doveva capitare nella vita.
Mi chiamarono Angelica e mi iscrissero all’anagrafe,qualche giorno dopo, come
nata il giorno di Tutti Santi, così per completare il ruolo che avrebbero
voluto attribuirmi di predestinata alle opere caritatevoli e buone.
Nella penombra del tramonto, dietro la casa che mi aveva vista nascere a poca
distanza dal Marecchia, sentii sferragliare un lungo treno e poi vidi in
atterraggio un aereo verso Rimini.
Tutto quel rumore mi distolse dai ricordi e mi riportò alla realtà del
presente ed ai miei quattro figli, tutti all’estero per lavoro. Dovevo essere
al check-in per Londra alle ventuno e quaranta e dovevo essere puntualissima
perché a Londra mi aspettava,ansioso di rivedermi, il più giovane dei miei
figli, Gianluca dopo circa sei mesi di lontananza.
L’automobile l’ avrei lasciata in un garage nei pressi dell’aeroporto come
avevo già contrattato e mi sarei fatta accompagnare di corsa alle partenze
internazionali.
CAPITOLO SECONDO
Mi avevano assegnato un posto, nella business class del MD dell’Alitalia,
vicino al grande oblò sulla sinistra dell’aereo ed attraverso quello potevo
ammirare il cielo trapunto di stelle appena fummo a diciottomila piedi di
quota. Ma lo spettacolo che vidi dopo un ora di volo, della mezza Luna con
gobba a ponente, era da sogno.
Me l’aveva spiegato mio suocero,comandante della compagnia di bandiera, come
distinguere se la luna fosse in fase calante o crescente:tutto dipendeva
dalla posizione della convessità del nostro satellite ad est oppure ad ovest
e questo gioco, per me che avevo passato tutta la mia infanzia in un convento
di suore a Santarcangelo andando a letto come le galline appena il sole
tramontava, rappresentava una gioia semplice e nello stesso tempo divertente.
Povero suocero, un po’ burbero e severo prima con sé stesso e poi
con gli altri, che avevo visto morire improvvisamente di infarto quando ormai
stava in pensione, si sarebbe certamente meravigliato nel vedermi volare di
notte, io apparentemente così timida e silenziosa che ora guidavo il mio
coupè rosso amaranto a velocità folle e prendevo continuamente aeri, di cui
avevo imparato a conoscere tipo e caratteristiche con molta precisione,.per
andare a trovare i miei figli sparsi per il mondo tra cui Antonella, alla
quale avevo dato il suo nome.
La mia primogenita viveva negli Stati Uniti in California ed era divenuta una
grande stilista di moda femminile, qualità questa che le derivava da me
stilista anche io ma di più modeste proporzioni.
Lei faceva la spola fra San Francisco e Los Angeles dove possedeva un paio di
boutique e il design italiano spopolava tra i ricchi residenti di Beverly
Hill mentre la casa di moda, a San Francisco, era la sede delle sue creazioni
fantasiose con quel pizzico di classe eccezionalmente innovativa di cui noi
italiani siamo celebri nel mondo.
Antonella era stata corteggiata dalle più importanti case di moda
californiana ma lei aveva voluto , con grandi sacrifici personali, creare un
suo marchio personale che aveva chiamato “La Casa delle Donne.”
La fortuna le aveva arriso premiando la sua bravura e la sua creatività ed in
breve oltre alla ricchezza era divenuta famosa tanto che a soli trentun anni
poteva guardare al futuro con il sorriso di chi sa che quello sarebbe stato
solamente l’inizio di una carriera favolosa:
Io ero felice e pensavo che, quanto non ero stata capace di ottenere
personalmente, Dio aveva voluto elargire a lei, la mia cara e dolce figliola
che tanto mi somigliava fisicamente e nei lineamenti,con occhi grandi verdi
ed espressivi e naso piccolo con belle narici che sembravano scolpite da uno
scultore ed un corpo flessuoso e snello, con fianchi e fondo schiena quasi
perfetti e lunghe gambe dritte e ben tornite.
Così ero stata io da giovane ed il mio aspetto era stato sicuramente la
principale attrazione che aveva calamitato mio marito che però aveva sempre
sostenuto di essere stato conquistato dalla mia intelligenza vivace e dal mio
carattere apparentemente docile, sensibile ed anche troppo sincero.
Già mio marito!
L’avevo incontrato a Roma dove ci eravamo trasferiti.subito dopo la guerra
ormai poveri in canna, dopo aver venduto tutto quel poco che ci era rimasto
nel periodo in cui ancora non avevo compreso cosa significasse avere un padre
che aveva preferito le guerre a gli obblighi che derivano a chi crea una
famiglia.
Dovevo ai miei due fratelli maggiori,che si erano messi a lavorare
giovanissimi, il relativo benessere che mi aveva permesso di iscrivermi al
Liceo Artistico e di completare i miei studi a diciotto anni.
Anche gli altri miei due fratelli più giovani avevano studiato ed anche loro
per merito sia, dell’ abnegazione dei due fratelli più grandi che della
severa amministrazione del poco denaro che entrava in casa da parte di mia
madre che, poverina,.esprimeva soltanto così il suo amore materno, non
potendo contare né sull’affetto, che non sapeva comunicare, né su mio padre
che viveva con noi ma che si era limitato a saltuari lavori non certo
all’altezza di quanto avrebbe potuto e dovuto dare ma con una grossa
attenuante:era stato epurato per il suo passato fascista.
Con tutto ciò mia madre era riuscita a comprare un grande appartamento, nel
quale io avevo una camera tutta mia e dove le idee si erano affinate nel
ricordo della mia Romagna e di quelle brave e buone suore che mi avevano
fatto da madre e padre mentre ero rimasta sola a Santarcangelo nel periodo
che gli altri della mia famiglia.ad eccezione di Marco, il terzogenito anche
lui in un collegio di frati, si erano trasferiti a Milano per due anni, gli
ultimi della guerra.
Io avevo trovato subito lavoro in una casa di moda nei pressi di piazza di
Spagna, con il mio diploma del Liceo Artistico e pur iniziando in sartoria,
ben presto fui trasferita nel settore dove venivano creati i modelli degli
abiti da sposa sotto la guida di un capo stilista famoso sia per la sua
creatività, che era molto stimata nell’ambiente del design a Roma, sia per le
sue manifeste tendenze omosessuali.
Non so ancora oggi il perchè questo artista mi aveva preso a ben volere,
fatto sta che fu lui ad insegnarmi quel bellissimo mestiere ed a spingermi a
perfezionarmi, tanto che divenni molto presto la sua assistente principale.
Così cominciai a vedere alla fine di ogni mese delle grosse somme di denaro
con le quali ebbi modo di aiutare da un lato la mia famiglia e dall’altro di
rendermi totalmente indipendente tanto che potei andarmene da casa,
affittando un monolocale nei pressi di via Condotti a due passi dal luogo di
lavoro.
Ero sempre rimasta la timida Angelica ma allo stesso tempo, vivere da sola,
mi aveva fatto bene perché aveva affinato in me la voglia di gestire la mia
vita liberamente assumendomene tutte le responsabilità.
Avevo avuto una marea di corteggiatori ma non avevo voluto impegnarmi con
nessuno finchè, malgrado le mie resistenze, cedetti alla corte spietata di
Daniele che mi aveva conquistata non per merito della sua avvenenza, che era
molto discutibile, ma per la sua tenerezza e la sua non comune intelligenza.
Mia madre mi aveva messo sull’avviso, quando in un momento di debolezza mi
ero confidata con lei, che quel giovane chirurgo di solo ventinove anni non
era fatto per me tanto considerava la chirurgia la sua vera sposa e la sua
amante per cui ogni altra cosa, inevitabilmente, sarebbe stata secondaria
nella sua vita.
Forse ero rimasta infatuata più dal chirurgo che dall’uomo, oppure nel
riconoscere che altre cose erano molto importanti nella esistenza degli
uomini ,oltre a quelle comuni appartenenti alla quasi totalità dei giovani
che avevo conosciuto fino a quel momento.
Così ci sposammo in una bellissima chiesa in alto sul Palatino, dopo quattro
anni che erano filati lisci e colmi di affettuosità e momenti di passione
conditi da tante carezze.
CAPITOLO TERZO
Io e Daniele avevamo quasi otto anni di differenza ed avevamo la vita davanti
a noi che prometteva ad entrambi una carriera splendida e felice.ma due cose
non combinavano tra loro ed entrambe dipendevano da mio marito.
Lui pensava in primo luogo alla carriera e non gli era sufficiente essere
diventato,così giovane, il primo aiuto del direttore della Cattedra di
Patologia Speciale Chirurgica dell’Università La Sapienza di Roma con tutti i
concorsi che a getto continuo superava brillantemente ma, ambizioso come era,
mirava alla cattedra universitaria che ovviamente non avrebbe mai potuto
ottenere nella Capitale ma in qualche altra sede universitaria.
Poi, dopo aver voluto in tre anni due figli,pensava, come del resto era
prassi comune nei medici, che le donne dovevano starsene a casa e pensare
solo alla famiglia lasciando perdere le loro velleità lavorative concedendo,
al massimo al sesso femminile, soltanto il lavoro come hobby ma non certo
come possibilità di esprimere in esso tutte le potenzialità di fantasia e di
creatività come del resto avevo sognato anche io.
Spesso ripeteva che una donna che volesse a tutti i costi sfondare e divenire
una protagonista in qualsiasi campo non avrebbe mai dovuto accettare il
matrimonio.
Parlava come un perfetto maschilista ma in fondo mi amava perdutamente e nel
suo egoismo sfrontato credeva in buona fede di agire per il mio bene e
soltanto per questo.
Io del resto, Angelica di nome e di fatto, non mi sentivo di tirarmi indietro
e così era successo che, pur non tralasciando il mio lavoro di stilista,non
mi impegnavo più di tanto anche perché, nel frattempo, nei successivi quattro
anni avevo partorito altre due volte e di tempo non me ne avanzava quasi più
pur avendo l’ aiuto di due babysitter e di una cameriera.
Con il lavoro di mio marito, che era diventato famosissimo come chirurgo
toracico, di denaro ne avevamo a iosa ma il nostro rapporto si era incrinato
specie quando egli riuscì a vincere la cattedra di chirurgia a Perugia ed il
tempo che passava in quella città era divenuto il doppio di quello passato a
Roma.
In pratica l’educazione dei figli era diventata solo compito mio e così anche
tutte le decisioni che si dovevano prendere in casa me le aveva accollate
senza, a dire il vero, che mai si fosse opposto a qualsiasi mia presa di
posizione volendomi così dimostrare che rispettava totalmente la mia libertà.
Tutto ciò non era certo quello che avevo progettato per la mia vita ma mi
dovevo per il momento accontentare.
Mi aveva anche proposto di andare a vivere a Perugia in una grande e bella
villa con uno stupendo giardino colmo di piante e fiori ma il trasferimento
nella città umbra non avrebbe risolto nulla,anzi avrebbe peggiorato la nostra
già precaria situazione familiare.
Sarebbe mancato sia a me che ai nostri figli il vivere che faticosamente
avevo costruito, privandoci anche di quella indipendenza in quelle poche cose
che almeno continuavano a farmi sentire una stilista bonsai ed a loro negando
le amicizie cui tenevano tanto. soprattutto le più vere, cioè quelle che si
creano nella età della scuola.
Poi non avrei mai lasciato Roma,la mia città adottiva, così bella e così
saggia nella sua filosofia millenaria e tutto il popolo cosmopolita che le dà
colore quasi fosse un immenso quadro d’autore impressionista.
Quando atterrammo a Londra,all’aeroporto di Heatrow, era da poco passata la
mezzanotte e Gianluca mi stava attendendo con ansia.
Esuberante, come al solito, mi accolse prendendomi e sollevandomi tra le
braccia come un fuscello,baciandomi ed accarezzandomi con dolcezza.
In un attimo dimenticai tutti i pensieri che mi avevano tenuto compagnia
durante il volo e mi dedicai totalmente a lui bello e robusto come quando era
partito per quella destinazione e per quel posto di responsabilità ottenuto
alla City per la migliore tesi di laurea in Organizzazione Aziendale e
Finanziaria, premiata con quel prestigioso posto, con un contratto tale che
gli prospettava in pochi anni la Dirigenza in quel settore della
Globalizzazione che era divenuta il più importante campo di azione di ogni
grande Azienda Multinazionale.
.Si vedeva chiaramente che era rimasto il mio semplice e buono
Gianluca,premuroso e garbato in ogni atteggiamento ed in ogni parola anche
così lontano dalla sua mammina, come amava chiamarmi,da quando aveva imparato
le prime parole.
Mentre si andava verso Londra con un taxi mi chiese notizie dettagliate di
tutti i suoi fratelli che aveva soltanto sentito al telefono ma in
particolare volle sapere di suo padre con il quale
non aveva potuto scambiare una sola parola nemmeno al telefono che risultava
sempre muto.
In quel momento non volevo tediarlo con i miei problemi e con quelli del
padre per cui volontariamente tagliai corto e gli dissi solo che non doveva
preoccuparsi di Daniele che si trovava. in quel momento per un Congresso, in
Giappone e che ne avrebbe avuto almeno per un mese, dovendosi recare anche in
Australia a Melbourne.
In ogni caso gli avrei dato, in seguito, un numero telefonico satellitare che
conoscevano solo pochissime persone molto selezionate
Gianluca mi chiese se avessi mangiato qualcosa e quando seppe che ero a
digiuno, mi volle condurre al Talk of London in Drury Lane ed in quell’ambiente
elegante, cenammo.ed assistemmo ad uno spettacolo.
Poi volendo festeggiare,ballammo facendo i matti come da tanto tempo non
capitava.almeno a me.
Così facemmo le ore piccole e fu una notte indimenticabile quando verso le
tre e mezza mi accompagnò al Hotel Hilton dove aveva prenotato una stanza
elegante e spaziosa tutta per me perché lui si era sistemato, in quei primi
mesi, vicino alla City in una casa famiglia nella quale aveva sia un comodo
letto ed una scrivania sia un pasto garantito ad un prezzo equo.
Nei successivi giorni, a parte il week-end durante il quale saremmo rimasti
insieme per tutto il tempo, ci saremmo visti alle sei del pomeriggio dopo il
suo lavoro e mi aveva promesso una visita accurata di tutto ciò che Londra
poteva offrire ad una turista come ero io e così avrei avuto la possibilità
di visitare, al mattino.qualsiasi negozio che mi sarebbe andato a genio del
West End e di Kensington High Street
Fu una mattina mentre si passeggiava lungo i vialetti di Richmond Park, nella
West London tra i caprioli ed i cavalli montati da appassionati di
equitazione,che ritornò a far capolino tra noi Daniele, il marito ed il padre
evanescente, colui che mi era parso l’uomo della mia vita ma che invece si
era poi dimostrato tutta un'altra persona.
Egli non aveva fatto nulla per tenere unita la famiglia ed a parte la
tranquillità economica che aveva profuso a piene mani a tutti noi non aveva
saputo scindere la propria smisurata ambizione, per il suo non facile lavoro,
dalla tenerezza che cementa ogni legame affettivo con la moglie e con i figli
che pur adorandolo condividevano con me queste opinioni non certo edificanti.
Raccontai a Gianluca tutte le mie perplessità su suo padre e gli disse pure
che non me la sentivo più di corrergli dietro ad elemosinare quella tenerezza
di cui ora più che mai sentivo estremo bisogno
Il suo ultimo proposito mi aveva fatto capire che gli uomini i quali si
dedicano unicamente al lavoro sono assolutamente malati di mente perché non
riescono a comprendere che si vive una sola volta e non si può bruciare
l’esistenza dietro traguardi che, man mano raggiunti, sono immediatamente
sostituiti da altri, sempre più difficilmente raggiungibili, almeno che non
si agisca come un somaro che dopo aver tanto faticato non sa perché e per chi
abbia sgobbato e non vede il fine ultimo della propria assurda vita.
Il proposito di Daniele era quello di creare una Clinica Chirurgica in un
paese poverissimo, come poteva essere la Birmania, che sarebbe stata una vera
manna del cielo sia per i birmani che per i pakistani d’oriente che vivono là
a decine di milioni.
Avrebbe costruito, insieme ad altri colleghi e filantropi, una specie di oasi
di pace dove sarebbe andato periodicamente a dare il suo contributo di
maestro di chirurgia toracica.
Se lo scopo era certamente nobile ma assolutamente utopistico, nel credere
che una missione di quella portata potesse essere compiuta senza nemmeno
conoscere i mille problemi che sarebbero spuntati come funghi e senza un
aiuto internazionale, ciò aveva un doppio significato.che Daniele non aveva
considerato, l’inevitabile fine del nostro matrimonio che sarebbe in breve
naufragato e la certezza, tenuta da me segreta, ,che sicuramente lo avrei
considerato un uomo cui gli aveva dato di volta il cervello.
Ed un'altra cosa non gli avrei mai più potuto perdonargli: non avermi mai
detto, quando ci eravamo conosciuti, quali sarebbero state le sue intenzioni,
proiettate nel futuro,una volta uniti in matrimonio.
Tuttavia un divorzio non era possibile per la fede cattolica radicata in me
dalla nascita, mentre una separazione di fatto era nell’ordine delle cose
fattibili.
Era stato uno sfogo quello che non avevo rivelato a nessuno fino ad allora.
Perché lo avessi fatto a Londra con il più giovane dei miei figli non
riuscivo ancora a capirlo ma forse una spiegazione c’era.
La certezza di non essere criticata da lui, per il feeling che ci legava da
sempre e come avevo previsto, Gianluca non mi biasimò affatto anzi mi consolò
affermando che qualsiasi decisione avessi preso egli mi sarebbe stato vicino
per sempre .
Non fece nessun commento a riguardo, come era sua abitudine di non mettere
mai il dito tra marito e moglie, mi riempì di carezze e mi fece passare altre
tre settimane felici e spensierate.
Tuttavia io avevo intravisto nei suoi occhi un sottile velo di tristezza e
questo, per quanto egli fosse stato riservatissimo,mi fece concludere che per
il momento avrei dato a Daniele una ultima chance e ciò avrei fatto, per non
causare a Gianluca e probabilmente a tutti gli altri miei figli, un trauma
psicologico causato dalla separazione legale che riconoscevo fattore di
turbamenti proprio nei giovani educati da una mamma che aveva sacrificato la
sua vita per la famiglia.
Così quando ripartii da Londra per Liegi,una domenica sul tardo pomeriggio,
nel salutare Gianluca volli dirgli che la mia decisione riguardo il
matrimonio non doveva considerarla irreversibile.
Ci abbracciammo teneramente, questa volta all’aeroporto di Gatwick e mi
imbarcai sull’aereo che mi avrebbe condotto dal mio
secondogenito che aveva soltanto quattordici mesi meno della sorella.
CAPITOLO QUARTO.
Mia madre mi aveva insegnato che in Romagna al primo figlio maschio si
aggiungeva al primo nome quello di Maria e così, se lo si desiderava, a tutti
i figli maschi e che il comportarsi in quel modo significava ingraziare sul
neonato la protezione della Madonna.
Così avevo fatto e con Dario e con Duilio ma non con Gianluca perché, a
queste superstizioni, con gli anni non credevo più.
Dario Maria ormai viveva da anni in Belgio con la sua compagna, una italiana
nata a Liegi da genitori siciliani emigrati, che per nulla al mondo avrebbe
mai preso la cittadinanza belga.
Lei era una bella ragazza bruna, di nome Alessia, che aveva incominciato a
lavorare a diciotto anni e che lentamente ma con estrema caparbietà era
salita fino ai vertici manageriali di una Banca che aveva aperto degli
sportelli assicurativi dei quali Alessia era dirigente.
A me, la donna di mio figlio piaceva moltissimo per quello stile francese che
portava in giro con estrema disinvoltura, per l’eleganza nell’abbigliamento e
non ultimo per quell’accento, con l’erre arrotondata, che lei non si
accorgeva di avere e perciò ancora più simpatico.
Per arrivare a Liegi,dotato di un aeroporto di medie dimensioni e non sede di
traffico internazionale di compagnie di bandiera, mi ero imbarcata su un
bireattore a quindici posti di una linea aerea privata che faceva la spola
con Londra.
Me lo aveva consigliato Dario Maria, al telefono, per non farmi affaticare
troppo nel caso avessi preso un volo per Bruxelles, dal momento che poi avrei
dovuto prendere il treno per giungere a Liegi anzi a Boncelles dove, nella
loro villa a due piani a duecentotrenta metri sul livello del mare immersa
nel verde tra campi da golf e scuderie, mi avrebbero attesa con Alessia in
quella domenica, impegnati entrambi in un lungo ed importante meeting di
lavoro.
Dario Maria lavorava come ingegnere elettronico in Olanda ed in Germania
presso la Mercedes-Benz, interessandosi in particolare di auto sportive e di
formula uno di cui era sempre stato innamorato.
Il suo ideale era di diventare al più presto uno dei responsabili della
sezione corse della casa di Stoccarda e poi, Dio volendo, essere assunto
nello stesso ruolo oppure in qualche altro di prestigio alla Ferrari e così
tornare in Italia.
Ricordavo ancora,come se fosse appena passato, il giorno che nacque.
Le doglie cominciarono presto alle cinque di mattino ma fino alle sette non
dissi nulla a Daniele, che dormiva tranquillamente accanto a me.
Ma quando mi si ruppe il sacco amniotico pensai che stavo esagerando anche
perché le contrazioni avevano preso un ritmo frequente e si presentava ogni
quattro minuti.
Ubbidiente ed anche un po’ incosciente, in quanto il parto di Antonella era
filato alla grande e quindi conoscevo con precisione che alla dilatazione
completa mancavano ancora un paio di ore, decisi di svegliare mio marito che,
sorpreso per la data che anticipava di più di dieci giorni la data presunta
del parto, mi ripeteva di essere tranquilla che in un quarto d’ora saremmo
giunti alla Clinica Quisisana ai Parioli dove, il direttore in persona della
Clinica Ostetrica della Sapienza che durante tutta la gravidanza mi aveva
seguita, aveva promesso a Daniele ed a me la sua presenza come aveva fatto
con la mia primogenita,
In realtà alla Clinica giungemmo dopo quasi un ora e mentre Daniele, che
aveva il numero diretto e personale del professore, aveva avuto qualche
difficoltà nel rintracciarlo, in me stava iniziando ad arrivare una gran fifa
di partorire in auto sempre per quella innata abitudine di non fare
preoccupare in anticipo gli altri.
In questo caso mio marito, come chirurgo di professione non si sarebbe mai
allarmato anche se avevo intravisto in lui un certo malcelato nervosismo
Alla presenza del suo amico ostetrico Daniele aveva ripreso la sua abituale
aria professionale, aveva assistito al parto e felice di avere un figlio
maschio mi aveva baciata come ai bei tempi,quando eravamo fidanzati, mi aveva
accarezzato dolcemente ed aveva sorriso felice al figlio che anche appena
nato sembrava un bambolotto bellissimo,sereno e serio.
Già,proprio i suoi occhi a mandorla e le sue lunghissime ciglia avevano
espresso anche a me ,stanca ma felice,l’impressione di una serietà molto
strana per un neonato sano e così carino come era Dario Maria.
Con il tempo avevo capito che quel visino serio gli sarebbe
rimasto per sempre come fosse la sua più importante caratteristica.
Dario Maria ed Alessia avevano preso una settimana di ferie in vista del mio
arrivo a Liegi a partire dal giorno dopo,lunedì.
L’incontro tra noi era stato caloroso e chiaramente si vedeva che non
sapevano che fare per farmi capire quanto fossero felici nel rivedermi.per
quanto né l’uno né l’altra, caratterialmente, fossero esuberanti
nell’esprimere con le parole la loro gioia ed il loro affetto.
Mio figlio,per esempio, che non aveva mai studiato musica ma che era un
autodidatta al piano ed alla chitarra ed un cantautore dilettante, dopo cena,
mi aveva suonato al pianoforte e cantato numerose canzoni, le ultime del suo
notevole repertorio già protette alla Società Autori ed Editori.
Per me,sua madre, erano creazioni stupende ed ancora non capivo da chi avesse
ereditato quel talento per quanto nella famiglia di mio marito vi fossero
stati alcuni musicisti di una certa fama.
Del resto anche il mio terzogenito, Duilio Maria, creava anche lui della
splendida musica che avevo, in passato, pensato potesse essere adatta per le
colonne sonore di films o per sceneggiati televisivi ,cosa che sembrava
stesse realizzandosi all’estero,in Canada dove in quel momento si trovava
dopo una permanenza a Los Angeles, di un paio di anni ospite della sorella
che in quella città possedeva alcune ville a Santa Monica.
Del resto era stato proprio lui che aveva spinto Antonella,in un primo
momento restia, ad organizzarle il suo businnes a San Francisco ed era stata
la sua competenza a non farle commettere l’ errore di accettare un ruolo
subordinato di stilista in qualche megagalattica SPA della moda che avrebbero
fatto carte false per ottenere la sua pregevolissima collaborazione.
Egli semplicemente l’aveva spinta ad agire da sola, unicamente con il suo
aiuto di eccezionale creatività nel mondo della pubblicità attraverso
Internet, la cui padronanza era eccezionale.
Tutto quello che Antonella stava ottenendo in America da un punto di vista
commerciale lo doveva esclusivamente al fratello che quindi era in realtà
socio, a tutti gli effetti, con la sorella.
Duilio Maria, oltre ad avere un grosso stipendio. era azionista della casa di
moda di Antonella e possedeva anche lui grosse liquidità che però ancora non
aveva deciso come, quando e dove investire.
Nemmeno aveva voluto acquistare immobili negli States od altro che lo
ancorasse definitivamente in quella nazione dal momento che la sua innata
creatività in continua evoluzione si rivolgeva in una miriade di progetti
tanto che io,pur ammirandolo, ogni tanto pensavo che avesse preso dal padre
una buona dose di innocua vena di follia.
Dario Maria aveva acquistato in Belgio insieme ad Alessia il terreno sul
quale avevano costruito la loro villetta, disegnandola egli stesso e creando
un progetto che prevedeva già un ampliamento che avevano rimandato nel tempo
quando avrebbero potuto disporre di molto più denaro.
I due piani di cui disponevano erano già una super casa con una sala
soggiorno al pianoterra di più di cento metri quadrati ben divisa, in un zona
salotto con poltrone e divani e pianoforte a coda stupendo ed una zona pranzo
arredata con gusto con mobili in legno di stile classico.
In fondo, la cucina anche quella di gusto classico molto ampia ed attrezzata
di tutte le comodità che qualsiasi donna vorrebbe possedere.ed un bagno non
molto spazioso ma molto comodo.
Al piano di sopra al quale si accedeva con una scala comodissima anche quella
in legno di noce massiccio, che non turbava affatto l’eleganza della sala
soggiorno, avevano tre camere due delle quali da letto,una matrimoniale e
l’altra così detta degli ospiti, ciascuna con bagni in marmo e ceramica di
diverso colore.
Ma la cosa che mi aveva stupito maggiormente era la terza spaziosissima
camera divisa in due parti da un arco in muratura con lo studio-biblioteca di
mio figlio da un lato mentre dall’altro era completamente vuota.
Non mi spiegarono il perché di quello spazio vuoto ma io volli intendere,
anche se non ci potevo credere né sperare, che lo avessero lasciato così per
un nipotino che ancora non avevo.
Quello che sapevo con precisione era che mio figlio non avrebbe mai
rinunciato ad un super Box-Officina, in un angolo del grande giardino, dove
per prima cosa aveva sistemato la vecchia macchina del nonno paterno, una
Fiat Coupè d’Epoca della quale era gelosissimo e che custodiva con ogni cura,
eseguendo personalmente ogni lavoro di manutenzione di cui avesse bisogno.
La passione che aveva per le auto era anche dimostrata dalla cura che
dedicava sia alla sua Fiat Barchetta che all’Alfa 147 di Alessia che spesso
lo prendeva in giro per quella sua mania che si portava appresso da bambino.
Lei del resto ed in questo mi somigliava moltissimo aveva la passione dei
fiori e delle piante che il giardino conteneva in abbondanza e che io ero
rimasta incantata nell’ammirare.
Ero felice per essere andata a trovarli dopo tre anni durante i quali erano
sempre venuti loro a Roma e mi stavo proponendo di non lasciare passare mai
più tanto tempo senza recarmi a Boncelles.
CAPITOLO QUINTO.
Durante tutta la settimana seguente Alessia e mio figlio mi fecero visitare
quasi tutto il Belgio e l’Olanda, portandomi in macchina ovunque vi fossero
belle cose da vedere, tra le quali ammirai molto alcune zone delle Fiandre e
delle Ardenne.
Vidi città come Gand, con le tipiche case gotiche che si specchiano nelle
acque dei canali e Bruges,una delle più suggestive e romantiche città del
Belgio con i suoi ponti che attraversano canali di ogni dimensione, con le
sue guglie ed edifici anche essi di stile gotico e con i suoi fiori ed i suoi
giardini e poi ancora Ostenda ed il mare del Nord, Anversa, Rotterdam e la
splendida ed affascinante Amsterdam.
Mi fecero conoscere quasi tutti i parenti di Alessia e tra questi conobbi i
figlioli del fratello che, abitando poco lontano da loro in una altra bella
villa, erano quelli che più frequentavano anche se mio figlio si lamentava a
causa del loro francese perché avrebbe preferito che parlassero di più
l’italiano, lingua che conoscevano tuttavia abbastanza bene.
Ma chi mi aveva impressionato di più era la madre di Alessia.
Quella anziana signora emigrata dalla Sicilia giovanissima era stata in
realtà il perno di quella famiglia.
Grazie ai suoi sacrifici ed al suo buon senso aveva fatto in modo che la sua
discendenza fosse, in Belgio, rispettata come si doveva per il senso
dell’onore che aveva inculcato in tutti i suoi figli senza togliere nulla
agli enormi sacrifici del marito,ormai morto da qualche tempo per un
ictus,che aveva lavorato tanto anche rischiando la pelle per tutti loro
Anche se io stessa avevo avuto una infanzia piuttosto travagliata avevo
pensato,ancora una volta, che le donne sono il nerbo delle famiglie e che i
loro sacrifici in fine sono ripagati generosamente dal Padreterno
Dovevo assolutamente ritornare in Italia dopo quel mese di relax che mi ero
concessa ed a malincuore,anche questa volta di domenica, un volo Alitalia mi
fece giungere a Rimini dopo due ore e mezza.
Dario Maria mi aveva accompagnato a Bruxelles con la sua coupè e nel
tragitto, tra la sua casa e l’aeroporto, mi parlò tanto dei suoi progetti per
tornare in Italia che dovetti chiedergli del perché si fosse tanto impegnato
nella realizzazione di quella stupenda villa nel punto più alto rispetto a
Liegi, tra i prati ed i fiori.
Egli mi spiegò che quella casa in Belgio voleva dire molto sia per lui che
per Alessia e che in ogni caso, anche se i suoi sogni si fossero
concretizzati, non l’avrebbe mai ceduta a nessuno perché proprio in quella
città era nata la sua compagna e lì Alessia voleva avere un punto di
riferimento nella sua vita.
Apprezzai le sue decisioni perché capivo perfettamente cosa potesse
significare per loro due, che si erano conquistati con sacrifici una
posizione importante in quella parte dell’ Europa, essere sicuri di non aver
lavorato invano.
Non volli, per non offendere il suo orgoglio di maschio, sfiorare nemmeno
l’argomento figli e così pensai che non sarei mai diventata nonna almeno da
parte sua per un tempo che poteva diventare eterno e che egli in realtà agiva
in maniera del tutto opposta a quella di suo padre che, da perfetto egoista.
ne aveva voluti quattro
Quando fui a Rimini riflettei nuovamente su quel viaggio che ancora una volta
mi aveva insegnato, come per darmi una conferma di cui non c’era
assolutamente bisogno, quale enorme differenza di carattere avevano quei miei
due figli:Gianluca e Dario Maria.
Il primo non vedeva l’ora di sposarsi perché amava la sua fidanzatina che
lavorava per il momento a Roma e che appassionatamente lo ricambiava e con la
quale desiderava di avere almeno un figlio, possibilmente una femminuccia, ma
forse anche due se il primo fosse stato un maschietto.
Gianluca però non aveva nessuna fretta di fare il gran passo con Martina e
come mi aveva spesso confidato ripeteva che la fretta fà fare i gattini
ciechi.
Con questo dimostrava come sempre la sua positività e la sua razionalità, non
disgiunta da una maturità che tuttavia non gli impediva di riflettere con
tenerezza su colei che forse,per un carattere più debole ed impulsivo,
avrebbe voluto subito avere un cuore ed una capanna
Quando avevo conosciuto Martina ero rimasta sbalordita dai suoi lunghissimi
capelli neri che teneva sciolti dietro la nuca e che raggiungevano il punto
vita.
Neri e lisci sembravano una vera cascata d’acqua che bene si intonavano con
la sua carnagione così scura da farla sembrare una mulatta, una splendida
giamaicana.
Alta e slanciata, con un paio di gambe niente male, faceva una ottima figura
per la flessuosità naturale che possedeva quando camminava anche perché
sapeva vestirsi con stile semplice ed al tempo stesso elegante.
Era nata a Roma ma portava impressi i cromosomi sardi della madre di cui era
orgogliosa e di cui si vantava ed anche gli occhi scuri e grandi erano occhi
che parlavano un idioma del sud mentre la miopia dava allo sguardo una
delicata e perenne serietà.
Il suo attaccamento a Gianluca era quasi morboso come era evidente la
gelosia, che dimostrava ancora di più la sua discendenza meridionale anche se
quella origine, purtroppo, metteva anche in evidenza la sua testardaggine e
cocciutaggine che in seguito avrei conosciuto meglio.
Quella sera dormii a Rimini ma la mattina successiva non fui in grado di
resistere alla tentazione di ritornare a Santarcangelo perché una potente
molla mi spingeva a rivedere la mia città e la piazza, con vicina la bella
chiesa dove mi ero ripromessa di recitare un rosario alla Madonna perché
proteggesse tutti i miei figli.
Ero serena e felice in quelle ore respirando l’aria del mio paese natio e più
ancora lo fui quando, nel prendere un cappuccino, potei sentire l’idioma dei
miei compaesani che capivo perfettamente.
Che bella cosa fu rivivere per un momento il mio mondo e sentirmi orgogliosa
delle mie radici!
Quanti sentimenti pur contrastanti mi ribollirono nell’anima e mi fecero
apprezzare di essere viva!
Non c’era niente da fare, la mia Romagna non l’avrei scordata mai e per
sempre fino alla morte l’avrei tenuta nel cuore, anche quando fossi stata di
nuovo dall’altra parte del mondo, in America, per riabbracciare e stare per
un poco vicina alla mia Antonella ed al mio Duilio Maria.
Così dopo sei ore mi ritrovai a Roma dopo aver percorso la Flaminia e poi la
Salaria non avendo voluto prendere l’autostrada perché il mio spirito si
sentiva tranquillo e rilasciato.
La nostra casa io e Daniele l’avevamo voluta un po’ fuori città nella zona
dell’Olgiata, tra il verde dei prati intorno e tra gli alberi che le facevano
da cornice vicino ai campi da golf.
Era una villa per otto persone ma in quel momento sembrava enorme solo per me
e per quella coppia di peruviani,marito e moglie, l’uno giardiniere ed uomo
tuttofare, l’altra cameriera e cuoca quando a me non andava di cucinare il
che avveniva spesso ora che vivevo da sola per l’assenza quasi continua di
mio marito.
Erano passati venticinque anni da quando ero entrata, per la prima volta, in
quella casa con Daniele assieme ad Antonella e Dario Maria e gli altri due
miei figli più piccoli.
Ricordavo come in un sogno quei tempi, conservati in un cassettino della mia
memoria, come un periodo strano della mia vita.
Mi si alternavano momenti colmi di gioia pura e di semplice felicità, accanto
ai miei figli, ad altri di tristezza infinita per la perduta libertà che
tanto avevo cercato dalla mia gioventù.
Mi sentivo come incatenata in una gabbia senza possibilità di uscita come se
fossi stata condannata da un fantomatico tribunale morale ad essere in quel
modo, comportandomi da moglie e madre, esente da difetti o da bisogni diversi
da quelli che gli altri si aspettavano da me.
Invece non era così perché, prepotentemente, la rabbia che talvolta sentivo
invadere improvvisamente il mio io era vera e schietta.
Soprattutto mi pareva che la vita si fosse incanalata in un tourbillon di
fatti che non avevo desiderato appieno e che mi avevano privato delle
infinite emozioni della giovinezza e non solo del mio lavoro, diventato una
pallida cosa di quanto mi si era prospettato, ma anche delle piccole e grandi
emozioni proibite che sempre capitano agli esseri umani.
Avevo in sostanza fatto un peccato di presunzione, pur così giovane ed ancora
inesperta, di quanto la vita può darti ed in quei momenti giungevo ad
invidiare coloro che avevano saputo resistere con grande coraggio alle
chimere che, in età ancora immatura, mi avevano fatto prendere delle
decisioni troppo frettolose come l’idea balzana di prendere un marito e
conseguentemente di avere tanti figli così innocentemente inesperta.
Ormai avevo combinato un bel pasticcio ed era inutile recriminare perché non
potevo più tornare indietro e nemmeno, con l’orgoglio che sempre era stato in
me il difetto ed il pregio più grande, confidarmi con qualcuno.
Ma infine ebbi il coraggio di cancellare la parte negativa del mio carattere
e quando Daniele un giorno, in cui stranamente eravamo rimasti soli in casa,
mi propose di fare all’amore così freddamente ed improvvisamente senza
preamboli e senza che prima vi fosse stato un minimo gesto o parola di
tenerezza, essendosi accorto che spesso aveva pianto in silenzio e di
nascosto, gli dissi che da quel giorno sarei cambiata totalmente e sarei
stata me stessa senza che nessuno potesse condizionarmi.
E così feci, pur sapendo perfettamente che egli se ne sarebbe assai risentito
perché mille e mille volte mi aveva detto che mi amava perdutamente e che mi
avrebbe continuato ad amare per sempre qualsiasi cosa fosse potuta capitare
tra noi.
Io sapevo che mio marito aveva detto la verità perché tranne il suo lavoro
così impegnativo e che ci separava ogni giorno di più nessuna altra cosa o
persona poteva distoglierlo da me.
Tuttavia egli non aveva capito che solo un rinnovato ritorno ai tempi in cui
ci eravamo incontrati ed amati, quando, se pure con grande sacrifici da parte
sua trovava il tempo per corteggiarmi e starmi vicino e per darmi ogni
sorriso con spontaneità soltanto per rendermi felice, avrebbe potuto riavere
tutta la tenerezza e tutto il mio amore sopiti entrambi.
Non avevo fatto i conti con la sua estrema testardaggine ed indolenza nel
cedere su problemi che egli non riusciva a porsi in modo semplice e lineare.
Per lui erano stati solo capricci di una bambina non cresciuta abbastanza
quella mia richiesta di fare un passo indietro ai tempi della mia e della sua
infatuazione giovanile.
Quello che mi avrebbe concesso, infine, era la promessa di starmi il più
vicino possibile in tutti i momenti che ne avessi sentito la necessità sia
che egli si trovasse a Roma sia che fosse a Perugia, dove stava per ottenere
la Cattedra cui teneva tanto.
A quel punto avevo avuto il coraggio di dirgli che non sarei più tornata
indietro sul fatto che sarei stata, come mi ero ripromessa, una buona madre
ma non più una moglie succube di un marito scienziato per tutti ma stupido ed
immaturo con la sua famiglia.
CAPITOLO SESTO
Ero tornata a Roma per sistemare alcune faccende finanziarie che avevo sempre
rimandato ad altri momenti e che nel frattempo erano divenute abbastanza
urgenti.
Avevo da circa sei mesi compiuto cinquantatre anni e mi ero ripromessa di
mettere ordine al mio personale patrimonio.
Ero titolare, grazie alla mia passata attività di stilista,del marchio che
una quindicina di anni prima mi aveva permesso di creare una Società per
Azioni della quale avevo mantenuto la maggioranza assoluta possedendone il
cinquantuno per cento.
La Società era stata quotata in Borsa ed io ero l’azionista di riferimento di
quel Gruppo che aveva una catena non indifferente di negozi in Franchising.
Avevo un bel numero di collaboratori di cui mi fidavo ciecamente e tra
stilisti, sarte ed addetti al Marketing si trattava di oltre cento persone
quasi tutte azioniste.
Avevo nominato Amministratore Delegato il mio vecchio e fidato protettore
omosessuale dei primi anni della mia vita nel campo dell’Alta Moda ed io
Presidente della Società potevo affidarmi a lui assolutamente.
In quel momento avevo pensato di prendere importanti decisioni riguardo al
mio futuro anche perché non dovevo per nulla preoccuparmi di nessun altro
problema.
Tutti i miei figli erano ben sistemati e grazie al sostegno economico del
padre non avrebbero nemmeno in seguito avuto bisogno di tutto quel mio denaro
che come una formichina avevo risparmiato.
Ma il mio più grande desiderio era quello di pensare, nonostante tutto, al
loro benessere e soltanto allora sarei stata felice di aver compiuto tutto il
mio dovere di madre.
Daniele era stato un padre perfetto sotto questo profilo e pur di soddisfare
le loro esigenze nelle rispettive professioni avrebbe fatto carte false
Non mi davo pace solo per il fatto che la nostra era una famiglia sui generis
e che mai avrei potuto dire di aver avuto dalla vita quello che mi sarei
aspettata nella mia adolescenza di ragazza semplice e bisognosa di
affettuosità e di amore che,con allegria, si manifestasse nelle piccole cose
di ogni giorno.
Anche il fatto che tutti i miei figli avessero voluto andarsene per il mondo
a cercare il loro futuro mi rattristava e non per egoismo materno oppure per
il bisogno di sentirli vicini a pelle ma perché le possibilità di vederli e
di sentirli, nelle loro confidenze piccole e grandi, sarebbero divenute
sempre più aleatorie man mano che il tempo fosse passato.
Erano troppo grandi le distanze chilometriche che ci separavano e se per il
momento questo problema poteva essere superato pensavo al giorno che avrei
avuto molti più anni e come avrei fatto senza nipotini da vedere crescere e
sbaciucchiare.
Dovevo assolutamente trovare una soluzione perché a tutto avrei rinunciato
meno che alla vicinanza con i miei nipoti, ancora nel pensiero di Dio, ma
certamente presto realtà certe e bellissime.
Questa volta avrei usato soltanto la razionalità per riuscire nello scopo ed
avrei certamente raggiunto quello che mi ero prefissata e che sentivo
bruciarmi nel cuore.
Come se fossi stata folgorata da una precisa premonizione mi raggiunse,nelle
ore seguenti, una telefonata di Antonella da San Francisco che in breve mi
avvisava di essere rimasta incinta e che le ecografie avevano dimostrato una
gravidanza gemellare.
Il suo compagno, Alfred, un italo americano che lavorava come ricercatore
all’Università di Berkeley era impazzito di gioia e si sarebbero sposati tra
poco più di venti giorni.
Io dovevo raggiungerla al più presto anche senza Daniele perché senza di me
si sarebbe sentita una povera orfana, per di più in un momento della sua vita
così importante e felice.
Avrei avuto il tempo di prepararmi in quanto la mia permanenza negli USA
sarebbe durata un bel po’almeno fino al parto ed anche oltre.
Le feci le mie congratulazioni e la promessa che tutto si sarebbe svolto
secondo i suoi desideri che, poi, erano anche i miei.
Le promisi anche che avrei dato la bella notizia ai suoi fratelli in
Inghilterra ed in Belgio dal momento che sarebbe stata lei stessa che avrebbe
informato Duilio Maria in quel momento in Messico.
Nelle giornate seguenti non ebbi un attimo di sosta a furia di girare fra la
sede della mia SPA, le Banche ed i vari Commercialisti che mi assistevano nei
rapporti col Fisco e buon ultimo, ma primo per le mie intenzioni, il Notaio
di mia fiducia.
Avevo deciso che avrei provveduto io all’istruzione di tutti i miei nipoti
dando ordini precisi in questo campo, alla sola condizione che fossero
Scuole, Collegi ed Università di primissimo piano qualsiasi scelta, in
futuro, fosse maturata nei loro cervelli.
Ognuno avrebbe avuto a disposizione una somma di denaro, vincolata a quello
scopo, pari a duecentomila dollari.
Ad ognuno dei miei figli,che avessero avuto dei bambini, sarebbe andato come
una specie di premio di produzione, centocinquantamila dollari per ogni
nipotino o nipotina.che fosse venuta al mondo.
Quello del premio di produzione era stata una idea veramente balzana,
assolutamente lontana mille miglia dal mio modo di essere e di pensare ma non
avrei saputo cosa altro fare per urlare a loro ed a me stessa la desolazione
della mia vita e la mia tristezza di donna, lasciata sola in un mondo che
badava unicamente al benessere economico ed al successo professionale.
Come fossero lontani i tempi dove il sorriso spuntava naturale e dolcissimo
solo al pensare ai momenti di intimità, di un pranzo o di una cena, consumati
insieme e quando, in quelli spazi di tempo, ognuno si confidava all’altro e
tutti insieme parlavano di mille cose, magari bisticciando, era il cruccio
della mia povera vita!
Tuttavia a me, che avevo sempre creduto nell’aiuto del Signore, stava per
capitare un doppio miracolo che mai avrei potuto immaginare: quello di vedere
finalmente il sangue del mio sangue generare parte dei miei cromosomi e
quello del riavvicinarsi di mio marito che improvvisamente, alla notizia
della gravidanza di Antonella che gli avevo dato al telefono,si era
precipitato a Roma dall’Australia per dirmi, con estrema umiltà che mi
adorava e che mai più mi avrebbe lasciata sola e che tutte le idiozie della
carriera inseguita alla morte e quelle che riguardavano i nostri freddi
rapporti sarebbero scomparse dì incanto.
Egli aveva finalmente capito che sua moglie valeva più di qualsiasi altra
cosa al mondo e che era venuta l’ora di passare insieme tutti gli anni che ci
fossero dati di vivere.
Al lavoro avrebbe da quel momento dedicato il minor tempo possibile finendola
di inseguire chimere di nessun significato e che avrebbe affidato ad
altri,suoi allievi,il compito di proseguire la strada che egli aveva
tracciato.
Mi aveva accarezzato il viso, dove erano cominciate a vedersi piccole rughe
ed i capelli con qualche filo grigio e mi aveva baciata con una tenerezza
tale da farmi sentire veramente la regina del suo cuore.
D’incanto erano scomparsi nella mia anima e nel mio cuore tutti i
risentimenti e le critiche che così a lungo avevo covato e per la prima volta
dopo tanti anni sentivo di non aver sbagliato nello sposarlo.
Nel preparaci a raggiungere Antonella per il suo matrimonio mi disse anche
che nessuno al mondo avrebbe preso il suo posto nell’accompagnare la sua
bambina all’altare e questa decisione volle comunicarla alla figlia
immediatamente.
Lo stupore di Antonella fu pari alla sua gioia tanto che, poi, mi chiese
spiegazioni su cosa fosse successo a Daniele per quel repentino cambiamento
di comportamento.
Alla domanda, ridendo. risposi sibillina che si era innamorato perdutamente
della sua mamma.
Cinque giorni più tardi prendemmo un volo No-Stop transpolare per Los Angeles
dove ci stava attendendo sorridente e sempre più bella nostra figlia con una
pancetta che era tutto un programma.
CAPITOLO SETTIMO
Antonella, nei tre anni durante i quali non l’avevo più vista da quando era
venuta l’ultima volta a Roma, era diventata ancora più donna di quanto
ricordassi ma una donna speciale per l’eleganza tutta italiana nel vestirsi,
che confrontata con quella di quasi tutte le americane, faceva capire il
motivo per cui il gusto e lo stile della sua casa di moda avesse avuto tanto
successo da quelle parti.
Le stoffe e le rifiniture dei suoi abiti, il taglio e la creatività unita
alla semplicità facevano di lei e conseguentemente di tutte le sue clienti
una specie di casta non confondibile con moltissime altre donne che si
rifornivano di vestiti da altre celebri case di moda.
Era come se le sue affezionate clienti americane di ogni età appartenessero
ad un altro pianeta, inconfondibili ed era chiaro a sufficienza che il suo
successo non le era stato per nulla regalato.
Lo dimostravano anche i suoi premaman avvolgenti la sacralità della maternità
e le sue creazioni da sera che avevano il pregio di poter essere indossate
con disinvoltura senza che le donne si sentissero impacchettate come un
regalo costoso.
L’avere constatato, “de visu”, tutto ciò mi aveva riempito d’orgoglio ed il
mio pensiero era stato che mia figlia avesse realmente ereditato da me una
grande e fortunata arte, che potevo paragonare a quella pittorica di tanti
italiani i quali avevano superato tutti per la stupenda bellezza delle loro
tele con le quali avevano riempito il mondo.
Antonella ci aveva sistemati nella villa al mare di Santa Monica, che lei
teneva a disposizione di Duilio Maria, il quale dalla bella Vancouver spesso
scendeva a Los Angeles per lavoro oppure per passare con lei un periodo di
relax come sarebbe accaduto entro pochi giorni per riabbracciare me e suo
padre.
Non riuscivo ad immaginare come mio figlio fosse diventato.
Una volta,anche lui come il padre, da giovane, era veramente un vulcano in
eruzione continua sempre dietro a due cose, le donne e la sua inventiva che
si manifestava in tutti i campi dell’informatica e della musica ma anche
nello scrivere sceneggiature per pellicole di fantascienza.
Duilio Maria aveva sempre avuto un carattere impulsivo e già quando era
soltanto un bambino, con i capelli biondi e riccioluti, era stato un vero
terremoto senza che si potesse lasciarlo un istante
da solo, a scanso di guai e pericoli inimmaginabili.
Spesso mi era chiesta come mai il destino avesse voluto che i miei due figli
meno prevedibili fossero entrambi andati a vivere nel lontanissimo West del
continente nord-americano.
La utopistica domanda era rimasta sempre senza risposta però in quei momenti
che vivevo anche io in California, in un certo senso vicina a loro, avevo
avuto una intuizione che mi era parsa probabile.
Loro due in fondo così diversi si completavano da un punto di vista
caratteriale e quindi era giusto che ciò fosse avvenuto.
Alcuni giorni più tardi Duilio Maria si era presentato a casa di sua sorella
improvvisamente e come se ci fossimo visti da poco disse soltanto, a me ed a
suo padre senza particolare calore né con frasi di circostanza usuali, nelle
quali si potesse indovinare la sua grande emozione, che era felice che
fossimo arrivati ma io conscendo fino in fondo il suo carattere, vidi nei
suoi occhi a mandorla che lo facevano assomigliare ad un orientale una enorme
gioia che mio figlio come al solito mascherava con il solito splendente
sorriso di un grande furbacchione.
Si era portato con sé una splendida calforniana,biondissima e con gli occhi
incredibilmente di colore blù che non spiccicava una sola parola di italiano
e che anche Daniele, che pure conosceva molto bene l’inglese, riusciva a
malapena a capirne l’idioma.
L’aveva presentata come una amica ma la sera quando andarono a dormire si
erano ritirati in una delle numerose stanze da letto della villa.
Le giornate successive furono per me una vera vacanza tra la pancietta di
Antonella che si preparava alle nozze con Alfred, un uomo giovane castano
chiaro ed aitante che alternava gli studi di ricerca alla palestra e che
portava con estrema disinvoltura i suoi trentacinque anni chiamandomi
semplicemente mamma con un sorriso accattivante e Duilio Maria che in pratica
non mi lasciava un solo istante e che si era messo in testa che io potessi
imparare il surf, nuotatrice provetta come in realtà ero.
Aveva scelto assieme ad Antonella il suo abito da sposa, genere per cui ero
diventata in Italia famosa, molto semplice, lungo appena sotto il ginocchio e
fatto di un nuovo tipo di stoffa assolutamente da favola, che io stessa le
avevo indicato di colore verde pastello e che tanto si addiceva agli occhi di
mia figlia. Non molto attillato , metteva in risalto la sua figurina sottile
ed elegante, non guastata dal ventre appena prominente per la gravidanza.
Tuttavia erano i particolari di quel vestito il punto di stile
inconfondibile, come gli orli ricamati a mano da una sua giovane
collaboratice,anche lei italo-americana che aveva imparato da ragazza quel
difficile mestiere iniziando da una scuola di suore bianche,magistrali
maestre del ricamo e come la scollatura che era una vera opera d’arte così
originale da essere poi scopiazzata da tante altre case di moda.
Il tutto poi si alternava con gite turistiche a Santa Barbara,ad Holliwood, a
San Diego e così via con l’enorme auto di mio figlio una Cadillac, piena di
confort,con la quale volle portarmi pure a Las Vegas assieme alla sua
biondissima fiamma che da perfetta americana esibiva con estrema disinvoltura
le sue esuberanti forme ed il suo procace seno bellissimo.
In uno dei tanti alberghi-casinò mi riuscì pure di vincere, con mia grande
meraviglia, un migliaio di dollari ad una slot piazzata nella hall
dell’Hotel.
Mi ero chiesta pure cosa significasse per Duilio Maria quella donna ma non
ebbi il coraggio di chiederglielo,rimandando ad altro momento quella mia
curiosità.
Prendemmo pure un piccolo aereo da turismo che poteva portare una dozzina di
persone per sorvolare il Grand Canyon e capii allora del perché fosse così
famoso ed il motivo per cui ognuno che l’avesse visto non lo poteva
dimenticare.
Lo spettacolo di una bellezza vertiginosa fù così imponente ed al tempo
stesso così fuori dal mondo che pensai quale brutta fine avremmo fatto se
quel piccolo aereo fosse improvvisamente precipitato tra quelle gole
profonde.
Ma quella idea negativa durò l’attimo di un battere di ciglia perché Kim,quello
era il nome dell’amica di mio figlio,con una sonora risata contagiò tutti i
passeggeri che come una liberazione si misero a ridere anche loro tanto forte
ed esplosivamente da fare scordare ad ognuno il pericolo che tutti avevano
avvertito, specie quando il pilota si era improvvisamente abbassato di quota,
facendo, come da cerimoniale, salire lo stomaco in bocca a tutti noi.
Non poteva mancare,il giorno dopo, una visita in un posto che piaceva a
Duilio Maria, così senza niente ,così povero e davvero pieno di orrore da far
riflettere chiunque sulla precarità della vita e su noi stessi turisti
fortunati che non erano costretti a vivere in quel luogo,la Death Valley nel
deserto.
Ancora una volta avevo apprezzato la sensibilità di mio figlio sotto quell’aspetto
dissacrante che vestiva sempre, per apparire uomo duro e soprattutto
indifferente alle vicende umane di chi a mala pena riusciva in America a
sbarcare il lunario quando quel paese concedeva a tutti enormi possibilità di
successo
Daniele ed io eravamo ridivenuti una coppia di sposi quasi perfetta e ciò per
merirto in parte del clima che stavamo vivendo in California ma forse, ancora
di più, di Antonella che con i suoi baci e carezze, distribuiti in eguale
misura sia a me che al padre, ci aveva ammorbidito il carattere ormai
indurito da anni di contrapposizioni che avevamo finalmente capito quanto
fossero inutlmente dannose.
Mi sarebbe piaciuto pensare che il merito di questo miracolo fosse stato
esclusivamente di Daniele ma in verità anchio avevo fatto la mia parte quando
ebbi la sensazione che potevo essre un po’ più dolce con lui senza attacarlo
così spesso
Antonella aveva voluto accompagnarci a San Francisco dove la sua Casa di Moda
si era ultimamente ancora più ampliata con nuove iniziative a cui aveva
contribuito in modo determinante Duilio Maria con una forte espansione in un
nuovo business che, oltre a comprendere la moda degli adolescenti, si
interessava anche di foulard e di cravatte settore quello che mancava
praticamente del tutto in California.
Così avevo potuto ammirare la sua casa,un attico sulla cima di un
grattacielo,con piscina per idromassaggi e giardino pensile,molto accogliente
ma per me fonte di un certo timore a causa di una mia atavica paura dei
grattacieli e dei terremoti in genere.
A nulla erano valse le parole della mia figliola sulla sicurezza degli
ascensori e sui sitemi antisismici,criteri che comprendevo ma che non
riuscivano a tranquillizzarmi affatto anche perché avevo letto del tremendo
terremoto che aveva colpito la città radendola al suolo,in un tempo ormaì
lontanissimo,ma anche delle previsioni non certo rassicuranti di moltissimi
scienziati sulla faglia di Sant Andrea.
Però le visite che avevamo fatto sia della città, resa famosa anche da
Hollywood con i suoi ponti e la baia incantevole, sia dei parchi naturali
come quello affascinante di Yosemite, relativamente vicino ad est, mi avevano
costretto a riappacificarmi con San Francisco.
Anche i ristoranti cinesi al porto erano qualcosa di inimmaginabile per i
buoni piatti,tutti a base di pesce alimento base di mio marito e per il modo
di essere cortesi da quella razza che aveva saputo leggittimamente prendersi
una fetta non indifferente del commercio in California.
Daniele aveva approfittato di tutto quel tempo libero per recarsi,su invito
di suo genero, a fare una conferenza alla facoltà di chirurgia sperimentale
di Berkeley.
Da quando aveva,come promesso, portato all’altare sua figlia lui ed Alfred
erano diventati inseparabili e si capiva benissimo quanto quest’ultimo
ammirasse mio marito per le sue non discutibili qualità professionali
conosciute bene, tramite le innumerevoli pubblicazioni scientifiche anche
negli USA.
Mio marito aveva chesto un lungo periodo di aspettativa all’Università di
Perugia e come mi aveva detto a Roma era anche sempre presente vicino a me,
specialmente quando ne avevo più bisogno e così passavamo il tempo
insieme,cosa che poco tempo addietro non avrei mai immaginato potesse
accadere.
Arrivò così il tempo del parto di Antonella,dopo più di sei mesi passati in
America.
I miei nipotini erano dunque americani di fatto e di legge e questo mi aveva
leggermente resa scontenta perché avrei certamente preferito che fossero
italiani.
La felicità che mi aveva regalato Antonella non poteva essere stata più
grande anche perché aveva partorito un maschio ed una femmina,due pulcini
l’uno più bello dell’altro se pure i neonati sono tutti splendide creature.
Avrei dovuto attendere diversi anni per vederli cresciuti e di questo cruccio
ne parlai con Daniele che mi lasciò libera di scegliere se avessi voluto
rimanere in America ancora per tutto il tempo che avessi ritenuto giusto
oppure se avessi preferito tornare in Italia con lui.al più presto.
A questo dilemma non fui in grado di rispondere subito e gli risposi soltanto
che ci avrei pensato ancora per un mesetto.
CAPITOLO OTTAVO.
Così avevo deciso.Sarei rimasta ancora vicina ad Antonella ed ai mie nipotini
per un altro mese almeno ed avrei coccolato sia Elisabeth che Bruce come si
conveniva ad una nonnina con tutto l’amore che mi riempiva il cuore ed avrei
ricevuto tanto affetto, da mia figlia e da mio genero, del quale avevo
assoluto bisogno.
Comunicai a Gianluca ed a Dario Maria quanto avessi a lungo meditato sul
daffarsi ed ottenni anche la loro approvazione.
Dissi anche che Antonella era rimasta dispiaciuta della loro mancanza al
matrimonio oppure,se il loro tempo libero fosse stato troppo breve per
recarsi in America per troppi giorni, al battesimo dei due nipotini.
Sia Dario Maria che Gianluca si erano immediatamente scusati con la sorella
ma avevano entrambi promesso che non sarebbe mancata l’occasione per stare
tutti assieme,come una volta, quando avrebbero risolto i loro problemi di
lavoro giunti ad una fase ìmportante e decisiva per la loro carriera.
Avevo anche aggiunto che con Daniele le cose si erano sufficientemente
sistemate e che con il loro papà non vi sarebbero stati screzi, mai più,
almeno da parte mia.
Come donna però sentivo che stavo mentendo ai miei figli perché, in fondo
all’anima, sentivo ancora un profondo astio nei suoi riguardi.
Si era comportato bene negli ultimi tempi e ciò dimostrava che aveva ceduto
su molti punti del suo caratteraccio, ma il rancore che mi portavo appresso
da tanto tempo non ero riucita a cancellarlo del tutto per quanto avessi
tentato,con tutte le mie forze, di farlo.
Probabilmente era vero il proverbio che diceva “Moglie e Buoi dei paesi
tuoi”, ma io non avevo mai creduto ai proverbi.
Daniele veniva da una famiglia meridionale anche se aveva sempre vissuto al
centro-nord e quindi si era portato appresso, come le impronte digitali,
tutti i cromosomi dei suoi ascendenti.
Tra questi alcuni erano fortemente positivi, quali l’ambizione , l’orgoglio,
la perseveranza, lo stimolo ad ottenere con enormi sacrifici personali quanto
la vita potesse concedergli come posizione sociale.
Ma una infinità di altri erano altrettanto negativi ed il frutto di un modo
di vedere la vita troppo seriamente, senza una risata che fosse una,senza il
minimo desiderio di divertirsi specie con sua moglie che rispettava ed
adorava ma che considerava,alla stregua di tutte le donne, essere leggermente
inferiore il che evidenziava in lui quel misoginismo del quale era impregnato
ma che non si accorgeva di possedere.
Una sola cosa vedeva chiaramente e cioè quanti sacrifici costava a tutte le
donne la maternità ed il crescere i figli con amore ed abnegazione totale, il
che rappresentava per Daniele il massimo pregio dell’umanità,quasi
paragonabile a qualcosa di divino.
Piacevolmente erano passati i giorni della mia permanenza in California che
avevano dato al mio spirito nuova linfa vitale.
Tutta o quasi la mia attenzione si era rivolta a quei due esserini che
Antonella aveva messo al mondo quasi per farmi il regalo più gradito che
potessi desiderare.
Ero stata anche molto corteggiata da alcuni maturi amici di mio genero che mi
avevano colmata di mazzi di fiori e di gentili pensieri tanto che la mia
vanità di donna, ancora bella e di classe, era stata in parte solleticata e
rivalutata senza tuttavia che da quei corteggiamenti potesse nascere nulla di
più che una cara amicizia, gradevole per una come me assolutamente restia
alle avances degli uomini, in ogni età predatori di donne sole ed
affascinanti come mi dicevano che io fossi.
Mi ero dedicata dalla gioventù all’alta moda e conoscevo bene, per le
confidenze delle mie clienti e per le esperienze che io stessa avevo avuto,
quali estremi tentativi usasse l’altro sesso per ottenere ciò che di più a
loro interessasse,cioè la soddisfazione del personale erotismo che per
costoro valeva più di ogni altra cosa.
Su questo argomento, restia alla nausea di erotismo, con me erano capitati
malissimo se pure l’avessero desiderato mentre accettavo con piacere il
corteggiamento che mi faceva sentire ancora giovane.
Ma altri erano i veri problemi che anche lì lontana dalla mia casa
covavo,anche senza che questi potessero modificare lo stato di grazia in cui
mi trovavo.
Erano i pensieri che mi assillavano quando pensavo a Daniele e tra questi uno
premeva quotidianamente.Quale sarebbe stato il suo atteggiamento una volta
che fossi tornata a Roma, quello passato oppure quello recente dei giorni
passati insieme in America?
In realtà ci eravamo sentiti quotidianamente al telefono e quelle telefonate
erano state veramente carine.
Aveva usato, nel parlarmi, termini non usuali per lui restio a sdolcinature
verbali come “Amore mio” oppure “Angelo della mia vita” tanto che mi ero
commossa da avere gli occhi umidi di pianto.
Una sola idea aveva comunque fatto capolino nel mio cervello di donna troppe
volte disillusa da realtà diverse che, simili a sogni, non si erano poi
realizzate. E se poi tutte le belle speranze che stavano facendo capolino non
fossero altro che creature della mia fantasia?
Non avevo più voluto affliggermi con quelle elaborazioni mentali e per quelli
ultimi giorni di mia permanenza non volli pensare ad altro che ad Antonella,
a Bruce ed ad Elisabeth.
Quando Daniele mi comunicò che era suo desiderio venire a prendermi perché
cosi avrei fatto il viaggio di ritorno assieme a lui mi sembrò di toccare il
cielo con un dito ma contemporaneamente fui assalita da uno stato ansioso
incomprensibile.
Il giorno dopo i media interruppero i programmi per annunciare un disastro
aereo causato da una collisione nei cieli del Tirreno.
Tra i dispersi nelle acque di quel mare che tanto avevo amato c’era Daniele,
mio marito.
DIARIO DI UNA ROMAGNOLA DOC
SECONDA PARTE
CAPITOLO PRIMO
Elisabeth era cresciuta in America fino a cinque anni, quando mia figlia
Antonella mi disse in un suo viaggio a Roma con i suoi gemelli.
- Mamma, se per te va bene, mi piacerebbe lasciarti Elisabeth. So di
chiederti un grosso sacrificio per la responsabilità che ti assumeresti, ma
io penso che nessuna altra persona al mondo potrebbe essere più adatta di te
nel farla crescere educata e piena di buoni principi. -
Si fermò per un momento, poi aggiunse.
- Te la vorrei lasciare per un lunghissimo periodo, forse finchè non sarà
grande e matura per camminare con le sue gambe. Questo fatto poi sarebbe la
molla per venirvi a trovare molto spesso e così io ti sarò molto più vicina
che adesso. Se tu sapessi come crescono male i bambini in California, i
pericoli sono nascosti ovunque ed io posso garantire la mia attenzione
soltanto a Bruce che come maschio è meno vulnerabile, più svelto e furbo
della sorellina.-
Guardai mia figlia bella come una stella del mattino all’alba.
Era davvero molto preoccupata mentre Elisabeth non si voleva più distaccarsi
dalle mie gonne.
Presi la bambina in braccio e baciandola chiesi.
- Elisabeth vuoi rimanere dalla nonna? Devi però promettermi che non farai
molti capricci e che non piangerai troppo spesso. -
La piccola capiva perfettamente l’italiano e l’inglese ed Antonella era stata
davvero brava nell’ insegnarle la lingua materna.
- Sì nonnina, sarò la più brava bambina del mondo e vedrai che staremo molto
bene insieme. Alla mamma parlerò al telefono e verrà almeno una volta al mese
qui a Roma vicina a noi due -
Non potei fare a meno di giudicare la mia nipotina una bambina eccezionale e
molto giudiziosa e sua madre una figlia affettuosa, impareggiabile sia per il
buon senso che stava dimostrando ma anche per l’attaccamento che mi stava
manifestando.
Lei sapeva che non ero sola e che vivevo in quella villetta, quasi sempre, in
compagnia del piccolo Raffaele, il figlio di Gianluca e di Martina, di soli
due anni e che non avevo il tempo di annoiarmi per badare a lui, quando i
suoi genitori andavano a lavorare entrambi.
Erano ormai quattro anni e mezzo che ero rimasta vedova del mio Daniele.
Quell’incidente aereo, che me lo aveva portato via quando lo stavo aspettando
a San Francisco per tornare insieme in Italia, era capitato proprio nel
momento che avevo creduto potesse cambiare la mia vita.
Il suo ricordo si era mantenuto però vivo e caro nel mio cuore, e quella
metamorfosi era avvenuta miracolosamente in America, a casa di mia figlia.
Daniele era ritornato ad essere, negli ultimi tempi, l’uomo che aveva amato e
sposato, dolce e premuroso nei miei riguardi come non avrei potuto pretendere
di più ed avevo immaginato la mia esistenza piena di affettuosità, di
tenerezza e finalmente di quell’amore che mi si era assopito e seccato dentro
come un bel fiore messo tra le pagine di un libro della mia gioventù.
Avevo cercato, dopo la sua morte, di rifarmi una vita in America vicina ai
miei figli Antonella e Duilio Maria ed ai miei due nipotini ma non vi ero
riuscita.
Anzi, era subentrata nel mio cuore una grande tristezza che non poteva essere
lenita né dai gemelli né da nessun altro uomo che Antonella aveva insistito
di presentarmi.
Troppa era la differenza nel modo di vivere degli americani rispetto al mio e
troppa era la nostalgia che mi possedeva della terra dove ero nata e della
città dove ero vissuta.
Una mano me la aveva data il più giovane dei miei figli, Gianluca che era
riuscito a farsi trasferire da Londra a Roma cogliendo al volo una grande
occasione riguardante la sua professione.
L’avevano destinato alla Direzione Finanziaria Romana di una prestigiosa
Banca di Affari e di Investimenti legata alla multinazionale da cui
dipendeva.
Sapevo, come mamma, che lo aveva fatto per me ma anche per sposarsi con la
sua innamoratissima e gelosissima Martina.
Era venuto ad abitare vicino alla mia villa all’Olgiata in una più modesta
villetta a duecento metri dalla mia.
Avevo insistito per farli vivere assieme a me ma non avevano accettato. Mi
aveva detto.
- Mamma, sei troppo giovane ancora per obbligarti a sacrificarti per noi ed
il tuo privato deve essere libero da qualsiasi ostacolo. Devi riprendere la
forza per vivere felice e non devi privarti della tua libertà ed in
particolare per colpa nostra. -
Io e Martina ti saremo sempre vicini e potrai contare su noi per qualunque
bisogno. In pratica vivremo gli uni vicini all’altra. -
Era il solito Gianluca sempre affettuoso e razionale, il mio tesoro di figlio
che parlava in ogni caso con saggezza.
Infatti alla nascita del loro Raffaele fui io che in pratica mi trasferii a
casa loro per un paio di anni, malgrado mio figlio avesse assunto a tempo
pieno una baby-sitter con un chilometro di referenze.
Martina non aveva voluto attendere oltre e poco tempo dopo il suo matrimonio
con mio figlio era rimasta incinta.
Le fui molto vicina durante la gravidanza ed i nostri rapporti si strinsero
ancora più strettamente rispetto al periodo che lei era stata la fidanzata di
mio figlio di stanza a Londra.
Non aveva voluto lasciare il suo lavoro, che negli ultimi due mesi di
gravidanza ed io l’accompagnavo ogni volta che si recava dal suo ginecologo
per farle sentire che la consideravo come una figlia acquisita e molto
gradita, anche se la sua mamma non era da meno accontentandola in ogni
desiderio che le poteva venire e non facendola affaticare per nulla a casa.
Raffaele già carino alla nascita era diventato, crescendo, uno splendido
bimbo più alto dei coetanei di almeno tre centimetri, robusto e di carnagione
ed occhi, scuri come quelli della madre.
Me ne ero innamorata e non lo nascondevo a nessuno tanto che, con la scusa
che la nonna materna abitava molto lontano dall’Olgiata, avevo chiesto a
Martina ed a Gianluca di permettermi di tenerlo durante il giorno appena
compiuti i due anni a casa mia pur con la presenza della sua baby-sitter.
Sia Martina che mio figlio furono felici per la mia proposta e così nello
spazio di pochi anni la mia villetta fu piena di grida dei miei due nipotini,
Raffaele ed Elisabeth e talvolta di pianti di bambini.
Non avrei mai creduto che due cugini, sebbene belli come angeli quando
dormivano, potessero essere così tremendi nei loro giochi infantili.
Raffaele oltre che tanti baci, dava ridendo certi spintoni ad Elisabeth
veramente tremendi, accompagnati da calci e pugni in abbondanza.
Io cercavo di essere sempre presente per fare pesare la mia autorità di nonna
ma non sempre riuscivo a contenere l’esuberanza del figlio di Gianluca.
Facevo di tutto perché si comportassero da persone civili ed in effetti
lentamente ero riuscita ad addomesticare in particolare Raffaele che dopo
qualche mese, avendo stabilito che chi comandava era lui, era diventato molto
meno aggressivo dei primi tempi.
Contemporaneamente tutti e due volevano che li tenessi in braccio e con tutto
ciò che la baby-sitter li strillasse entrambi in inglese, cosa molto utile
per Raffaele che così cominciava ad imparare una lingua straniera velocemente
come avviene con tutti i bambini, io stavo cominciando a spazientirmi con
tutti e due perché, a furia di tenerli in braccio, avvertivo dolenze anzi
veri i dolori alle braccia. alle spalle ed alle mani di cui non avevo mai
sofferto.
La gioia che i bambini mi davano tenendoli tutto il giorno con me era però
superiore ai miei malanni e così non ne feci cenno a nessuno.
D’altro canto ero stata io che li avevo voluti ma non avrei mai immaginato a
che prezzo!
Gianluca e Martina poi mi riempivano di regali, di bellissime piante che
mettevo nel terreno del giardino e di baci che mi ripagavano di tutto.
A modo mio mi sentivo felice di quella vita ma ugualmente sentivo quanto mi
mancasse un uomo che si prendesse cura di me.
Spesso pensavo cosa avrei fatto man mano che gli anni fossero passati.
Avevo superato brillantemente il periodo più duro e lungo della menopausa
senza ricorrere ad alcuna medicina ed usando soltanto la camomilla come
tranquillante ed in quel periodo, con i bambini chiassosi che mi davano
impegni ed allegria, mi sentivo pronta a fare qualcosa esclusivamente per me
stessa.
CAPITOLO SECONDO
Quando iniziò l’anno scolastico, ad ottobre, dopo essermi messa d’accordo con
Antonella che a settembre era venuta a Roma per restare quindici giorni con
Elisabeth e con me, decisi di fare frequentare a mia nipote, la prima
elementare, in una scuola italiana privata, di suore.
Era una bella scuola con un grosso parco a cinque chilometri dalla mia casa
dove non solo si insegnavano i primi rudimenti della nostra lingua ma anche
c’erano lezioni di inglese con insegnanti di madre lingua oltre che le
fondamentali nozioni di aritmetica e di informatica.
Mi ero meravigliata che le suore avessero organizzato così bene il loro
Istituto scolastico e che prendevano in prima, bambini di cinque anni maschi
e femmine, con molte attività sportive legate al corso fondamentale.
Ma c’era di più. Per le bambine esistevano corsi separati di danza, con
selezionati insegnanti professionisti sia per la danza classica che moderna.
Elisabeth ne era entusiasta ed al mattino si svegliava da sola per aspettare
il pulmino della scuola che l’avrebbe portata dalle suore alle otto e mezza e
riportata a casa alle diciotto e trenta.
Mi diceva felice che andare a scuola era la più bella cosa del mondo e che
stare a Roma con me era una meraviglia.
Alcune volte, parlando alla sera di ballo, si infervorava ed era sicura che
sarebbe diventata una grande ballerina, non sapeva ancora se di danza moderna
o classica.
Io non potevo fare a meno di sorridere all’idea che forse avrei avuto tra i
miei discendenti una Star del ballo e poi parlandone con Donatella al
telefono avevo saputo che quello era veramente il chiodo fisso di Elisabeth
già dall’America.
Martina, con l’avvicinarsi dell’inverno e con le giornate più corte, mi aveva
informato che lei e Gianluca avevano pensato che, per la durata della cattiva
stagione, sarebbe stato meglio per tutti che Raffaele fosse rimasto nella
loro casa con la baby-sitter tutto il giorno in modo da permettermi, ora che
Elisabeth era occupata ed impegnatissima a scuola, di recarmi al centro di
Roma per le mie faccende personali.
Pur a malincuore accettai di distaccarmi per un po’ da mio nipote dal momento
che lo avrei potuto facilmente vedere alla sera assieme ad Elisabeth.
Ero ritornata ad essere parzialmente libera, almeno per nove ore al giorno,
di pianificarmi la giornata come meglio mi fosse piaciuto e non tardai molto
ad approfittarne.
Per prima cosa volli ritornare a controllare la mia Casa di Moda e le due
boutique a lei collegate.
Era tantissimo tempo che non mi interessavo più di quel sogno, divenuto
realtà, della mia gioventù e pur essendo tranquilla per l’andamento degli
affari, volevo vedere con i miei occhi cosa di nuovo i miei collaboratori
avessero partorito di speciale nel campo della moda.
Quando mi videro nuovamente tra loro fui accolta con un entusiasmo da stadio.
Tutti mi abbracciarono, baciarono e sorrisero calorosamente e dovetti
ricredermi sui vecchi amici ed amiche che avevo quasi dimenticato, non
immaginando che si sarebbero più interessati della mia persona.
Al contrario mi chiesero in tanti se fossi ritornata per prendere di nuovo in
mano le redine della Società ed al mio diniego rimasero molto male e vidi
alcuni addirittura sconvolti.
Spiegai loro che sarei venuta spesso a trovarli ma che l’organizzazione
avrebbe dovuta mantenersi immutata come stava in quel momento.
Tra gli altri. il mio ormai vecchio maestro era scoppiato a piangere quando
gli raccontai della mia vita condita di qualche piccola gioia e di momenti di
grande tristezza e di quanto stavo facendo per superare quel momento.
Diedi appuntamento a tanti miei collaboratori del passato, per l’indomani, in
un ristorante vicino a Piazza Navona per un pranzo che sarebbe stato un caro
“ben ritrovati”.
Avevo ottenuto questo regalo inaspettato da veri amici e conseguentemente
pensai che non bisognava andare lontani, in giro per il mondo come avevo
fatto in quelli ultimi anni, per ritrovare la voglia di vivere e di sentire
nell’anima qualcosa di importante e di essenziale per la propria esistenza.
Capii inoltre che anche i miei figli sparsi per il mondo, ad eccezione di
Gianluca, non potevano darmi un motivo indispensabile per la mia esistenza e
per farmi dire alla fine dei miei giorni che non avevo vissuto invano.
Soltanto i miei nipotini mi riempivano di pura gioia le giornate, ma anche
loro non avrebbero potuto mai riempirmi il cuore come degli adulti, più o
meno della mia età.
Quando tornai a casa Gianluca mi chiese.
- Mamma, cosa ti è successo oggi? Sei radiosa e bellissima come da tanto
tempo non ricordavo. Ti voglio tanto bene e vederti così mi riempie di gioia.
Dovrai continuare a mantenerti in questo modo per tutta la vita ed allora
sarò soddisfatto. -
Avevo bisogno di sentirmi parlare così da tanto tempo ed era stato proprio il
mio più giovane figlio che mi aveva dato quello che credevo essere una frase
che mai più avrei sentito.
Da quel momento cominciai a prendermi più cura della mia persona.
Cominciai a frequentare una Beautiful House nella quale potevo oltre al
nuoto, fare idromassaggi e palestra, corsi di rilassamento muscolare e fango
terapia, estetica del viso e del corpo assieme a ginnastica attrezzistica
adatta alla mia età.
Mi azzardai anche a fare “bagni turchi” ed a cambiare il colore dei miei
capelli e tipo di pettinatura.
Dopo un paio di mesi non mi riconoscevo più tanto ero dimagrita e tonificata
nel corpo e tanto il mio viso si era ringiovanito.
Non esisteva un motivo preciso per cui mi stavo comportando così ma lo avevo
fatto per me stessa e per avere una migliore autostima della mia persona.
Non credevo che quella metamorfosi sarebbe stata apprezzata anche da Martina
che era una ragazza tanto semplice da rasentare la semplicità estrema, senza
fronzoli e pure molto bella, ma fu esattamente così.
Tanto Martina apprezzò quanto avevo fatto che mi disse di darle l’indirizzo
della Beautiful House che avevo scoperta da sola.
E così anche Martina cominciò ad andare di sabato in quel posto con grande
meraviglia di Gianluca.
Regalai a Martina uno splendido abito da sera di seta, di colore amaranto
preso in una mia boutique e le dissi che quello lo avrebbe potuto indossare
in qualche serata importante per esempio a qualche concerto di musica
classica che sapevo piaceva sia a lei che a Gianluca.
Non mancò l’occasione di esibirlo facendole fare una splendida figura e la
prima volta che lo portò fu ad un concerto sinfonico in onore di Beethoven e
di Dworak, nel quale vennero eseguite la sinfonia Eroica e la Nona del primo
oltre che la Quinta sinfonia Dal Nuovo Mondo del secondo grande autore boemo.
Anche io non mi feci mancare il godimento di quella serata e fui una delle
numerose persone VIP di quello straordinario concerto diretto dal più grande
Maestro italiano, Muti.
Nell’intervallo la gente che mi conosceva fece ressa attorno a me ed a quelle
persone presentai, non senza orgoglio, sia mio figlio che mia nuora.
Nei giorni successivi ebbi la bella idea di portare pure Elisabeth a teatro
per farle sentire e vedere le danze del Bolero di Maurice Ravel.
Non credo che mia nipote potrà mai dimenticare né quella musica né quel
ballo, ricordandosi contemporaneamente della sua nonna italiana e di Roma.
Elisabeth per giorni e giorni non fece altro che dirmi che mi amava tanto per
averla iscritta alla scuola di ballo dalle suore e che lo avrebbe detto a
Donatella, che la sua nonna era una persona molto speciale.
CAPITOLO TERZO
Lentamente e capricciosamente era tornata la primavera.
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile tutti i prati attorno all’Olgiata
si erano dipinti di verde punteggiato da milioni di bianche margherite.
L’aria cominciava ad odorare di sole ed era frizzante, soprattutto verso
sera, quando un lieve ponentino era solito soffiare dal mare ed arrivava fino
a casa mia tra i pini mediterranei e gli alti platani e faggi che la
circondavano.
Le giornate si erano molto allungate da quando era entrata in vigore l’ora
legale ed il tramonto, verso le sette e mezza, colorava le bianche nuvole
verso il mare, di colori gialli e rossastri diversi ogni sera.
Elisabeth come ogni pomeriggio era tornata da scuola puntuale, un’ora prima e
si era messa a dondolare, felice ed allegra, sopra l’altalena che avevo fatto
mettere nel giardino della villa.
Raffaele era stato portato nella villetta di Gianluca da Martina poco prima e
mia nipote era rimasta sola per qualche minuto mentre io stavo parlando con
la mia colf dando ordini perpreparare la tavola.
Alle sette e trenta precise pensai che fosse ora per la piccola di tornare in
casa e velocemente mi affacciai alla porta principale della villa per
chiamarla a cena.
Non sentii rispondermi e dopo aver pensato che quella birbante avesse fatto
finta di non sentirmi, uscii nel giardino per prenderla per le orecchie e
rimproverarla.
Elisabeth era scomparsa, volatilizzata e tutte le ricerche fatte da me e
dalla mia colf furono inutili malgrado le mie urla ed i miei
pianti e singhiozzi.
Nemmeno con l’aiuto di Martina e Gianluca, che era appena rientrato dal
lavoro, potemmo capire che fine avesse fatto mia nipote mentre Martina si
ricordava perfettamente di avere chiuso il cancello di ingresso del giardino
quando era venuta a prendersi il piccolo Raffaele.
Era logico che Elisabeth non poteva essere uscita dal giardino e che quindi
le nostre ricerche dovevano concentrarsi lì o dentro la casa che era rimasta
con l’uscio aperto, quando mi ero allontanata per pochi minuti dovendo
parlare con la mia cameriera.
La disperazione si era ormai impadronita di me ed una grande ansia
trasformatasi in una incontrollabile angoscia mi stava annientando quando
Gianluca finalmente la trovò nella grande cantina in un angolo a piangere
sommessamente.
Elisabeth era tutta sporca di terra con il vestitino bianco lacerato ma
cosciente.
Quando Gianluca la prese in braccio portandola di sopra, in un evidente stato
di shock, non parlava aggrappandosi a me ed a Martina.
Soltanto dopo un paio di ore mentre noi tutti le stavamo intorno
accarezzandola e lavandola con dell’acqua e sapone di una tinozza riuscì ad
aprire bocca.
Elisabeth, con gli occhi pieni di pianto, ci raccontò di aver visto entrare
nel giardino un uomo grosso e brutto che aveva da prima scavalcato il muro di
cinta e poi l’aveva presa in braccio per potarla via, tappandole la bocca.
Lei si era divincolata e gli aveva dato un morso sul collo tanto da fargli
perdere la presa e poi come uno scoiattolo si era introdotta in casa,
nascondendosi in un cantuccio della cantina tra gli arnesi del giardiniere e
tra vecchie cianfrusaglie.
Non aveva visto più l’uomo cattivo ed era rimasta in silenzio con il
cuoricino che le batteva a mille nel petto.
Elisabeth non era certo il tipo di raccontare favole di quella portata e
tutti concludemmo che sicuramente aveva detto il vero, così fummo tutti
d’accordo di comunicare il fatto alla Squadra Mobile della Polizia,
pregandoli di fare venire anche un medico.
Medico e Polizia, dopo una attenta visita il primo e dopo accurate indagini e
sopraluoghi la seconda, ci tranquillizzarono.
Elisabeth non aveva subito alcun danno da quel brutto episodio solo molta
paura.
Gli uomini della Squadra Mobile avevano capito immediatamente chi fosse colui
che era penetrato nel giardino, un barbone che già precedentemente aveva
eseguito finti rapimenti di bambini, per estorcere qualche soldo in quella
zona residenziale e che, per lo stesso motivo, era stato già condannato con
suo sommo piacere ad alcuni anni di galera.
Era stato lui, ogni volta, colui che aveva riportato al distretto di Polizia
di zona i bambini, affermando di volere essere giudicato e condannato per un
periodo più lungo possibile, in modo che potesse avere un tetto e dei pasti
caldi a spese dello Stato.
Il tribunale lo considerava un povero disgraziato ed era stato sempre molto
indulgente con lui, condannandolo diverse volte a periodi di detenzione non
eccessivamente lunghi.
Questo barbone era stato in passato un uomo molto conosciuto negli ambienti
scientifici.
Un chimico, docente all’Università La Sapienza di Roma, molto geniale che
aveva speso tutto il denaro in suo possesso nel tentare di scoprire una
combinazione chimica, dal costo bassissimo, ma adatta come carburante per
autoveicoli.
Il fallimento della ricerca, non sovvenzionata da nessuna Autorità oppure
Istituzione, lo aveva gettato sul lastrico.
Il poveruomo venne arrestato immediatamente e senza battere ciglia confessò
tutto quello che aveva fatto, dimostrandosi assai dispiaciuto dello spavento
che aveva provocato alla piccola Elisabeth e si informò, con evidente ansia,
sulle condizioni della bambina e quando seppe che in quel momento stava bene
tirò un sospiro di sollievo.
L’ex professore universitario venne condannato a due anni di reclusione e si
dimostrò compiaciuto per avere risolto, per il periodo della condanna, il
problema di un letto ed anche quello di mettere d’accordo il pranzo con la
cena.
Tutto questo venne riferito ad Antonella che, impietositasi, non aveva voluto
che si ricorresse in appello.
Era stato Gianluca quello che aveva informato la sorella, dal momento che io
mi trovavo in uno stato di agitazione colossale essendomi assunta la colpa di
quanto successo, completamente.
Donatella disse a Gianluca che non avevo avuto nessuna responsabilità e che
comunque sarebbe volata a Roma per il fine settimana per starmi vicina e per
consolare un poco Elisabeth.
Quando arrivò Antonella andammo a riceverla tutti all’aeroporto e la mia
bella figlia arrivò anche con il gemello di Elisabeth, Bruce.
La prima cosa che fece fu di stringersi al petto Elisabeth e poi me,
accarezzandomi i capelli e baciandomi teneramente.
Sia Gianluca che Martina fecero cerchio intorno a noi ed il piccolo Raffaele
si infilò in mezzo a tutti, urlando a squarciagola il nome di Antonella e di
Bruce.
C’era tutta la mia famiglia meno Dario Maria che si trovava a Maranello
impegnato con il nuovo modello della Ferrari e Duilio Maria che era rimasto a
San Francisco per mettere in ordine la contabilità e l’organico della Società
sua e della sorella.
Mi aveva telefonato il giorno prima e si era informato di come stavo in
salute promettendomi che sarebbe venuto al più presto a trovarmi, cosa che
fece quasi subito.
Mi aveva chiesto il numero del cellulare del fratello maggiore e quando gli
dissi che Dario Maria era stato assunto alla scuderia Ferrari non resistette
nemmeno un attimo esclamando che avrebbe comprato una di quelle macchine
appena fosse giunto in Italia e che poi l’avrebbe portata in California a
fare crepare di invidia tutti i suoi amici.
Insieme passammo non solo il fine settimana ma pure tutta la settimana
seguente.
Era un vero piacere chiacchierare del più o del meno mentre le giornate
continuavano ad allungarsi sempre di più ed il sole ritardava minuto dopo
minuto la sua scomparsa dal cielo.
Antonella mi disse che Roma era la città più meravigliosa del mondo e che era
un vero peccato lasciarla anche se San Francisco, in certe giornate, non le
era da meno.
Mi chiese anche, facendomi arrossire, se avessi trovato un uomo che potesse
piacermi e che non ci sarebbe stato niente di male se io lo avessi avuto dal
momento che per lei ero, non solo ancora molto giovane, ma particolarmente
carina e piacevole con quel nuovo taglio di capelli e con un corpo ancora
sodo e flessuoso.
Aveva pure detto che si vedeva lontano un miglio che frequentavo una palestra
ed una piscina tanto che riteneva spiacevole per lei il confronto con il mio
fisico.
Non aveva tempo in America per fare quanto facevo io, tanto più anziana di
lei, dedicandomi con pazienza e volontà a tentare di rimanere giovanile e non
abbruttendomi in crisi esistenziali.
Io sapevo quanto Antonella mi avesse sempre ammirata ma non potevo immaginare
che addirittura in un certo senso mi invidiasse.
In realtà parecchie volte ero stata sul punto di cedere alla corte di qualche
ammiratore ma sempre avevo fatto un passo indietro, pensando ai miei quattro
figli ed alla situazione imbarazzante in cui li avrei potuti mettere e non
soltanto a loro ma anche ai miei nipoti, che avrebbero visto la propria nonna
sotto un profilo molto diverso.
Non avevo però fatto i conti con i casi della vita sempre superiori ad ogni
possibile immaginazione.
CAPITOLO QUARTO
Avevo ripreso la mia solita vita dopo la partenza dei miei figli e di mio
nipote Bruce per gli Stati Uniti.
Diedi un particolare abbraccio ad Alessia ed a Dario Maria che, arrivati a
Roma da Maranello per riabbracciare me, Duilio Maria e tutti gli altri e per
portare al mio terzogenito la Ferrari richiesta, una stupenda sportiva rossa
che faceva girare la testa a chiunque la vedesse, avevano ripreso la strada
verso la scuderia della grande marca italiana.
Dario Maria mi era parso particolarmente felice per il suo trasferimento in
Italia anche se mi era sembrato un po’ in rotta con Alessia che lo aveva
accompagnato a Roma con una sfumatura di broncio, essendosi presa un periodo
di congedo dal suo lavoro ma non avendo ancora deciso se abbandonare il
Belgio o meno.
Duilio Maria le aveva offerto un posto dirigenziale a Milano dove aveva
creato una succursale della S.P.A della casa di moda di Donatella.
Tra Modena e Milano la distanza non era eccessiva e così avrebbero, lei e
Dario Maria, potuto prendere un bel appartamento o a Modena o a Milano e
passare insieme ogni weekend.
Mi era parso che Alessia non fosse molto entusiasta di quella proposta tanto
che gli rispose che ci avrebbe pensato e tra qualche mese.gli avrebbe dato
una risposta.
Non volli entrare nel merito e lasciai correre anche se mi era venuta una
voglia matta di chiedere a mio figlio come andava il suo matrimonio.
Duilio Maria. aveva provveduto a fare trasportare per via aerea a Los
Angeles, con un cargo della Continental, la sua smagliante auto sportiva che
poi avrebbe portata a San Francisco.
Elisabeth, dopo aver fatto visitare la scuola dove era diventata la
prediletta della Madre Superiora e della Direttrice della sezione di danza
nella quale era considerata la più idonea e capace, aveva ripreso anche lei
il solito tran- tran impegnata come al solito dalla mattina al pomeriggio
inoltrato.
Avevamo molto discusso con Antonella se fosse stato il caso che lei la
riportasse in America dopo quanto le era successo nel giardino della mia
villetta.
Antonella fu irremovibile.
Mi disse che si sarebbe profondamente offesa se le avessi riconsegnata
Elisabeth perchè ciò avrebbe significato che lei, mia figlia, non aveva più
fiducia nella sua mamma.
Non aggiunsi nessuna ulteriore parola ed Elisabeth rimase con me
permettendomi quindi di avere quasi tutta la giornata libera, come era
successo nel periodo precedente al brutto episodio di cui era stata
protagonista.
Verso la fine di giugno il caldo, a Roma, era divenuto di giorno
assolutamente insopportabile. La temperatura era fissa sui trentasette gradi
centigradi, ma quello che era atroce, era l’umidità dell’aria che non ti
permetteva nemmeno di respirare.
Erano già sette giorni che l’igrometro della mia villa segnava senza pietà
l’ottanta per cento di umidità.
Avevo fatto installare l’anno prima un impianto di climatizzazione in casa,
ma fuori era un disastro completo.
Io ed Elisabeth dalle nove di mattina alle dieci di sera non ci muovevamo da
casa e quindi approfittavamo delle primissime ore della giornata per uscire e
fare un giretto, spesso in macchina, avendo sempre come meta il Pincio o
Monte Mario con il suo osservatorio astronomico.
Avevo prenotato per me e per Elisabeth un albergo per il dieci luglio al
mare.
Preferivo andare con mia nipote in un posto dove avrei potuto nuotare ed
insegnare ad Elisabeth, con l’aiuto di un istruttore ad arrangiarsi con
l’acqua, cosa per me di estrema importanza dal momento che ancora ero rimasta
una provetta nuotatrice.
Saremmo rimasti per un mese in un Hotel di Monte Silvano a Pescara provvisto
di una bella e grande piscina e di una spiaggia privata molto curata da un
bagnino favolosamente gentile, di nome Tonino.
Poi ci saremmo spostati in montagna sulle Dolomiti, per altre quattro
settimane, ad Auronzo, con il suo bellissimo lago e con tutte le montagne che
gli fanno da cornice, piene di abeti verdissimi e di prati profumati, mentre
più in alto avremmo potuto ammirare le spigolose rocce, dei colossi delle
Dolomiti, dai colori spendenti alla luce del sole.
Avevo proposto a Gianluca ed a Martina di venire con noi almeno al mare con
quel birbante di Raffaele.
Gianluca mi aveva detto, con tanta gentilezza e con il cuore in mano, che
volevano restare soli con il bambino in quel mese di ferie che si erano presi
dopo un anno di intenso lavoro.
Avevo capito che era giusto così, sapendo quanto sia mio figlio che sua
moglie fossero stanchi e stressati.
Dalla finestra dell’Albergo a quattro stelle di Monte Silvano di fronte al
mare, vidi il mare maestosamente esteso fino all’orizzonte calmo ed azzurro
verde, una piatta distesa di acqua punteggiata da barche a vela al largo, con
qualche motoscafo tra loro e le scie di schiuma bianca disegnare linee curve
e dritte intersecarsi tra gli scafi.
Erano solo le sette e trenta e svegliai Elisabeth, euforica per la vista
dell’Adriatico e per quella brezza leggera che proveniva dal largo.
Le dissi che saremmo andati a fare colazione e poi che l’avrei affidata al
maestro di nuoto della piscina.
Avrei approfittato di quella libertà per farmi una bella nuotata al largo e
scegliendo il costume, presi un due pezzi arancione molto elegante e
stilizzato con un pantaloncino molto aderente e corto, tale da mettere in
evidenza sia le mie gambe che il provocante fondo schiena che era stato
sempre il mio pezzo forte.
Volevo essere ammirata da tutti più per me stessa che per essere seducente
ancora, con l’età che si avvicinava rapidamente ai sessanta anni.
Sapevo di essere ancora una bella donna e che nessuno mi avrebbe dato più di
cinquanta anni e nella mia autostima volevo mettermi alla prova.
Dopo aver fatto una colazione a base di succo di arance, di pane tostato e di
confetture di marmellate, mentre Elisabeth aveva preso una tazza di
cioccolata con dolcetti, andammo sulla spiaggia e mi presentai al bagnino
Tonino, un uomo sposato con due figli un maschio più grande, Fabio di dieci
anni ed una figlia della stessa età di Elisabeth, di nome Sara.
Fui molto gentile e generosa con Tonino elargendogli un ottima mancia e mi
raccomandai con lui di dare ogni tanto uno sguardo a mia nipote quando mi
fossi assentata per farmi il bagno.
Quello mi sistemò due lettini ed un ombrellone vicini al bagno asciuga dove
mi presentò alcuni clienti educatissimi qualcuno con figli altri single, sia
uomini che donne.
Parlai pure con l’istruttore di nuoto e lo pregai di stare molto attento ad
Elisabeth che sapeva, a male a pena, stare a galla nuotando solo a rana.
Questo era un giovanotto di poco più di trenta anni, dal volto aperto al
sorriso e dagli occhi a mandorla castani che dimostravano con evidenza la sua
origine meridionale.
Era un soggetto atletico, muscoloso ma non costruito in palestra, esperto di
Surf e di sci nautico di nome Paolo
Pensai che se fossi stata molto più giovane forse lo avrei con un po’ di
malizia corteggiato ma mi levai subito dalla testa quella idiozia.
Presi cinquanta euro e gli disse che erano per lui e per la cortesia che mi
avrebbe fatto riguardo ad Elisabeth.
Dopo avere lasciato mia nipote nelle mani di Paolo me ne andai in acqua a
godermi quella prima nuotata.
Mentre nuotavo pensai a quanto piacere psicologico e fisico mi dava il
contatto col mare.
Lo accarezzavo e quello mi accarezzava facendomi sentire viva e risvegliando
in me le sensazioni quasi sensuali, indimenticabili, di quando da giovane ero
capace addirittura di andare al largo anche per un chilometro, nuotando in
tutti gli stili appresi ad Ostia da adolescente quando ero una semplice
ragazza che ancora studiava con estrema serietà e senza fronzoli per la
testa.
Di sera alle dieci mettevo a letto Elisabeth esausta ed ubriaca di nuoto e di
sole, le davo la buona notte e poi mi recavo, sempre dentro l’Albergo, nel
locale adibito a Dancing dove poteva sentire della buona musica e cantanti
assai in gamba alle loro prime esibizioni.
Mi ero fatta conoscere da diverse persone a cui avevo detto di essere una
stilista di moda e la loro compagnia, giorno dopo giorno, mi stava
completamente rigenerando lo spirito ed il cuore.
Tra l’altro mi dedicai al ballo dove però ero una perfetta frana ma a nessuno
interessava come ballassi perché lo facevo con molta allegria cosa che avevo
scordato da anni.
Gli uomini facevano a gara per starmi vicino ed io accettavo quella corte
discreta con soddisfazione.
Stavo ricreando dentro me quella civetteria e quella seduzione di cui non
avevo mai fatto uso durante tutta la mia vita ma che in quel momento non mi
vergognavo di manifestare.
Tra la gente, che mi si raccoglieva intorno la sera, c’erano un paio di
uomini particolarmente interessanti ambedue separati e divorziati da poco.
Uno di questi era un cinquantenne che mi faceva una corte spietata dalla
mattina alla sera, che mi piaceva e di cui sentivo averne bisogno come una
medicina presa ad orario nella giornata.
Si chiamava Sirio ed era fisicamente quanto di meglio una donna potesse
pretendere.
Slanciato e senza un grammo di pancia in più, con una bocca ben disegnata ed
un mento con una fossetta capricciosa, sapeva toccarmi con sapienza le corde
più intime della mia natura di donna, compresi i sogni erotici che spesso
facevo di notte.
Gli occhi poi, oltre che di un colore verde cupo, avevano una espressione
continua di costante ed attenta intelligenza associata a momenti di
incredibile ottimismo infantile, come se il mondo fosse tutto bello e tutto
da scoprire.
Era il mio preferito e lo capivo perché ogni volta che ballavo con lui, le
sue mani forti mi tenevano con una presa a cui difficilmente potevo sfuggire
ed a cui avrei ceduto volentieri.
Egli mi teneva stretta nei lenti, balli che da sempre avevo preferito,
posando il suo viso vicino al mio collo ed alle mie orecchie la qual cosa
scioglieva in me il massimo godimento possibile dopo tanti anni di astinenza
completa.
Non mi era mai capitata una cosa simile durante tutta la mia vita e capii
finalmente cosa significasse l’attrazione sessuale verso l’altro sesso.
Mi era capitato come se, vicina ai sessanta, egli avesse saputo risvegliare
in me una tempesta ormonale che avevo raramente sentito nel mio corpo solo a
sedici anni.
Fui presa da un tremendo desiderio di far sesso con quell’uomo da poco
conosciuto e se me lo avesse chiesto sarei immediatamente salita in camera
sua.
Stavo provando una stupenda sensazione a pelle, di attrazione fisica non
certamente condita da sentimenti, ma tale che mi avrebbe potuto soddisfare
pienamente.
Quello che per tanti anni avevo cercato nel mio defunto marito, ma che mai
avevo provato con lui, stava capitandomi quando meno me lo sarei aspettata.
Passando i giorni, tutti avevano capito che non avevo occhi che per Sirio e
che quando mi parlava, qualsiasi cosa dicesse, era come una coppa di spumante
che mi ubriacava sempre più.
Era come se fossi diventata sua schiava, io donna razionale ed in fondo piena
di timidezza, pronta a fare ogni cosa mi avesse chiesto compresi atti che
fino allora avevo considerato a chilometri di distanza dalla mia persona.
In un barlume di coscienza pensai ad Elisabeth ed a tutti i miei figli ma,
con tutta onestà, non me ne importava un bel niente.
Avevo preso la mia decisione e non fu Sirio a fare il primo passo ma io,
Angelica con il sangue che mi ribolliva nelle vene, gli feci capire che sarei
andata da lui senza chiedergli niente della sua vitae che non mi sarei offesa
se mi avesse detto di essere soprannominato “lo sciupa femmine” di Caserta,
città dalla quale proveniva e con una professione di commerciante e titolare
della più grande Auto Rivendita della città campana.
CAPITOLO QUINTO
Sfogai nella camera di Sirio tutto l’erotismo compresso nel corso della mia
vita, quotidianamente ed anzi molto di più, tanto che venne il momento che
divenni esausta e sfinita.
Egli, nel mio immaginario avrebbe lasciato un segno indelebile, uno sfrenato
bisogno del suo corpo e mi sentivo giorno dopo giorno come se mi
somministrasse dosi crescenti di eroina o di qualche altra droga.
Anche se mi sentivo talvolta venire meno, desideravo che mi strapazzasse fino
a cadere come morta e non potevo farci niente perché quel bisogno era più
forte della mia ormai debole volontà.
Ormai erano più di tre settimane che conducevo quella vita sregolata senza
nemmeno un briciolo di sentimenti, tutto sesso e niente amore, quando mentre
mancavano soli pochi giorni alla mia partenza per la montagna vennero a
trovarlo i suoi due figli, una ragazza di diciannove anni ed un maschio di
ventitre.
Sirio cambiò repentinamente atteggiamento nei miei riguardi. Divenne freddo e
scostante, mostrandomi chiaramente che disturbavo la sua intimità più sacra
cioè quella verso i figli.
Mostrò a tutti che la cosa più importante della sua vita erano loro due verso
i quali diveniva di una sacrale tenerezza.
Di me non gli importava un bel niente, anzi ebbi l’impressione che gli davo
fastidio,
Due giorni più tardi presi Elisabeth e partii in anticipo per le Dolomiti.
Per Elisabeth, nella sua ingenuità, il signor Sirio era stato un buon amico
della nonna che aveva cercato di distrarre.
L’esperienza con Sirio,.con il quale non avevo nemmeno scambiato il numero
del cellulare, se da un lato mi aveva fatta rinascere dall’altro mi aveva
profondamente ferita, perché mai avrei pensato che potesse finire così senza
nemmeno un falso atteggiamento di tenerezza nei miei riguardi.
Questo suo crudo modo di essere ebbe il potere di provocarmi una profonda
amarezza, proprio in quel momento che la mia vita mi era parsa prendere
un’altra piega e che forse avrei potuto avere un futuro non più solitario.
Avevo fatto un colpo di testa insospettabile nella mia vita di donna sola ed
educata in ben altra maniera dalla nascita.
Erano passati appena dieci giorni da quando avevamo raggiunto in treno
Calalzo e poi Auronzo.
Lì avevo preso una macchina in affitto per girare assieme ad Elisabeth tutti
quei posti, dalla val Pusteria al Pordoi, dal Lago di Misurina a quello di
Carezza.
Ma un giorno con un pulmino andammo in compagnia di altri turisti al
Cristallo e mentre salivo con Elisabeth lungo un ripido sentiero del monte,
preceduto da uno stato d’ansia di cui mai avevo sofferto, venni colpita da un
attacco violento di tachicardia associato a vertigini ed a sensazioni di
soffocamento.
Eravamo un gruppo di gitanti, tutti dello stesso Albergo, composto di donne e
bambini ma anche di uomini, tra cui un cardiologo che subito mi visitò e mi
fece trasportare da un elicottero, chiamato dal suo cellulare, all’ospedale
di Cortina assieme ad Elisabeth ed ad un altro medico del Reparto di
Rianimazione dello stesso Ospedale che era arrivato con l’elicottero.
Gli accertamenti furono molto accurati e le risposte furono tutte negative
per patologie cardiache, vascolari o polmonari, mentre gli esami ematochimici
erano tutti nella norma.
Mi diedero dei tranquillanti e mi dissero che si era trattato di una sindrome
acuta di panico oppure DAP.
MI dissero anche che quelli attacchi di panico si sarebbero potuti ripetere
all’improvviso anche settimanalmente e che tutto poteva essere stato
scatenato da un grande stress.
Mi dimisero, dopo sole ventiquattro ore dopo aver provveduto anche ad
Elisabeth molto spaventata dandomi una cura di farmaci ansiolitici associati
a beta-bloccanti e raccomandandosi di praticare una ventina di sedute di
Psicoterapia, appena fossi tornata a Roma .
Tentai di rimanere in montagna ancora per tutto il periodo prenotato ma non
fu possibile a causa di una immotivata ansia che anticipava la paura di
attendere l’ angosciante, quasi mortale, panico che avevo sofferto durante la
gita sul monte Cristallo.
Avrei anche potuto partire subito, dopo aver avvisato Gianluca e Martina,
appena tornati dalle Maldive dove avevano passato un mese da sogno di quanto
mi era successo ma non me la sentii di metterli in angosciosa preoccupazione.
Quindi minimizzai l’accaduto dicendo loro che mi ero sentita poco bene ma che
tutto era passato in pochissimo tempo e trovai un’altra scusa.per spiegare il
mio ritorno anticipato a casa.
Dissi, mentendo, che sia io che Elisabeth eravamo stanche di girovagare per
gli Alberghi e che cominciavamo, ora che agosto era arrivato quasi alla fine,
ad avere una certa nostalgia dell’incipiente settembre romano.
All’Ospedale di Cortina mi avevano detto che un metodo efficace per evitare
gli attacchi di ansia premonitori a quelli di panico era quello di
ricostruire la mia autostima, in modo consono alla mia precedente personalità
e di associare a tecniche di rilasciamento associate a respirazione
addominale, nuove e facilmente attuabili
modalità di appoggio a terra e di ricostruzione del tono muscolare. Anche nel
Salone, da me frequentato a Roma nell’inverno precedente, si parlava
continuamente dell’importanza del tono muscolare e dei massaggi che
contribuivano molto ad ottenere quello scopo a cui avrebbe dato una mano
l’idromassaggio e lo Yoga come mezzo di rilassamento con metodiche di
training autogeno.
Qualcosa conoscevo di queste cose e non persi tempo nei pochi giorni che
mancavano alla mia partenza per la Capitale.
Poi mi sarei rivolta a veri specialisti in materia e così partii con
Elisabeth da Calalzo, in vagone letto, speranzosa che un attacco simile non
lo avrei mai più sofferto.
Purtroppo non fu così dal momento che la spiegazione era molto più seria, più
complessa e difficile da risolvere.
La Psico-terapeuta mi aveva spiegato che mi si era accumulata nel cervello
una grave perdita psicologica, che aveva toccato il profondo della mia
coscienza e che questa sicuramente era dipesa dal mio comportamento a Monte
Silvano.
Sarei completamente guarita, quando avessi rimosso dalla mia memoria
incosciente Sirio e tutto ciò che era successo quell’estate al mare.
Per dare libero sfogo ad alcuni miei reconditi desideri, avevo senza
accorgermene, violentato la mia volontà ed il mio normale comportamento.
Ogni risorsa terapeutica sarebbe stata inutile se non fossi riuscita a
ritornare, nel profondo, quella persona limpida e sicura di me come era
avvenuto nel corso di tutta la mia vita.
Soffrendo una serie di disturbi, che sarebbe troppo lungo elencare, con
l’aiuto combinato di tutto quello che avevo imparato sull’argomento ed
ubbidendo ad ogni consiglio compresi quelli dei medici e di terapia medica,
in silenzio, senza dare ai miei congiunti sofferenze inutili, impiegai un
anno per uscire dal tunnel nel quale volontariamente mi ero cacciata
Elisabeth e Raffaele non si erano accorti di nulla con mia grande
soddisfazione.
Soltanto Gianluca, pur facendo finta di ignorare il mio stato di salute e le
mie difficoltà, aveva fatto di tutto per alleggerirmi di ogni responsabilità
riguardo a Raffaele, mandandolo all’asilo assieme alla cugina nella stessa
scuola.
Avevo continuato saltuariamente a dedicare una parte del mio tempo, libero da
impegni per curarmi, al lavoro ed anzi sembrava che più mi impegnassi più mi
sentivo meglio tanto che ero riuscita a fare uscire una nuova linea
riguardante l’intimo femminile.
Questa ebbe un grande successo ed anche ciò contribuì ad accelerare la mia
guarigione.
Abbastanza velocemente era tornata l’estate.
Elisabeth aveva compiuto sette anni e Raffaele quattro primavere.
A questo punto dopo la fine delle lezioni a scuola, sentendomi perfettamente
guarita, chiesi a mio figlio ed a sua moglie se si sentivano di portare con
loro in vacanza insieme, il figlio e la nipotina americana.
Avevo bisogno di rimanere sola ed avrei utilizzato quel periodo di tempo per
tornarmene in Romagna, della quale avevo una struggente nostalgia.
Mi sembrava che un secolo fosse passato da quando l’avevo vista l’ultima
volta e che se non lo avessi fatto in quel periodo forse non ne avrei più
avuto la possibilità perché, pur essendo guarita, qualcosa era rimasta in me
dell’ angoscia di morire di colpo.
Mentre Martina manifestò subito la sua soddisfazione, Gian Luca mi prese da
parte dicendomi che mi ammirava per il segreto che avevo tenuto per me sola
da settembre ma che lui ora poteva dirmi di non averlo ignorato per tutti
quei lunghi mesi e che non aveva voluto interferire con la mia decisione,
sapendo bene quanto ero orgogliosa di riuscire a farcela, senza l’aiuto di
parenti o amici, dal problema del quale ero stata vittima.
La maturità di mio figlio si era ancora nuovamente manifestata in tutta la
sua forza e lo capii quando aggiunse che, del mio segreto, non ne aveva fatto
parola nemmeno con Martina, che forse sospettava soltanto qualcosa e che
potevo stare tranquilla per quanto riguardava le vacanze di Elisabeth.
Questa volta sarebbero andati tutti in California, graditi ospiti di
Donatella e di Duilio Maria.
CAPITOLO SESTO
Ero ancora in grado di viaggiare con la mia coupè rossa che avevo fatto
mantenere perfetta e nel motore e nella carrozzeria e quando partii, ai primi
di luglio per la Romagna, l’avevo fatta lucidare nei minimi particolari come
si fa con un paio di scarpe nuove.
Ne ero orgogliosa. Anche se vecchia, quella macchina mi ricordava i tempi
passati quando l’avevo acquistata, tanti anni prima, con i miei primi sudati
guadagni di stilista facendo felici i miei primi due figli, ancora bambini,
che si bisticciavano per montarvi sopra considerandola il più bel giocattolo
che avevano.
Antonella e Dario Maria mi mancavano tanto, da un lato così seri e compunti e
dall’altro così esuberanti come erano cresciuti nei primi anni di vita.
Quei due piccoli mi rammentavano il mio passato remoto tanto pieno di
speranze e di ambizioni relegate poi in cantuccio della mia memoria.
Duilio Maria e Gian Luca invece li ricordavo più bisognosi di cure e del mio
affetto perché in fondo erano il mio passato prossimo, quando ormai non
potevo dedicarmi a loro con lo stesso impeto ed entusiasmo degli altri due.
Ed era stato proprio quel mio modo di essere, seria e disillusa ma povera di
spirito, che li aveva fatti crescere più forti dei primi.
A loro non avevo mai confidato i momenti difficili passati con il loro famoso
padre ma, nello stesso tempo, li avevo educati ad essere razionali e senza
tanti fronzoli per la testa e purtroppo, e me ne pentivo, meno spensierati
Tante volte avevo pensato a loro quattro, specialmente durante la mia lunga
malattia, riflettendo che senza di loro la mia esistenza sarebbe stata vuota,
anche se probabilmente più ricca di grandi soddisfazioni professionali.
E mentre sfrecciavo, con il mio coupè rosso verso la sacralità della terra
natia, non potevo non considerare che le uniche vere felicità e
soddisfazioni, immortalate nel profondo della mia anima, erano derivate dal
sangue del mio sangue di quelli a cui avevo dato non solo la vita ma anche
tanti pezzettini del mio cuore di madre e di donna.
Sapevo che quella era la piattaforma reale della mia persona e non c’erano
alternative, né sconti, che avrei potuto trovare.
Partii di lunedì per due motivi precisi.
Il primo era che volevo evitare il bestiale traffico del sabato e della
domenica e le lunghe code ai caselli autostradali di tutto il popolo dei
patiti dei weekend ormai divenuti, ogni settimana, un fiume umano che, o col
caldo o con la pioggia o con la neve, dedicava le due giornate sacre al il
riposo all’autodistruzione, sia del fisico che della mente, per andare al
mare oppure in montagna oppure in campagna dove sarebbero rimasti, se le cose
fossero filate per il verso giusto, non più di ventiquattro ore.
L’altro motivo era che partendo il primo giorno della settimana, anche se
avessi incontrato file di autotreni, sarei potuta passare da Modena a
Maranello per vedere Dario Maria e sapere cosa fosse successo di importante
con Alessia in quelli ultimi mesi.
Presi dunque l’Autostrada per Milano e dopo avere raggiunto Firenze e poi
Bologna uscii a Modena dirigendomi nel cuore operativo della Ferrari dove mi
sarei intrattenuta con il mio secondogenito.
Ero partita molto presto da Roma e così poco dopo mezzogiorno mi incontrai
con Dario Maria, che avevo avvisato telefonicamente.
Egli fu felice di rivedermi e mi disse che mi trovava bene ma un po’ sciupata
in volto.
Ignorava quanto mi fosse capitato nell’estate precedente e mentre ci stavamo
dirigendo al ristorante per pranzare, lo vidi rabbuiato negli occhi prima
ancora che io aprissi bocca.
Qualche giorno prima che partissi avevo fatto un brutto sogno che mi aveva
lasciata scombussolata.
Avevo sognato Dario Maria ed Alessia
Lo avevo visto felice per quel posto prestigioso ottenuto solo per le sue
capacità professionali e per essere tornato in Italia, anche se sapevo che
era costretto a scorrazzare per il mondo per seguire la Squadra.
Dario Maria, prima ancora che aprissi bocca, mi aveva stretta al petto e
parlandomi, come aveva fatto tante volte da ragazzo con tutta l’anima pulita
che gli riconoscevo immutata, mi aveva spiegato che si era lasciato con
Alessia e che anzi era stata lei a metterlo di fronte al fatto compiuto.
Alessia aveva rifiutato il magnifico posto dirigenziale che Duilio Maria le
aveva offerto a Milano, adducendo come scusa che non se la sentiva di
abbandonare il vecchio per il nuovo e che se Dario Maria avesse insistito nel
volere rimanere nel suo Paese natio, poteva trovarsi una altra donna, perché
a lei non le sarebbe mai passato dalla mente di abbandonare Liegi ed i suoi
parenti.
La villa, così faticosamente voluta da Dario Maria, era stata data da Alessia
in comproprietà alla sorella.
Aveva liquidato Dario Maria con una cifra irrisoria, considerando i prezzi di
mercato del momento e non essendovi nulla di scritto davanti ad un Notaio, se
l’era cavata con molto poco.
La motivazione principale da lei addotta era che mio figlio non aveva voluto
avere figli e che così si sentiva defraudata di un diritto assoluto,
mentendo, in quanto egli molti anni prima avrebbe accettato una paternità
mentre a lei quella avrebbe intralciato la sua carriera professionale.
La conclusione era stata che mio figlio aveva perduto almeno quattrocentomila
euro ed aveva dovuto ripiegare su una casa in affitto.
Alessia si era vendicata ma io, nel sogno, avevo rincuorato mio figlio
dicendogli che quella cifra doveva assolutamente accettarla dalla sua mamma e
che ero felicissima che non aveva avuto figli con Alessia.
Tra le proteste di Dario Maria avevo firmato immediatamente un assegno di
tale importo e gli avevo detto di trovarsi unn’altra bella giovane del suo
Paese e sposandola avrebbe chiuso per sempre e completamente con il Belgio.
Alla fine del sogno quando ormai stavo per svegliarmi da quell’incubo, non
avevo potuto trattenermi nel dirgli che dalle parti mie si era soliti dire un
proverbio, che recitava “moglie e buoi dei paesi tuoi”.
Gli dissi anche che avrebbe dovuto considerare quel denaro il mio personale
regalo delle sue future nozze, possibilmente con una emiliana oppure una
romagnola come me.
Era stato un semplice sogno angosciante tale però che mi aveva suggerito
paure inconsce riguardo a quella vitaccia che mio figlio aveva voluto
condurre lontano da casa, sempre impegnato in quel lavoro di grande
responsabilità e privo di una vera vita familiare.
Quel sogno aveva voluto significare che le mie ansie non erano ancora del
tutto scomparse e che le cose non fossero come avevo sognato, me lo dichiarò
Dario Maria.
La verità era che Alessia era sempre più innamorata di lui, viveva a Milano
avendo accettato il posto offertogli da Duilio Maria e che si vedevano ogni
weekend recandosi alternativamente lui a Milano, lei a Modena e che era
incinta al terzo mese di gravidanza
di un maschietto.
Il suo viso rabbuiato dipendeva da un problema che ancora non aveva risolto
riguardante un marchingegno elettronico in collaudo su una vettura nuova.
Mangiammo con appetito tortellini e fagiano ed alle tre salutai mio figlio
con un grosso bacio dicendogli di portare le mie felicitazioni ad Alessia che
sarei andata a trovare al più presto.
Stavo per dirigermi verso Rimini, dopo aver fatto un tratto indietro verso
Bologna, quando improvvisamente ebbi l’idea di recarmi subito a Milano da
Alessia.
Conoscevo l’indirizzo datomi da mio figlio e pensai che per le diciannove,
orario in cui generalmente finiva di lavorare, sarei giunta sotto la sua casa
e le avrei fatto una sorpresa degna di un tipo come me esuberante ed
improvvisatrice di natura.
La casa che avevano preso in affitto si trovava dalle parti di San Babila e
Dario Maria mi aveva detto che era un attico spazioso, molto ben arredato e
pieno di luce nelle giornate serene e non troppo cupo in quelle di pioggia o
nebbia.
Fermai il mio coupè in un garage nelle vicinanze e senza portarmi appresso
nessun bagaglio, ad eccezione del mio beautycase e della mia borsetta, suonai
alle diciannove e trenta al citofono dell’attico.
Sentii rispondermi la voce inconfondibile di Alessia, con quella erre moscia
caratteristica, mentre dissi che ero io Angelica che la volevo abbracciare e
farle gli auguri per il prossimo pargoletto.
Alessia non voleva credere che la madre di Dario Maria, senza preannunciare
la sua venuta, fosse venuta a Milano a trovarla e rise dicendomi che una
visita più gradita della mia non se la sarebbe mai immaginata
Parlammo di tante cose come due vecchie amiche e volle per forza portarmi a
cena in un ristorante vicino.
Già si intravedeva la pancetta prominente ed anche graziosa in quell’abito
estivo che si era infilata e pensai con dolcezza a quel bambino che sarebbe
nato nella prossima primavera.
Alessia fu molto affettuosa con me e mi invitò a passare la notte da lei,
cosa che feci molto piacevolmente.
Parlammo al telefono con Dario Maria, sorpreso per quella visita inaspettata
ed il mattino successivo ripresi la strada per Bologna per raggiungere la mia
meta tanto desiderata.
CAPITOLO SETTIMO
Raggiunsi Rimini verso le sei del pomeriggio.
Me la ero presa molto comodamente dalla partenza da Milano e tutto il mio
viaggio verso la mia Romagna fu come un bel sogno di quelli che vorresti fare
ogni notte.
Andai subito sul lungomare per vedere l’ Adriatico, l’antico mare nei pressi
del quale avevo visto la luce.
Ero commossa, stupidamente emozionata e nella mia fantasia ricordai le poche
volte che mia madre mi ci aveva portata da bambina, coperta con un vestitino
bianco immacolato che sporcavo immancabilmente di sabbia quando mi bagnavo i
piedi con voluttà nell’acqua della spiaggia.
Nel cielo stava tramontando il sole mentre dalla parte opposta stava per
sorgere una bianchissima luna piena, con un leggero alone giallino.
Qualche nuvola lontana dava al quadro una componente pittorica considerevole
mentre io continuavo a passeggiare guardando il tutto con stupore.
Avevo tante volte visto tramonti anche più belli ma mai mi ero immersa così
completamente nello spettacolo che mi stava offrendo la mia terra con una
vena di amore inimmaginabile.
Mi sentivo tranquilla, serena ed in pace con me stessa e mi pareva strano che
avessi dovuto combattere, per tanto tempo, quell’ansia e quella paura che
l’estate precedente mi aveva colto di sorpresa.
Sapevo che tutti i miei cari stavano vivendo la loro vita con il bene più
prezioso esistente e cioè la pace dell’anima e del cuore e non aveva più
importanza vivere loro accanto, per sorprendere in essi ogni minima e magari
banale contrarietà o dispiacere.
Avvertivo la presenza di tutti loro nel mio pensiero ma questa volta era come
se io stessa li potessi proteggere da qualsiasi avversità.
Era come se fossi divenuta il loro angelo custode, con il quale avessero
potuto sfidare tutto ciò che di brutto o di malefico vi fosse nel mondo,
comprese le malattie, il terrorismo oppure tutte quelle guerre e quella
povertà che minacciava la stessa esistenza del nostro pianeta.
Capii che questa rinnovata Angelica non era il frutto degli ansiolitici,
della psico-terapia oppure del training autogeno o delle mille altre cose che
avevo sperimentato per riacquistare la salute della mia mente, ma del mio
Signore Creatore ed Onnipotente con l’aiuto della Vergine Santa che aveva
avuto pietà per quella donna che mai aveva cessato di amarli .e di essere
loro devota.
Vivendo un momento di particolare spiritualità dell’anima, mi ero convinta
che era stata mia nonna paterna che mi aveva voluto in quel momento in
Romagna forse per farsi perdonare, pur religiosa come era, del fatto di
avermi trascurata da bimbetta quando ero stata per anni nel collegio delle
suore senza mai degnarsi di venirmi a trovare o di portarmi anche un minimo
dono.
Dal Purgatorio, dove immaginavo si trovasse ancora, mi aveva inviato un
messaggio per farsi perdonare da me che non avevo fatto, come lei, costruire
una chiesa a Santa Giustina per rabbonire il buon Dio dei suoi peccati in
Terra.
Quando fu notte inoltrata mi affacciai al balcone di fronte al mare del mio
Albergo.
Un profumo intenso di salsedine mi entrò nei polmoni e nei più piccoli
alveoli raggiungendoli come se l’aria fosse trasparente e purissima.
Mi sentivo una persona diversa, forte e piena di dolcezza infinita, tanto che
non mi sembrava vero di essere io quella donna sempre fragile in ogni
avversità anche se coraggiosa e testarda su tutto quanto potesse riguardare
la mia famiglia.
Contrariamente al solito, la mattina successiva, mi svegliai senza avere
fatto alcun sogno o almeno se lo avessi fatto non me lo stavo ricordando.
Probabilmente erano mesi che ciò non mi accadeva, tanto che mi sentii fresca
e riposata come non mai.
Ero completamente serena ed il mio benessere fisico raggiungeva la mente e si
sprofondava poi nell’anima con una dolce tranquillità così innaturale per me
specialmente in quell’ultimo anno.
Era così straripante il mio stato d’animo che mi venne voglia di comunicarlo
a più gente possibile.
Mi vestii, dopo essermi fatta una doccia tiepida, e subito dopo mi ritrovai
in strada salutando tutti coloro che mi sorridevano con un caloroso “Buon
Giorno”.
Nel garage, dove avevo lasciato la mia autovettura, ebbi una parola di
ringraziamento per l’uomo addetto al lavaggio delle macchine per il lavoro
che aveva fatto al mio coupè, che mi parve lucido e rasserenato come me.
Impiegai tre quarti d’ora per raggiungere, tra Santagiustina e Santarcangelo
la casa dove ero nata, il mio vecchio platano e l’albero delle giuggiole del
giardino, ma questa volta bussai alla porta che mi fu aperta da un vecchio
uomo calvo e mezzo sdentato con un paio di vecchi pantaloni di tela ed una
canottiera.
Chiesi se potevo entrare dicendogli che in quella casa ero nata e vissuta nei
primi anni della mia esistenza.
L’uomo mi fece accomodare nella spaziosa camera al pian terreno, porgendomi
una vecchia sedia di legno scura e dicendomi se gradivo un caffè appena
fatto.
Risposi che lo avrei bevuto con immenso piacere ma che lui avrebbe dovuto
ascoltarmi attentamente.
Era un uomo solo senza la moglie morta da cinque anni e senza nemmeno un
figlio e prima ancora che io aprissi bocca mi raccontò della sua vita di
stenti che tirava avanti con una pensione di invalidità di guerra a mala
pena.
Poteva avere quasi ottantacinque anni ed ancora se li portava bene.
Conosceva qualcosa della storia della mia famiglia e mi chiese se ero venuta
per qualche favore dal momento che aveva visto la mia macchina targata Roma.
Gli spiegai cosa ero venuta a chiedergli, se avesse accettato, di vendermi
quella casa mentre lui avrebbe potuto rimanere lì fin quando il buon Dio lo
avesse chiamato a se.
Gli chiesi se era interessato ed a quello brillarono gli occhi.
La cifra che mi chiese era irrisoria per me anche se l’uomo non era
assolutamente uno sprovveduto in fatto di affari.
L’importante per lui era rimanere in quella casa fino alla sua morte e di
passare gli ultimi anni della vita in un notevole e gradito benessere.
Gli chiesi se avessi potuto ristrutturale la villetta a modo mio e che per
questo disturbo gli avrei passato mille euro al mese.
Ci stringemmo la mano e ci demmo appuntamento per il pomeriggio da un notaio
di Rimini, dove io stessa lo avrei portato con la mia macchina.
Il mio desiderio di riacquistare la casa dei miei genitori era cosa fatta e
così avrei posseduto sia io che i miei figli un pezzettino di Romagna per
sempre e non solo nel cuore.