ARMANDO ASCATIGNO

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DIARIO DI UNA ROMAGNOLA D.O.C. (Romanzo)

DIARIO DI UNA ROMAGNOLA D.O.C.
(C) ARMANDO ASCATIGNO
TUTTI I DIRITTI RISERVATI



PRIMA PARTE



CAPITOLO PRIMO



Il grosso platano che tra Santagiustina e Santarcangelo, a due passi dal fiume Marecchia sulla via Emilia, segna il confine tra le due località della Romagna per chi proviene da Rimini era ancora li imponente con le sue foglie ed i suoi rami a dare ombra a quella casa dove avevo trascorso i miei primi anni di vita e dove ero nata.
Mi si struggeva il cuore a guardarlo, bello ed enorme ancora di più di quanto ricordassi e pensai a quanto è effimera la vita delle piante che non possono parlare e riconoscere tutte le donne, i bambini e gli uomini che invece non solo le tengono nella memoria, soltanto un po’ distorte dal tempo, ma forse le amano e le portano con sé sempre, come quell’ alto albero di giuggiole di fianco nel giardino.che adoravo ed era il punto ci riferimento dei semplici giochi che creavo nella mia fantasia di bambina.
Scesi dalla mia coupè e cominciai a guardare intorno attentamente .accorgendomi che una forte emozione mi stava assalendo dal profondo del cuore davanti a quella casetta a due piani con la mansarda su in alto, mio rifugio preferito.
Come al solito nemmeno allora riuscii a trattenere le lacrime e tutto il poco trucco che mi ero messa, sparì in un attimo e fui felice che nessuno si trovasse nei paraggi perché altrimenti me ne sarei vergognata come una ladra perchè ciò che sentivo era mio, soltanto mio.
E pensare che tutta quella terra intorno a quell’ unico posto che ricordavo e che mi era di fronte, per decine e decine di chilometri, era stata dei miei nonni ed in parte dei miei genitori!
Ora soltanto mi rendevo completamente conto di come sarebbe stata la mia vita se tutto non fosse cambiato quando ero ancora un piccolo bel fagottino di carne rosea.


La nonna paterna, Elisabetta, la marchesina aveva dato alla luce una dozzina di figli, una buona metà dei quali morti in tenera età ed era stata sposata con un ricco proprietario terriero, banchiere di successo, morto anche lui piuttosto giovane che tuttavia le aveva lasciato decine di poderi che lei visitava, a volte, con un calesse trainato da due cavalli bianchi.
Di affari e di amministrazione Elisabetta non ne capiva niente ed era così presa dalla sua vocazione cattolica,una volta nominata crocifera del Papa, che una volta sistemati i figli maschi a Milano nel Collegio Demerode, aveva affidato i suoi beni ad un paio di amministratori che molto velocemente avevano dissipato, assieme ad alcuni mezzadri responsabili della terra e delle scuderie, ingenti quantità di denaro
Una notevolissima somma era stata spesa inoltre per ordine diretto della marchesina nella costruzione di una chiesa a Santagiustina, che era costata almeno il triplo di quanto valesse.
Tra i figli sistemati a Milano al Demerode c’era anche mio padre che, uomo alto e dai lineamenti regolari come si addicevano ad un discendente di una nobildonna, una volta uscito dal Collegio si era dato alla bella vita ed alla politica.
Filippo Maria, così si chiamava, poteva disporre di una discreta quantità di denaro proveniente dalla rendita diretta di alcuni poderi di proprietà personale, eredità paterna e così gli era facile, sia a Milano che a Rimini, frequentare festini e belle donne nonché famosi sarti.
Oltre a questi capricci costosi ne aveva un altro, costosissimo, il gioco e poi un altro ancora, pericoloso, il correre in motocicletta ed un difetto, l’interpretazione che dava all’amicizia che considerava sacra con giovani del nascente movimento fascista e questo non tanto perché capisse ancora o credesse a quella ideologia ma per distinguersi dai suoi conterranei quasi tutti appartenenti alla sinistra repubblicana e socialista:
Dopo aver partecipato alla Marcia su Roma, senza che la violenza appartenesse al suo modus vivendi, era tornato alla sua Santarcangelo dove era stato nominato segretario del Sindaco e si era sposato con mia madre, la seconda figlia di una famiglia di commercianti, dove il benessere era il frutto di duro lavoro e la serietà di vita, condita da una fede in Dio ferma e così ciecamente parte del patrimonio cromosomico, faceva da contro altare alle ricchezze di famiglia dei latifondisti, proprietari pure di immobili di mezza Rimini.
Il matrimonio era stato voluto da Filippo Maria perlomeno nel tentativo di dare ordine alla sua vita in un momento di innamoramento impulsivo e perchè in fondo egli desiderava una famiglia tutta sua, non pensando a quali responsabilità potesse andare incontro con quel suo carattere così avventuroso e parzialmente folle.
Infatti mio padre fu talmente impulsivo e pazzoide da combattere, in prima linea come volontario, tutte le guerre volute da Mussolini a cominciare da quelle in Etiopia per fare grande l’Italia e per contribuire alla costruzione dell’Impero, a quella di Spagna ed infine a quella tremenda mondiale.durante la quale lo inviarono sia sul fronte greco albanese che in Russia.
Così ogni qualvolta tornava in Patria, in licenza, metteva incinta mia madre che ebbe nello spazio di una decina di anni, oltre ad alcuni aborti spontanei, cinque figli dei quali io fui la quarta,unica femmina.
Mi diedero un nome bellissimo ed appropriato,considerando quello che mi doveva capitare nella vita.
Mi chiamarono Angelica e mi iscrissero all’anagrafe,qualche giorno dopo, come nata il giorno di Tutti Santi, così per completare il ruolo che avrebbero voluto attribuirmi di predestinata alle opere caritatevoli e buone.


Nella penombra del tramonto, dietro la casa che mi aveva vista nascere a poca distanza dal Marecchia, sentii sferragliare un lungo treno e poi vidi in atterraggio un aereo verso Rimini.
Tutto quel rumore mi distolse dai ricordi e mi riportò alla realtà del presente ed ai miei quattro figli, tutti all’estero per lavoro. Dovevo essere al check-in per Londra alle ventuno e quaranta e dovevo essere puntualissima perché a Londra mi aspettava,ansioso di rivedermi, il più giovane dei miei figli, Gianluca dopo circa sei mesi di lontananza.
L’automobile l’ avrei lasciata in un garage nei pressi dell’aeroporto come avevo già contrattato e mi sarei fatta accompagnare di corsa alle partenze internazionali.






CAPITOLO SECONDO





Mi avevano assegnato un posto, nella business class del MD dell’Alitalia, vicino al grande oblò sulla sinistra dell’aereo ed attraverso quello potevo ammirare il cielo trapunto di stelle appena fummo a diciottomila piedi di quota. Ma lo spettacolo che vidi dopo un ora di volo, della mezza Luna con gobba a ponente, era da sogno.
Me l’aveva spiegato mio suocero,comandante della compagnia di bandiera, come distinguere se la luna fosse in fase calante o crescente:tutto dipendeva dalla posizione della convessità del nostro satellite ad est oppure ad ovest e questo gioco, per me che avevo passato tutta la mia infanzia in un convento di suore a Santarcangelo andando a letto come le galline appena il sole tramontava, rappresentava una gioia semplice e nello stesso tempo divertente.
Povero suocero, un po’ burbero e severo prima con sé stesso e poi
con gli altri, che avevo visto morire improvvisamente di infarto quando ormai stava in pensione, si sarebbe certamente meravigliato nel vedermi volare di notte, io apparentemente così timida e silenziosa che ora guidavo il mio coupè rosso amaranto a velocità folle e prendevo continuamente aeri, di cui avevo imparato a conoscere tipo e caratteristiche con molta precisione,.per andare a trovare i miei figli sparsi per il mondo tra cui Antonella, alla quale avevo dato il suo nome.


La mia primogenita viveva negli Stati Uniti in California ed era divenuta una grande stilista di moda femminile, qualità questa che le derivava da me stilista anche io ma di più modeste proporzioni.
Lei faceva la spola fra San Francisco e Los Angeles dove possedeva un paio di boutique e il design italiano spopolava tra i ricchi residenti di Beverly Hill mentre la casa di moda, a San Francisco, era la sede delle sue creazioni fantasiose con quel pizzico di classe eccezionalmente innovativa di cui noi italiani siamo celebri nel mondo.
Antonella era stata corteggiata dalle più importanti case di moda californiana ma lei aveva voluto , con grandi sacrifici personali, creare un suo marchio personale che aveva chiamato “La Casa delle Donne.”
La fortuna le aveva arriso premiando la sua bravura e la sua creatività ed in breve oltre alla ricchezza era divenuta famosa tanto che a soli trentun anni poteva guardare al futuro con il sorriso di chi sa che quello sarebbe stato solamente l’inizio di una carriera favolosa:
Io ero felice e pensavo che, quanto non ero stata capace di ottenere personalmente, Dio aveva voluto elargire a lei, la mia cara e dolce figliola che tanto mi somigliava fisicamente e nei lineamenti,con occhi grandi verdi ed espressivi e naso piccolo con belle narici che sembravano scolpite da uno scultore ed un corpo flessuoso e snello, con fianchi e fondo schiena quasi perfetti e lunghe gambe dritte e ben tornite.
Così ero stata io da giovane ed il mio aspetto era stato sicuramente la principale attrazione che aveva calamitato mio marito che però aveva sempre sostenuto di essere stato conquistato dalla mia intelligenza vivace e dal mio carattere apparentemente docile, sensibile ed anche troppo sincero.
Già mio marito!
L’avevo incontrato a Roma dove ci eravamo trasferiti.subito dopo la guerra ormai poveri in canna, dopo aver venduto tutto quel poco che ci era rimasto nel periodo in cui ancora non avevo compreso cosa significasse avere un padre che aveva preferito le guerre a gli obblighi che derivano a chi crea una famiglia.
Dovevo ai miei due fratelli maggiori,che si erano messi a lavorare giovanissimi, il relativo benessere che mi aveva permesso di iscrivermi al Liceo Artistico e di completare i miei studi a diciotto anni.
Anche gli altri miei due fratelli più giovani avevano studiato ed anche loro per merito sia, dell’ abnegazione dei due fratelli più grandi che della severa amministrazione del poco denaro che entrava in casa da parte di mia madre che, poverina,.esprimeva soltanto così il suo amore materno, non potendo contare né sull’affetto, che non sapeva comunicare, né su mio padre che viveva con noi ma che si era limitato a saltuari lavori non certo all’altezza di quanto avrebbe potuto e dovuto dare ma con una grossa attenuante:era stato epurato per il suo passato fascista.
Con tutto ciò mia madre era riuscita a comprare un grande appartamento, nel quale io avevo una camera tutta mia e dove le idee si erano affinate nel ricordo della mia Romagna e di quelle brave e buone suore che mi avevano fatto da madre e padre mentre ero rimasta sola a Santarcangelo nel periodo che gli altri della mia famiglia.ad eccezione di Marco, il terzogenito anche lui in un collegio di frati, si erano trasferiti a Milano per due anni, gli ultimi della guerra.
Io avevo trovato subito lavoro in una casa di moda nei pressi di piazza di Spagna, con il mio diploma del Liceo Artistico e pur iniziando in sartoria, ben presto fui trasferita nel settore dove venivano creati i modelli degli abiti da sposa sotto la guida di un capo stilista famoso sia per la sua creatività, che era molto stimata nell’ambiente del design a Roma, sia per le sue manifeste tendenze omosessuali.
Non so ancora oggi il perchè questo artista mi aveva preso a ben volere, fatto sta che fu lui ad insegnarmi quel bellissimo mestiere ed a spingermi a perfezionarmi, tanto che divenni molto presto la sua assistente principale.
Così cominciai a vedere alla fine di ogni mese delle grosse somme di denaro con le quali ebbi modo di aiutare da un lato la mia famiglia e dall’altro di rendermi totalmente indipendente tanto che potei andarmene da casa, affittando un monolocale nei pressi di via Condotti a due passi dal luogo di lavoro.
Ero sempre rimasta la timida Angelica ma allo stesso tempo, vivere da sola, mi aveva fatto bene perché aveva affinato in me la voglia di gestire la mia vita liberamente assumendomene tutte le responsabilità.
Avevo avuto una marea di corteggiatori ma non avevo voluto impegnarmi con nessuno finchè, malgrado le mie resistenze, cedetti alla corte spietata di Daniele che mi aveva conquistata non per merito della sua avvenenza, che era molto discutibile, ma per la sua tenerezza e la sua non comune intelligenza.
Mia madre mi aveva messo sull’avviso, quando in un momento di debolezza mi ero confidata con lei, che quel giovane chirurgo di solo ventinove anni non era fatto per me tanto considerava la chirurgia la sua vera sposa e la sua amante per cui ogni altra cosa, inevitabilmente, sarebbe stata secondaria nella sua vita.
Forse ero rimasta infatuata più dal chirurgo che dall’uomo, oppure nel riconoscere che altre cose erano molto importanti nella esistenza degli uomini ,oltre a quelle comuni appartenenti alla quasi totalità dei giovani che avevo conosciuto fino a quel momento.
Così ci sposammo in una bellissima chiesa in alto sul Palatino, dopo quattro anni che erano filati lisci e colmi di affettuosità e momenti di passione conditi da tante carezze.






CAPITOLO TERZO





Io e Daniele avevamo quasi otto anni di differenza ed avevamo la vita davanti a noi che prometteva ad entrambi una carriera splendida e felice.ma due cose non combinavano tra loro ed entrambe dipendevano da mio marito.
Lui pensava in primo luogo alla carriera e non gli era sufficiente essere diventato,così giovane, il primo aiuto del direttore della Cattedra di Patologia Speciale Chirurgica dell’Università La Sapienza di Roma con tutti i concorsi che a getto continuo superava brillantemente ma, ambizioso come era, mirava alla cattedra universitaria che ovviamente non avrebbe mai potuto ottenere nella Capitale ma in qualche altra sede universitaria.
Poi, dopo aver voluto in tre anni due figli,pensava, come del resto era prassi comune nei medici, che le donne dovevano starsene a casa e pensare solo alla famiglia lasciando perdere le loro velleità lavorative concedendo, al massimo al sesso femminile, soltanto il lavoro come hobby ma non certo come possibilità di esprimere in esso tutte le potenzialità di fantasia e di creatività come del resto avevo sognato anche io.
Spesso ripeteva che una donna che volesse a tutti i costi sfondare e divenire una protagonista in qualsiasi campo non avrebbe mai dovuto accettare il matrimonio.
Parlava come un perfetto maschilista ma in fondo mi amava perdutamente e nel suo egoismo sfrontato credeva in buona fede di agire per il mio bene e soltanto per questo.
Io del resto, Angelica di nome e di fatto, non mi sentivo di tirarmi indietro e così era successo che, pur non tralasciando il mio lavoro di stilista,non mi impegnavo più di tanto anche perché, nel frattempo, nei successivi quattro anni avevo partorito altre due volte e di tempo non me ne avanzava quasi più pur avendo l’ aiuto di due babysitter e di una cameriera.
Con il lavoro di mio marito, che era diventato famosissimo come chirurgo toracico, di denaro ne avevamo a iosa ma il nostro rapporto si era incrinato specie quando egli riuscì a vincere la cattedra di chirurgia a Perugia ed il tempo che passava in quella città era divenuto il doppio di quello passato a Roma.
In pratica l’educazione dei figli era diventata solo compito mio e così anche tutte le decisioni che si dovevano prendere in casa me le aveva accollate senza, a dire il vero, che mai si fosse opposto a qualsiasi mia presa di posizione volendomi così dimostrare che rispettava totalmente la mia libertà.
Tutto ciò non era certo quello che avevo progettato per la mia vita ma mi dovevo per il momento accontentare.
Mi aveva anche proposto di andare a vivere a Perugia in una grande e bella villa con uno stupendo giardino colmo di piante e fiori ma il trasferimento nella città umbra non avrebbe risolto nulla,anzi avrebbe peggiorato la nostra già precaria situazione familiare.
Sarebbe mancato sia a me che ai nostri figli il vivere che faticosamente avevo costruito, privandoci anche di quella indipendenza in quelle poche cose che almeno continuavano a farmi sentire una stilista bonsai ed a loro negando le amicizie cui tenevano tanto. soprattutto le più vere, cioè quelle che si creano nella età della scuola.
Poi non avrei mai lasciato Roma,la mia città adottiva, così bella e così saggia nella sua filosofia millenaria e tutto il popolo cosmopolita che le dà colore quasi fosse un immenso quadro d’autore impressionista.


Quando atterrammo a Londra,all’aeroporto di Heatrow, era da poco passata la mezzanotte e Gianluca mi stava attendendo con ansia.
Esuberante, come al solito, mi accolse prendendomi e sollevandomi tra le braccia come un fuscello,baciandomi ed accarezzandomi con dolcezza.
In un attimo dimenticai tutti i pensieri che mi avevano tenuto compagnia durante il volo e mi dedicai totalmente a lui bello e robusto come quando era partito per quella destinazione e per quel posto di responsabilità ottenuto alla City per la migliore tesi di laurea in Organizzazione Aziendale e Finanziaria, premiata con quel prestigioso posto, con un contratto tale che gli prospettava in pochi anni la Dirigenza in quel settore della Globalizzazione che era divenuta il più importante campo di azione di ogni grande Azienda Multinazionale.
.Si vedeva chiaramente che era rimasto il mio semplice e buono Gianluca,premuroso e garbato in ogni atteggiamento ed in ogni parola anche così lontano dalla sua mammina, come amava chiamarmi,da quando aveva imparato le prime parole.
Mentre si andava verso Londra con un taxi mi chiese notizie dettagliate di tutti i suoi fratelli che aveva soltanto sentito al telefono ma in particolare volle sapere di suo padre con il quale
non aveva potuto scambiare una sola parola nemmeno al telefono che risultava sempre muto.
In quel momento non volevo tediarlo con i miei problemi e con quelli del padre per cui volontariamente tagliai corto e gli dissi solo che non doveva preoccuparsi di Daniele che si trovava. in quel momento per un Congresso, in Giappone e che ne avrebbe avuto almeno per un mese, dovendosi recare anche in Australia a Melbourne.
In ogni caso gli avrei dato, in seguito, un numero telefonico satellitare che conoscevano solo pochissime persone molto selezionate
Gianluca mi chiese se avessi mangiato qualcosa e quando seppe che ero a digiuno, mi volle condurre al Talk of London in Drury Lane ed in quell’ambiente elegante, cenammo.ed assistemmo ad uno spettacolo.
Poi volendo festeggiare,ballammo facendo i matti come da tanto tempo non capitava.almeno a me.
Così facemmo le ore piccole e fu una notte indimenticabile quando verso le tre e mezza mi accompagnò al Hotel Hilton dove aveva prenotato una stanza elegante e spaziosa tutta per me perché lui si era sistemato, in quei primi mesi, vicino alla City in una casa famiglia nella quale aveva sia un comodo letto ed una scrivania sia un pasto garantito ad un prezzo equo.
Nei successivi giorni, a parte il week-end durante il quale saremmo rimasti insieme per tutto il tempo, ci saremmo visti alle sei del pomeriggio dopo il suo lavoro e mi aveva promesso una visita accurata di tutto ciò che Londra poteva offrire ad una turista come ero io e così avrei avuto la possibilità di visitare, al mattino.qualsiasi negozio che mi sarebbe andato a genio del West End e di Kensington High Street


Fu una mattina mentre si passeggiava lungo i vialetti di Richmond Park, nella West London tra i caprioli ed i cavalli montati da appassionati di equitazione,che ritornò a far capolino tra noi Daniele, il marito ed il padre evanescente, colui che mi era parso l’uomo della mia vita ma che invece si era poi dimostrato tutta un'altra persona.
Egli non aveva fatto nulla per tenere unita la famiglia ed a parte la tranquillità economica che aveva profuso a piene mani a tutti noi non aveva saputo scindere la propria smisurata ambizione, per il suo non facile lavoro, dalla tenerezza che cementa ogni legame affettivo con la moglie e con i figli che pur adorandolo condividevano con me queste opinioni non certo edificanti.
Raccontai a Gianluca tutte le mie perplessità su suo padre e gli disse pure che non me la sentivo più di corrergli dietro ad elemosinare quella tenerezza di cui ora più che mai sentivo estremo bisogno
Il suo ultimo proposito mi aveva fatto capire che gli uomini i quali si dedicano unicamente al lavoro sono assolutamente malati di mente perché non riescono a comprendere che si vive una sola volta e non si può bruciare l’esistenza dietro traguardi che, man mano raggiunti, sono immediatamente sostituiti da altri, sempre più difficilmente raggiungibili, almeno che non si agisca come un somaro che dopo aver tanto faticato non sa perché e per chi abbia sgobbato e non vede il fine ultimo della propria assurda vita.
Il proposito di Daniele era quello di creare una Clinica Chirurgica in un paese poverissimo, come poteva essere la Birmania, che sarebbe stata una vera manna del cielo sia per i birmani che per i pakistani d’oriente che vivono là a decine di milioni.
Avrebbe costruito, insieme ad altri colleghi e filantropi, una specie di oasi di pace dove sarebbe andato periodicamente a dare il suo contributo di maestro di chirurgia toracica.
Se lo scopo era certamente nobile ma assolutamente utopistico, nel credere che una missione di quella portata potesse essere compiuta senza nemmeno conoscere i mille problemi che sarebbero spuntati come funghi e senza un aiuto internazionale, ciò aveva un doppio significato.che Daniele non aveva considerato, l’inevitabile fine del nostro matrimonio che sarebbe in breve naufragato e la certezza, tenuta da me segreta, ,che sicuramente lo avrei considerato un uomo cui gli aveva dato di volta il cervello.
Ed un'altra cosa non gli avrei mai più potuto perdonargli: non avermi mai detto, quando ci eravamo conosciuti, quali sarebbero state le sue intenzioni, proiettate nel futuro,una volta uniti in matrimonio.
Tuttavia un divorzio non era possibile per la fede cattolica radicata in me dalla nascita, mentre una separazione di fatto era nell’ordine delle cose fattibili.


Era stato uno sfogo quello che non avevo rivelato a nessuno fino ad allora.
Perché lo avessi fatto a Londra con il più giovane dei miei figli non riuscivo ancora a capirlo ma forse una spiegazione c’era.
La certezza di non essere criticata da lui, per il feeling che ci legava da sempre e come avevo previsto, Gianluca non mi biasimò affatto anzi mi consolò affermando che qualsiasi decisione avessi preso egli mi sarebbe stato vicino per sempre .
Non fece nessun commento a riguardo, come era sua abitudine di non mettere mai il dito tra marito e moglie, mi riempì di carezze e mi fece passare altre tre settimane felici e spensierate.
Tuttavia io avevo intravisto nei suoi occhi un sottile velo di tristezza e questo, per quanto egli fosse stato riservatissimo,mi fece concludere che per il momento avrei dato a Daniele una ultima chance e ciò avrei fatto, per non causare a Gianluca e probabilmente a tutti gli altri miei figli, un trauma psicologico causato dalla separazione legale che riconoscevo fattore di turbamenti proprio nei giovani educati da una mamma che aveva sacrificato la sua vita per la famiglia.
Così quando ripartii da Londra per Liegi,una domenica sul tardo pomeriggio, nel salutare Gianluca volli dirgli che la mia decisione riguardo il matrimonio non doveva considerarla irreversibile.
Ci abbracciammo teneramente, questa volta all’aeroporto di Gatwick e mi imbarcai sull’aereo che mi avrebbe condotto dal mio
secondogenito che aveva soltanto quattordici mesi meno della sorella.








CAPITOLO QUARTO.





Mia madre mi aveva insegnato che in Romagna al primo figlio maschio si aggiungeva al primo nome quello di Maria e così, se lo si desiderava, a tutti i figli maschi e che il comportarsi in quel modo significava ingraziare sul neonato la protezione della Madonna.
Così avevo fatto e con Dario e con Duilio ma non con Gianluca perché, a queste superstizioni, con gli anni non credevo più.
Dario Maria ormai viveva da anni in Belgio con la sua compagna, una italiana nata a Liegi da genitori siciliani emigrati, che per nulla al mondo avrebbe mai preso la cittadinanza belga.
Lei era una bella ragazza bruna, di nome Alessia, che aveva incominciato a lavorare a diciotto anni e che lentamente ma con estrema caparbietà era salita fino ai vertici manageriali di una Banca che aveva aperto degli sportelli assicurativi dei quali Alessia era dirigente.
A me, la donna di mio figlio piaceva moltissimo per quello stile francese che portava in giro con estrema disinvoltura, per l’eleganza nell’abbigliamento e non ultimo per quell’accento, con l’erre arrotondata, che lei non si accorgeva di avere e perciò ancora più simpatico.


Per arrivare a Liegi,dotato di un aeroporto di medie dimensioni e non sede di traffico internazionale di compagnie di bandiera, mi ero imbarcata su un bireattore a quindici posti di una linea aerea privata che faceva la spola con Londra.
Me lo aveva consigliato Dario Maria, al telefono, per non farmi affaticare troppo nel caso avessi preso un volo per Bruxelles, dal momento che poi avrei dovuto prendere il treno per giungere a Liegi anzi a Boncelles dove, nella loro villa a due piani a duecentotrenta metri sul livello del mare immersa nel verde tra campi da golf e scuderie, mi avrebbero attesa con Alessia in quella domenica, impegnati entrambi in un lungo ed importante meeting di lavoro.
Dario Maria lavorava come ingegnere elettronico in Olanda ed in Germania presso la Mercedes-Benz, interessandosi in particolare di auto sportive e di formula uno di cui era sempre stato innamorato.
Il suo ideale era di diventare al più presto uno dei responsabili della sezione corse della casa di Stoccarda e poi, Dio volendo, essere assunto nello stesso ruolo oppure in qualche altro di prestigio alla Ferrari e così tornare in Italia.


Ricordavo ancora,come se fosse appena passato, il giorno che nacque.
Le doglie cominciarono presto alle cinque di mattino ma fino alle sette non dissi nulla a Daniele, che dormiva tranquillamente accanto a me.
Ma quando mi si ruppe il sacco amniotico pensai che stavo esagerando anche perché le contrazioni avevano preso un ritmo frequente e si presentava ogni quattro minuti.
Ubbidiente ed anche un po’ incosciente, in quanto il parto di Antonella era filato alla grande e quindi conoscevo con precisione che alla dilatazione completa mancavano ancora un paio di ore, decisi di svegliare mio marito che, sorpreso per la data che anticipava di più di dieci giorni la data presunta del parto, mi ripeteva di essere tranquilla che in un quarto d’ora saremmo giunti alla Clinica Quisisana ai Parioli dove, il direttore in persona della Clinica Ostetrica della Sapienza che durante tutta la gravidanza mi aveva seguita, aveva promesso a Daniele ed a me la sua presenza come aveva fatto con la mia primogenita,
In realtà alla Clinica giungemmo dopo quasi un ora e mentre Daniele, che aveva il numero diretto e personale del professore, aveva avuto qualche difficoltà nel rintracciarlo, in me stava iniziando ad arrivare una gran fifa di partorire in auto sempre per quella innata abitudine di non fare preoccupare in anticipo gli altri.
In questo caso mio marito, come chirurgo di professione non si sarebbe mai allarmato anche se avevo intravisto in lui un certo malcelato nervosismo
Alla presenza del suo amico ostetrico Daniele aveva ripreso la sua abituale aria professionale, aveva assistito al parto e felice di avere un figlio maschio mi aveva baciata come ai bei tempi,quando eravamo fidanzati, mi aveva accarezzato dolcemente ed aveva sorriso felice al figlio che anche appena nato sembrava un bambolotto bellissimo,sereno e serio.
Già,proprio i suoi occhi a mandorla e le sue lunghissime ciglia avevano espresso anche a me ,stanca ma felice,l’impressione di una serietà molto strana per un neonato sano e così carino come era Dario Maria.
Con il tempo avevo capito che quel visino serio gli sarebbe
rimasto per sempre come fosse la sua più importante caratteristica.


Dario Maria ed Alessia avevano preso una settimana di ferie in vista del mio arrivo a Liegi a partire dal giorno dopo,lunedì.
L’incontro tra noi era stato caloroso e chiaramente si vedeva che non sapevano che fare per farmi capire quanto fossero felici nel rivedermi.per quanto né l’uno né l’altra, caratterialmente, fossero esuberanti nell’esprimere con le parole la loro gioia ed il loro affetto.
Mio figlio,per esempio, che non aveva mai studiato musica ma che era un autodidatta al piano ed alla chitarra ed un cantautore dilettante, dopo cena, mi aveva suonato al pianoforte e cantato numerose canzoni, le ultime del suo notevole repertorio già protette alla Società Autori ed Editori.
Per me,sua madre, erano creazioni stupende ed ancora non capivo da chi avesse ereditato quel talento per quanto nella famiglia di mio marito vi fossero stati alcuni musicisti di una certa fama.
Del resto anche il mio terzogenito, Duilio Maria, creava anche lui della splendida musica che avevo, in passato, pensato potesse essere adatta per le colonne sonore di films o per sceneggiati televisivi ,cosa che sembrava stesse realizzandosi all’estero,in Canada dove in quel momento si trovava dopo una permanenza a Los Angeles, di un paio di anni ospite della sorella che in quella città possedeva alcune ville a Santa Monica.
Del resto era stato proprio lui che aveva spinto Antonella,in un primo momento restia, ad organizzarle il suo businnes a San Francisco ed era stata la sua competenza a non farle commettere l’ errore di accettare un ruolo subordinato di stilista in qualche megagalattica SPA della moda che avrebbero fatto carte false per ottenere la sua pregevolissima collaborazione.
Egli semplicemente l’aveva spinta ad agire da sola, unicamente con il suo aiuto di eccezionale creatività nel mondo della pubblicità attraverso Internet, la cui padronanza era eccezionale.
Tutto quello che Antonella stava ottenendo in America da un punto di vista commerciale lo doveva esclusivamente al fratello che quindi era in realtà socio, a tutti gli effetti, con la sorella.
Duilio Maria, oltre ad avere un grosso stipendio. era azionista della casa di moda di Antonella e possedeva anche lui grosse liquidità che però ancora non aveva deciso come, quando e dove investire.
Nemmeno aveva voluto acquistare immobili negli States od altro che lo ancorasse definitivamente in quella nazione dal momento che la sua innata creatività in continua evoluzione si rivolgeva in una miriade di progetti tanto che io,pur ammirandolo, ogni tanto pensavo che avesse preso dal padre una buona dose di innocua vena di follia.


Dario Maria aveva acquistato in Belgio insieme ad Alessia il terreno sul quale avevano costruito la loro villetta, disegnandola egli stesso e creando un progetto che prevedeva già un ampliamento che avevano rimandato nel tempo quando avrebbero potuto disporre di molto più denaro.
I due piani di cui disponevano erano già una super casa con una sala soggiorno al pianoterra di più di cento metri quadrati ben divisa, in un zona salotto con poltrone e divani e pianoforte a coda stupendo ed una zona pranzo arredata con gusto con mobili in legno di stile classico.
In fondo, la cucina anche quella di gusto classico molto ampia ed attrezzata di tutte le comodità che qualsiasi donna vorrebbe possedere.ed un bagno non molto spazioso ma molto comodo.
Al piano di sopra al quale si accedeva con una scala comodissima anche quella in legno di noce massiccio, che non turbava affatto l’eleganza della sala soggiorno, avevano tre camere due delle quali da letto,una matrimoniale e l’altra così detta degli ospiti, ciascuna con bagni in marmo e ceramica di diverso colore.
Ma la cosa che mi aveva stupito maggiormente era la terza spaziosissima camera divisa in due parti da un arco in muratura con lo studio-biblioteca di mio figlio da un lato mentre dall’altro era completamente vuota.
Non mi spiegarono il perché di quello spazio vuoto ma io volli intendere, anche se non ci potevo credere né sperare, che lo avessero lasciato così per un nipotino che ancora non avevo.
Quello che sapevo con precisione era che mio figlio non avrebbe mai rinunciato ad un super Box-Officina, in un angolo del grande giardino, dove per prima cosa aveva sistemato la vecchia macchina del nonno paterno, una Fiat Coupè d’Epoca della quale era gelosissimo e che custodiva con ogni cura, eseguendo personalmente ogni lavoro di manutenzione di cui avesse bisogno.
La passione che aveva per le auto era anche dimostrata dalla cura che dedicava sia alla sua Fiat Barchetta che all’Alfa 147 di Alessia che spesso lo prendeva in giro per quella sua mania che si portava appresso da bambino.
Lei del resto ed in questo mi somigliava moltissimo aveva la passione dei fiori e delle piante che il giardino conteneva in abbondanza e che io ero rimasta incantata nell’ammirare.
Ero felice per essere andata a trovarli dopo tre anni durante i quali erano sempre venuti loro a Roma e mi stavo proponendo di non lasciare passare mai più tanto tempo senza recarmi a Boncelles.






CAPITOLO QUINTO.





Durante tutta la settimana seguente Alessia e mio figlio mi fecero visitare quasi tutto il Belgio e l’Olanda, portandomi in macchina ovunque vi fossero belle cose da vedere, tra le quali ammirai molto alcune zone delle Fiandre e delle Ardenne.
Vidi città come Gand, con le tipiche case gotiche che si specchiano nelle acque dei canali e Bruges,una delle più suggestive e romantiche città del Belgio con i suoi ponti che attraversano canali di ogni dimensione, con le sue guglie ed edifici anche essi di stile gotico e con i suoi fiori ed i suoi giardini e poi ancora Ostenda ed il mare del Nord, Anversa, Rotterdam e la splendida ed affascinante Amsterdam.
Mi fecero conoscere quasi tutti i parenti di Alessia e tra questi conobbi i figlioli del fratello che, abitando poco lontano da loro in una altra bella villa, erano quelli che più frequentavano anche se mio figlio si lamentava a causa del loro francese perché avrebbe preferito che parlassero di più l’italiano, lingua che conoscevano tuttavia abbastanza bene.
Ma chi mi aveva impressionato di più era la madre di Alessia.
Quella anziana signora emigrata dalla Sicilia giovanissima era stata in realtà il perno di quella famiglia.
Grazie ai suoi sacrifici ed al suo buon senso aveva fatto in modo che la sua discendenza fosse, in Belgio, rispettata come si doveva per il senso dell’onore che aveva inculcato in tutti i suoi figli senza togliere nulla agli enormi sacrifici del marito,ormai morto da qualche tempo per un ictus,che aveva lavorato tanto anche rischiando la pelle per tutti loro
Anche se io stessa avevo avuto una infanzia piuttosto travagliata avevo pensato,ancora una volta, che le donne sono il nerbo delle famiglie e che i loro sacrifici in fine sono ripagati generosamente dal Padreterno


Dovevo assolutamente ritornare in Italia dopo quel mese di relax che mi ero concessa ed a malincuore,anche questa volta di domenica, un volo Alitalia mi fece giungere a Rimini dopo due ore e mezza.
Dario Maria mi aveva accompagnato a Bruxelles con la sua coupè e nel tragitto, tra la sua casa e l’aeroporto, mi parlò tanto dei suoi progetti per tornare in Italia che dovetti chiedergli del perché si fosse tanto impegnato nella realizzazione di quella stupenda villa nel punto più alto rispetto a Liegi, tra i prati ed i fiori.
Egli mi spiegò che quella casa in Belgio voleva dire molto sia per lui che per Alessia e che in ogni caso, anche se i suoi sogni si fossero concretizzati, non l’avrebbe mai ceduta a nessuno perché proprio in quella città era nata la sua compagna e lì Alessia voleva avere un punto di riferimento nella sua vita.
Apprezzai le sue decisioni perché capivo perfettamente cosa potesse significare per loro due, che si erano conquistati con sacrifici una posizione importante in quella parte dell’ Europa, essere sicuri di non aver lavorato invano.
Non volli, per non offendere il suo orgoglio di maschio, sfiorare nemmeno l’argomento figli e così pensai che non sarei mai diventata nonna almeno da parte sua per un tempo che poteva diventare eterno e che egli in realtà agiva in maniera del tutto opposta a quella di suo padre che, da perfetto egoista. ne aveva voluti quattro
Quando fui a Rimini riflettei nuovamente su quel viaggio che ancora una volta mi aveva insegnato, come per darmi una conferma di cui non c’era assolutamente bisogno, quale enorme differenza di carattere avevano quei miei due figli:Gianluca e Dario Maria.
Il primo non vedeva l’ora di sposarsi perché amava la sua fidanzatina che lavorava per il momento a Roma e che appassionatamente lo ricambiava e con la quale desiderava di avere almeno un figlio, possibilmente una femminuccia, ma forse anche due se il primo fosse stato un maschietto.
Gianluca però non aveva nessuna fretta di fare il gran passo con Martina e come mi aveva spesso confidato ripeteva che la fretta fà fare i gattini ciechi.
Con questo dimostrava come sempre la sua positività e la sua razionalità, non disgiunta da una maturità che tuttavia non gli impediva di riflettere con tenerezza su colei che forse,per un carattere più debole ed impulsivo, avrebbe voluto subito avere un cuore ed una capanna
Quando avevo conosciuto Martina ero rimasta sbalordita dai suoi lunghissimi capelli neri che teneva sciolti dietro la nuca e che raggiungevano il punto vita.
Neri e lisci sembravano una vera cascata d’acqua che bene si intonavano con la sua carnagione così scura da farla sembrare una mulatta, una splendida giamaicana.
Alta e slanciata, con un paio di gambe niente male, faceva una ottima figura per la flessuosità naturale che possedeva quando camminava anche perché sapeva vestirsi con stile semplice ed al tempo stesso elegante.
Era nata a Roma ma portava impressi i cromosomi sardi della madre di cui era orgogliosa e di cui si vantava ed anche gli occhi scuri e grandi erano occhi che parlavano un idioma del sud mentre la miopia dava allo sguardo una delicata e perenne serietà.
Il suo attaccamento a Gianluca era quasi morboso come era evidente la gelosia, che dimostrava ancora di più la sua discendenza meridionale anche se quella origine, purtroppo, metteva anche in evidenza la sua testardaggine e cocciutaggine che in seguito avrei conosciuto meglio.


Quella sera dormii a Rimini ma la mattina successiva non fui in grado di resistere alla tentazione di ritornare a Santarcangelo perché una potente molla mi spingeva a rivedere la mia città e la piazza, con vicina la bella chiesa dove mi ero ripromessa di recitare un rosario alla Madonna perché proteggesse tutti i miei figli.
Ero serena e felice in quelle ore respirando l’aria del mio paese natio e più ancora lo fui quando, nel prendere un cappuccino, potei sentire l’idioma dei miei compaesani che capivo perfettamente.
Che bella cosa fu rivivere per un momento il mio mondo e sentirmi orgogliosa delle mie radici!
Quanti sentimenti pur contrastanti mi ribollirono nell’anima e mi fecero apprezzare di essere viva!
Non c’era niente da fare, la mia Romagna non l’avrei scordata mai e per sempre fino alla morte l’avrei tenuta nel cuore, anche quando fossi stata di nuovo dall’altra parte del mondo, in America, per riabbracciare e stare per un poco vicina alla mia Antonella ed al mio Duilio Maria.
Così dopo sei ore mi ritrovai a Roma dopo aver percorso la Flaminia e poi la Salaria non avendo voluto prendere l’autostrada perché il mio spirito si sentiva tranquillo e rilasciato.
La nostra casa io e Daniele l’avevamo voluta un po’ fuori città nella zona dell’Olgiata, tra il verde dei prati intorno e tra gli alberi che le facevano da cornice vicino ai campi da golf.
Era una villa per otto persone ma in quel momento sembrava enorme solo per me e per quella coppia di peruviani,marito e moglie, l’uno giardiniere ed uomo tuttofare, l’altra cameriera e cuoca quando a me non andava di cucinare il che avveniva spesso ora che vivevo da sola per l’assenza quasi continua di mio marito.


Erano passati venticinque anni da quando ero entrata, per la prima volta, in quella casa con Daniele assieme ad Antonella e Dario Maria e gli altri due miei figli più piccoli.
Ricordavo come in un sogno quei tempi, conservati in un cassettino della mia memoria, come un periodo strano della mia vita.
Mi si alternavano momenti colmi di gioia pura e di semplice felicità, accanto ai miei figli, ad altri di tristezza infinita per la perduta libertà che tanto avevo cercato dalla mia gioventù.
Mi sentivo come incatenata in una gabbia senza possibilità di uscita come se fossi stata condannata da un fantomatico tribunale morale ad essere in quel modo, comportandomi da moglie e madre, esente da difetti o da bisogni diversi da quelli che gli altri si aspettavano da me.
Invece non era così perché, prepotentemente, la rabbia che talvolta sentivo invadere improvvisamente il mio io era vera e schietta.
Soprattutto mi pareva che la vita si fosse incanalata in un tourbillon di fatti che non avevo desiderato appieno e che mi avevano privato delle infinite emozioni della giovinezza e non solo del mio lavoro, diventato una pallida cosa di quanto mi si era prospettato, ma anche delle piccole e grandi emozioni proibite che sempre capitano agli esseri umani.
Avevo in sostanza fatto un peccato di presunzione, pur così giovane ed ancora inesperta, di quanto la vita può darti ed in quei momenti giungevo ad invidiare coloro che avevano saputo resistere con grande coraggio alle chimere che, in età ancora immatura, mi avevano fatto prendere delle decisioni troppo frettolose come l’idea balzana di prendere un marito e conseguentemente di avere tanti figli così innocentemente inesperta.
Ormai avevo combinato un bel pasticcio ed era inutile recriminare perché non potevo più tornare indietro e nemmeno, con l’orgoglio che sempre era stato in me il difetto ed il pregio più grande, confidarmi con qualcuno.
Ma infine ebbi il coraggio di cancellare la parte negativa del mio carattere e quando Daniele un giorno, in cui stranamente eravamo rimasti soli in casa, mi propose di fare all’amore così freddamente ed improvvisamente senza preamboli e senza che prima vi fosse stato un minimo gesto o parola di tenerezza, essendosi accorto che spesso aveva pianto in silenzio e di nascosto, gli dissi che da quel giorno sarei cambiata totalmente e sarei stata me stessa senza che nessuno potesse condizionarmi.
E così feci, pur sapendo perfettamente che egli se ne sarebbe assai risentito perché mille e mille volte mi aveva detto che mi amava perdutamente e che mi avrebbe continuato ad amare per sempre qualsiasi cosa fosse potuta capitare tra noi.
Io sapevo che mio marito aveva detto la verità perché tranne il suo lavoro così impegnativo e che ci separava ogni giorno di più nessuna altra cosa o persona poteva distoglierlo da me.
Tuttavia egli non aveva capito che solo un rinnovato ritorno ai tempi in cui ci eravamo incontrati ed amati, quando, se pure con grande sacrifici da parte sua trovava il tempo per corteggiarmi e starmi vicino e per darmi ogni sorriso con spontaneità soltanto per rendermi felice, avrebbe potuto riavere tutta la tenerezza e tutto il mio amore sopiti entrambi.


Non avevo fatto i conti con la sua estrema testardaggine ed indolenza nel cedere su problemi che egli non riusciva a porsi in modo semplice e lineare.
Per lui erano stati solo capricci di una bambina non cresciuta abbastanza quella mia richiesta di fare un passo indietro ai tempi della mia e della sua infatuazione giovanile.
Quello che mi avrebbe concesso, infine, era la promessa di starmi il più vicino possibile in tutti i momenti che ne avessi sentito la necessità sia che egli si trovasse a Roma sia che fosse a Perugia, dove stava per ottenere la Cattedra cui teneva tanto.
A quel punto avevo avuto il coraggio di dirgli che non sarei più tornata indietro sul fatto che sarei stata, come mi ero ripromessa, una buona madre ma non più una moglie succube di un marito scienziato per tutti ma stupido ed immaturo con la sua famiglia.







CAPITOLO SESTO





Ero tornata a Roma per sistemare alcune faccende finanziarie che avevo sempre rimandato ad altri momenti e che nel frattempo erano divenute abbastanza urgenti.
Avevo da circa sei mesi compiuto cinquantatre anni e mi ero ripromessa di mettere ordine al mio personale patrimonio.
Ero titolare, grazie alla mia passata attività di stilista,del marchio che una quindicina di anni prima mi aveva permesso di creare una Società per Azioni della quale avevo mantenuto la maggioranza assoluta possedendone il cinquantuno per cento.
La Società era stata quotata in Borsa ed io ero l’azionista di riferimento di quel Gruppo che aveva una catena non indifferente di negozi in Franchising.
Avevo un bel numero di collaboratori di cui mi fidavo ciecamente e tra stilisti, sarte ed addetti al Marketing si trattava di oltre cento persone quasi tutte azioniste.
Avevo nominato Amministratore Delegato il mio vecchio e fidato protettore omosessuale dei primi anni della mia vita nel campo dell’Alta Moda ed io Presidente della Società potevo affidarmi a lui assolutamente.
In quel momento avevo pensato di prendere importanti decisioni riguardo al mio futuro anche perché non dovevo per nulla preoccuparmi di nessun altro problema.
Tutti i miei figli erano ben sistemati e grazie al sostegno economico del padre non avrebbero nemmeno in seguito avuto bisogno di tutto quel mio denaro che come una formichina avevo risparmiato.
Ma il mio più grande desiderio era quello di pensare, nonostante tutto, al loro benessere e soltanto allora sarei stata felice di aver compiuto tutto il mio dovere di madre.
Daniele era stato un padre perfetto sotto questo profilo e pur di soddisfare le loro esigenze nelle rispettive professioni avrebbe fatto carte false
Non mi davo pace solo per il fatto che la nostra era una famiglia sui generis e che mai avrei potuto dire di aver avuto dalla vita quello che mi sarei aspettata nella mia adolescenza di ragazza semplice e bisognosa di affettuosità e di amore che,con allegria, si manifestasse nelle piccole cose di ogni giorno.
Anche il fatto che tutti i miei figli avessero voluto andarsene per il mondo a cercare il loro futuro mi rattristava e non per egoismo materno oppure per il bisogno di sentirli vicini a pelle ma perché le possibilità di vederli e di sentirli, nelle loro confidenze piccole e grandi, sarebbero divenute sempre più aleatorie man mano che il tempo fosse passato.
Erano troppo grandi le distanze chilometriche che ci separavano e se per il momento questo problema poteva essere superato pensavo al giorno che avrei avuto molti più anni e come avrei fatto senza nipotini da vedere crescere e sbaciucchiare.
Dovevo assolutamente trovare una soluzione perché a tutto avrei rinunciato meno che alla vicinanza con i miei nipoti, ancora nel pensiero di Dio, ma certamente presto realtà certe e bellissime.
Questa volta avrei usato soltanto la razionalità per riuscire nello scopo ed avrei certamente raggiunto quello che mi ero prefissata e che sentivo bruciarmi nel cuore.


Come se fossi stata folgorata da una precisa premonizione mi raggiunse,nelle ore seguenti, una telefonata di Antonella da San Francisco che in breve mi avvisava di essere rimasta incinta e che le ecografie avevano dimostrato una gravidanza gemellare.
Il suo compagno, Alfred, un italo americano che lavorava come ricercatore all’Università di Berkeley era impazzito di gioia e si sarebbero sposati tra poco più di venti giorni.
Io dovevo raggiungerla al più presto anche senza Daniele perché senza di me si sarebbe sentita una povera orfana, per di più in un momento della sua vita così importante e felice.
Avrei avuto il tempo di prepararmi in quanto la mia permanenza negli USA sarebbe durata un bel po’almeno fino al parto ed anche oltre.
Le feci le mie congratulazioni e la promessa che tutto si sarebbe svolto secondo i suoi desideri che, poi, erano anche i miei.
Le promisi anche che avrei dato la bella notizia ai suoi fratelli in Inghilterra ed in Belgio dal momento che sarebbe stata lei stessa che avrebbe informato Duilio Maria in quel momento in Messico.


Nelle giornate seguenti non ebbi un attimo di sosta a furia di girare fra la sede della mia SPA, le Banche ed i vari Commercialisti che mi assistevano nei rapporti col Fisco e buon ultimo, ma primo per le mie intenzioni, il Notaio di mia fiducia.
Avevo deciso che avrei provveduto io all’istruzione di tutti i miei nipoti dando ordini precisi in questo campo, alla sola condizione che fossero Scuole, Collegi ed Università di primissimo piano qualsiasi scelta, in futuro, fosse maturata nei loro cervelli.
Ognuno avrebbe avuto a disposizione una somma di denaro, vincolata a quello scopo, pari a duecentomila dollari.
Ad ognuno dei miei figli,che avessero avuto dei bambini, sarebbe andato come una specie di premio di produzione, centocinquantamila dollari per ogni nipotino o nipotina.che fosse venuta al mondo.
Quello del premio di produzione era stata una idea veramente balzana, assolutamente lontana mille miglia dal mio modo di essere e di pensare ma non avrei saputo cosa altro fare per urlare a loro ed a me stessa la desolazione della mia vita e la mia tristezza di donna, lasciata sola in un mondo che badava unicamente al benessere economico ed al successo professionale.
Come fossero lontani i tempi dove il sorriso spuntava naturale e dolcissimo solo al pensare ai momenti di intimità, di un pranzo o di una cena, consumati insieme e quando, in quelli spazi di tempo, ognuno si confidava all’altro e tutti insieme parlavano di mille cose, magari bisticciando, era il cruccio della mia povera vita!
Tuttavia a me, che avevo sempre creduto nell’aiuto del Signore, stava per capitare un doppio miracolo che mai avrei potuto immaginare: quello di vedere finalmente il sangue del mio sangue generare parte dei miei cromosomi e quello del riavvicinarsi di mio marito che improvvisamente, alla notizia della gravidanza di Antonella che gli avevo dato al telefono,si era precipitato a Roma dall’Australia per dirmi, con estrema umiltà che mi adorava e che mai più mi avrebbe lasciata sola e che tutte le idiozie della carriera inseguita alla morte e quelle che riguardavano i nostri freddi rapporti sarebbero scomparse dì incanto.
Egli aveva finalmente capito che sua moglie valeva più di qualsiasi altra cosa al mondo e che era venuta l’ora di passare insieme tutti gli anni che ci fossero dati di vivere.
Al lavoro avrebbe da quel momento dedicato il minor tempo possibile finendola di inseguire chimere di nessun significato e che avrebbe affidato ad altri,suoi allievi,il compito di proseguire la strada che egli aveva tracciato.
Mi aveva accarezzato il viso, dove erano cominciate a vedersi piccole rughe ed i capelli con qualche filo grigio e mi aveva baciata con una tenerezza tale da farmi sentire veramente la regina del suo cuore.
D’incanto erano scomparsi nella mia anima e nel mio cuore tutti i risentimenti e le critiche che così a lungo avevo covato e per la prima volta dopo tanti anni sentivo di non aver sbagliato nello sposarlo.


Nel preparaci a raggiungere Antonella per il suo matrimonio mi disse anche che nessuno al mondo avrebbe preso il suo posto nell’accompagnare la sua bambina all’altare e questa decisione volle comunicarla alla figlia immediatamente.
Lo stupore di Antonella fu pari alla sua gioia tanto che, poi, mi chiese spiegazioni su cosa fosse successo a Daniele per quel repentino cambiamento di comportamento.
Alla domanda, ridendo. risposi sibillina che si era innamorato perdutamente della sua mamma.
Cinque giorni più tardi prendemmo un volo No-Stop transpolare per Los Angeles dove ci stava attendendo sorridente e sempre più bella nostra figlia con una pancetta che era tutto un programma.






CAPITOLO SETTIMO





Antonella, nei tre anni durante i quali non l’avevo più vista da quando era venuta l’ultima volta a Roma, era diventata ancora più donna di quanto ricordassi ma una donna speciale per l’eleganza tutta italiana nel vestirsi, che confrontata con quella di quasi tutte le americane, faceva capire il motivo per cui il gusto e lo stile della sua casa di moda avesse avuto tanto successo da quelle parti.
Le stoffe e le rifiniture dei suoi abiti, il taglio e la creatività unita alla semplicità facevano di lei e conseguentemente di tutte le sue clienti una specie di casta non confondibile con moltissime altre donne che si rifornivano di vestiti da altre celebri case di moda.
Era come se le sue affezionate clienti americane di ogni età appartenessero ad un altro pianeta, inconfondibili ed era chiaro a sufficienza che il suo successo non le era stato per nulla regalato.
Lo dimostravano anche i suoi premaman avvolgenti la sacralità della maternità e le sue creazioni da sera che avevano il pregio di poter essere indossate con disinvoltura senza che le donne si sentissero impacchettate come un regalo costoso.
L’avere constatato, “de visu”, tutto ciò mi aveva riempito d’orgoglio ed il mio pensiero era stato che mia figlia avesse realmente ereditato da me una grande e fortunata arte, che potevo paragonare a quella pittorica di tanti italiani i quali avevano superato tutti per la stupenda bellezza delle loro tele con le quali avevano riempito il mondo.
Antonella ci aveva sistemati nella villa al mare di Santa Monica, che lei teneva a disposizione di Duilio Maria, il quale dalla bella Vancouver spesso scendeva a Los Angeles per lavoro oppure per passare con lei un periodo di relax come sarebbe accaduto entro pochi giorni per riabbracciare me e suo padre.
Non riuscivo ad immaginare come mio figlio fosse diventato.
Una volta,anche lui come il padre, da giovane, era veramente un vulcano in eruzione continua sempre dietro a due cose, le donne e la sua inventiva che si manifestava in tutti i campi dell’informatica e della musica ma anche nello scrivere sceneggiature per pellicole di fantascienza.
Duilio Maria aveva sempre avuto un carattere impulsivo e già quando era soltanto un bambino, con i capelli biondi e riccioluti, era stato un vero terremoto senza che si potesse lasciarlo un istante
da solo, a scanso di guai e pericoli inimmaginabili.
Spesso mi era chiesta come mai il destino avesse voluto che i miei due figli meno prevedibili fossero entrambi andati a vivere nel lontanissimo West del continente nord-americano.
La utopistica domanda era rimasta sempre senza risposta però in quei momenti che vivevo anche io in California, in un certo senso vicina a loro, avevo avuto una intuizione che mi era parsa probabile.
Loro due in fondo così diversi si completavano da un punto di vista caratteriale e quindi era giusto che ciò fosse avvenuto.


Alcuni giorni più tardi Duilio Maria si era presentato a casa di sua sorella improvvisamente e come se ci fossimo visti da poco disse soltanto, a me ed a suo padre senza particolare calore né con frasi di circostanza usuali, nelle quali si potesse indovinare la sua grande emozione, che era felice che fossimo arrivati ma io conscendo fino in fondo il suo carattere, vidi nei suoi occhi a mandorla che lo facevano assomigliare ad un orientale una enorme gioia che mio figlio come al solito mascherava con il solito splendente sorriso di un grande furbacchione.
Si era portato con sé una splendida calforniana,biondissima e con gli occhi incredibilmente di colore blù che non spiccicava una sola parola di italiano e che anche Daniele, che pure conosceva molto bene l’inglese, riusciva a malapena a capirne l’idioma.
L’aveva presentata come una amica ma la sera quando andarono a dormire si erano ritirati in una delle numerose stanze da letto della villa.
Le giornate successive furono per me una vera vacanza tra la pancietta di Antonella che si preparava alle nozze con Alfred, un uomo giovane castano chiaro ed aitante che alternava gli studi di ricerca alla palestra e che portava con estrema disinvoltura i suoi trentacinque anni chiamandomi semplicemente mamma con un sorriso accattivante e Duilio Maria che in pratica non mi lasciava un solo istante e che si era messo in testa che io potessi imparare il surf, nuotatrice provetta come in realtà ero.
Aveva scelto assieme ad Antonella il suo abito da sposa, genere per cui ero diventata in Italia famosa, molto semplice, lungo appena sotto il ginocchio e fatto di un nuovo tipo di stoffa assolutamente da favola, che io stessa le avevo indicato di colore verde pastello e che tanto si addiceva agli occhi di mia figlia. Non molto attillato , metteva in risalto la sua figurina sottile ed elegante, non guastata dal ventre appena prominente per la gravidanza.
Tuttavia erano i particolari di quel vestito il punto di stile inconfondibile, come gli orli ricamati a mano da una sua giovane collaboratice,anche lei italo-americana che aveva imparato da ragazza quel difficile mestiere iniziando da una scuola di suore bianche,magistrali maestre del ricamo e come la scollatura che era una vera opera d’arte così originale da essere poi scopiazzata da tante altre case di moda.
Il tutto poi si alternava con gite turistiche a Santa Barbara,ad Holliwood, a San Diego e così via con l’enorme auto di mio figlio una Cadillac, piena di confort,con la quale volle portarmi pure a Las Vegas assieme alla sua biondissima fiamma che da perfetta americana esibiva con estrema disinvoltura le sue esuberanti forme ed il suo procace seno bellissimo.
In uno dei tanti alberghi-casinò mi riuscì pure di vincere, con mia grande meraviglia, un migliaio di dollari ad una slot piazzata nella hall dell’Hotel.
Mi ero chiesta pure cosa significasse per Duilio Maria quella donna ma non ebbi il coraggio di chiederglielo,rimandando ad altro momento quella mia curiosità.
Prendemmo pure un piccolo aereo da turismo che poteva portare una dozzina di persone per sorvolare il Grand Canyon e capii allora del perché fosse così famoso ed il motivo per cui ognuno che l’avesse visto non lo poteva dimenticare.
Lo spettacolo di una bellezza vertiginosa fù così imponente ed al tempo stesso così fuori dal mondo che pensai quale brutta fine avremmo fatto se quel piccolo aereo fosse improvvisamente precipitato tra quelle gole profonde.
Ma quella idea negativa durò l’attimo di un battere di ciglia perché Kim,quello era il nome dell’amica di mio figlio,con una sonora risata contagiò tutti i passeggeri che come una liberazione si misero a ridere anche loro tanto forte ed esplosivamente da fare scordare ad ognuno il pericolo che tutti avevano avvertito, specie quando il pilota si era improvvisamente abbassato di quota, facendo, come da cerimoniale, salire lo stomaco in bocca a tutti noi.
Non poteva mancare,il giorno dopo, una visita in un posto che piaceva a Duilio Maria, così senza niente ,così povero e davvero pieno di orrore da far riflettere chiunque sulla precarità della vita e su noi stessi turisti fortunati che non erano costretti a vivere in quel luogo,la Death Valley nel deserto.
Ancora una volta avevo apprezzato la sensibilità di mio figlio sotto quell’aspetto dissacrante che vestiva sempre, per apparire uomo duro e soprattutto indifferente alle vicende umane di chi a mala pena riusciva in America a sbarcare il lunario quando quel paese concedeva a tutti enormi possibilità di successo


Daniele ed io eravamo ridivenuti una coppia di sposi quasi perfetta e ciò per merirto in parte del clima che stavamo vivendo in California ma forse, ancora di più, di Antonella che con i suoi baci e carezze, distribuiti in eguale misura sia a me che al padre, ci aveva ammorbidito il carattere ormai indurito da anni di contrapposizioni che avevamo finalmente capito quanto fossero inutlmente dannose.
Mi sarebbe piaciuto pensare che il merito di questo miracolo fosse stato esclusivamente di Daniele ma in verità anchio avevo fatto la mia parte quando ebbi la sensazione che potevo essre un po’ più dolce con lui senza attacarlo così spesso
Antonella aveva voluto accompagnarci a San Francisco dove la sua Casa di Moda si era ultimamente ancora più ampliata con nuove iniziative a cui aveva contribuito in modo determinante Duilio Maria con una forte espansione in un nuovo business che, oltre a comprendere la moda degli adolescenti, si interessava anche di foulard e di cravatte settore quello che mancava praticamente del tutto in California.
Così avevo potuto ammirare la sua casa,un attico sulla cima di un grattacielo,con piscina per idromassaggi e giardino pensile,molto accogliente ma per me fonte di un certo timore a causa di una mia atavica paura dei grattacieli e dei terremoti in genere.
A nulla erano valse le parole della mia figliola sulla sicurezza degli ascensori e sui sitemi antisismici,criteri che comprendevo ma che non riuscivano a tranquillizzarmi affatto anche perché avevo letto del tremendo terremoto che aveva colpito la città radendola al suolo,in un tempo ormaì lontanissimo,ma anche delle previsioni non certo rassicuranti di moltissimi scienziati sulla faglia di Sant Andrea.
Però le visite che avevamo fatto sia della città, resa famosa anche da Hollywood con i suoi ponti e la baia incantevole, sia dei parchi naturali come quello affascinante di Yosemite, relativamente vicino ad est, mi avevano costretto a riappacificarmi con San Francisco.
Anche i ristoranti cinesi al porto erano qualcosa di inimmaginabile per i buoni piatti,tutti a base di pesce alimento base di mio marito e per il modo di essere cortesi da quella razza che aveva saputo leggittimamente prendersi una fetta non indifferente del commercio in California.
Daniele aveva approfittato di tutto quel tempo libero per recarsi,su invito di suo genero, a fare una conferenza alla facoltà di chirurgia sperimentale di Berkeley.
Da quando aveva,come promesso, portato all’altare sua figlia lui ed Alfred erano diventati inseparabili e si capiva benissimo quanto quest’ultimo ammirasse mio marito per le sue non discutibili qualità professionali conosciute bene, tramite le innumerevoli pubblicazioni scientifiche anche negli USA.
Mio marito aveva chesto un lungo periodo di aspettativa all’Università di Perugia e come mi aveva detto a Roma era anche sempre presente vicino a me, specialmente quando ne avevo più bisogno e così passavamo il tempo insieme,cosa che poco tempo addietro non avrei mai immaginato potesse accadere.


Arrivò così il tempo del parto di Antonella,dopo più di sei mesi passati in America.
I miei nipotini erano dunque americani di fatto e di legge e questo mi aveva leggermente resa scontenta perché avrei certamente preferito che fossero italiani.
La felicità che mi aveva regalato Antonella non poteva essere stata più grande anche perché aveva partorito un maschio ed una femmina,due pulcini l’uno più bello dell’altro se pure i neonati sono tutti splendide creature.
Avrei dovuto attendere diversi anni per vederli cresciuti e di questo cruccio ne parlai con Daniele che mi lasciò libera di scegliere se avessi voluto rimanere in America ancora per tutto il tempo che avessi ritenuto giusto oppure se avessi preferito tornare in Italia con lui.al più presto.
A questo dilemma non fui in grado di rispondere subito e gli risposi soltanto che ci avrei pensato ancora per un mesetto.






CAPITOLO OTTAVO.





Così avevo deciso.Sarei rimasta ancora vicina ad Antonella ed ai mie nipotini per un altro mese almeno ed avrei coccolato sia Elisabeth che Bruce come si conveniva ad una nonnina con tutto l’amore che mi riempiva il cuore ed avrei ricevuto tanto affetto, da mia figlia e da mio genero, del quale avevo assoluto bisogno.
Comunicai a Gianluca ed a Dario Maria quanto avessi a lungo meditato sul daffarsi ed ottenni anche la loro approvazione.
Dissi anche che Antonella era rimasta dispiaciuta della loro mancanza al matrimonio oppure,se il loro tempo libero fosse stato troppo breve per recarsi in America per troppi giorni, al battesimo dei due nipotini.
Sia Dario Maria che Gianluca si erano immediatamente scusati con la sorella ma avevano entrambi promesso che non sarebbe mancata l’occasione per stare tutti assieme,come una volta, quando avrebbero risolto i loro problemi di lavoro giunti ad una fase ìmportante e decisiva per la loro carriera.
Avevo anche aggiunto che con Daniele le cose si erano sufficientemente sistemate e che con il loro papà non vi sarebbero stati screzi, mai più, almeno da parte mia.
Come donna però sentivo che stavo mentendo ai miei figli perché, in fondo all’anima, sentivo ancora un profondo astio nei suoi riguardi.
Si era comportato bene negli ultimi tempi e ciò dimostrava che aveva ceduto su molti punti del suo caratteraccio, ma il rancore che mi portavo appresso da tanto tempo non ero riucita a cancellarlo del tutto per quanto avessi tentato,con tutte le mie forze, di farlo.
Probabilmente era vero il proverbio che diceva “Moglie e Buoi dei paesi tuoi”, ma io non avevo mai creduto ai proverbi.
Daniele veniva da una famiglia meridionale anche se aveva sempre vissuto al centro-nord e quindi si era portato appresso, come le impronte digitali, tutti i cromosomi dei suoi ascendenti.
Tra questi alcuni erano fortemente positivi, quali l’ambizione , l’orgoglio, la perseveranza, lo stimolo ad ottenere con enormi sacrifici personali quanto la vita potesse concedergli come posizione sociale.
Ma una infinità di altri erano altrettanto negativi ed il frutto di un modo di vedere la vita troppo seriamente, senza una risata che fosse una,senza il minimo desiderio di divertirsi specie con sua moglie che rispettava ed adorava ma che considerava,alla stregua di tutte le donne, essere leggermente inferiore il che evidenziava in lui quel misoginismo del quale era impregnato ma che non si accorgeva di possedere.
Una sola cosa vedeva chiaramente e cioè quanti sacrifici costava a tutte le donne la maternità ed il crescere i figli con amore ed abnegazione totale, il che rappresentava per Daniele il massimo pregio dell’umanità,quasi paragonabile a qualcosa di divino.


Piacevolmente erano passati i giorni della mia permanenza in California che avevano dato al mio spirito nuova linfa vitale.
Tutta o quasi la mia attenzione si era rivolta a quei due esserini che Antonella aveva messo al mondo quasi per farmi il regalo più gradito che potessi desiderare.
Ero stata anche molto corteggiata da alcuni maturi amici di mio genero che mi avevano colmata di mazzi di fiori e di gentili pensieri tanto che la mia vanità di donna, ancora bella e di classe, era stata in parte solleticata e rivalutata senza tuttavia che da quei corteggiamenti potesse nascere nulla di più che una cara amicizia, gradevole per una come me assolutamente restia alle avances degli uomini, in ogni età predatori di donne sole ed affascinanti come mi dicevano che io fossi.
Mi ero dedicata dalla gioventù all’alta moda e conoscevo bene, per le confidenze delle mie clienti e per le esperienze che io stessa avevo avuto, quali estremi tentativi usasse l’altro sesso per ottenere ciò che di più a loro interessasse,cioè la soddisfazione del personale erotismo che per costoro valeva più di ogni altra cosa.
Su questo argomento, restia alla nausea di erotismo, con me erano capitati malissimo se pure l’avessero desiderato mentre accettavo con piacere il corteggiamento che mi faceva sentire ancora giovane.
Ma altri erano i veri problemi che anche lì lontana dalla mia casa covavo,anche senza che questi potessero modificare lo stato di grazia in cui mi trovavo.
Erano i pensieri che mi assillavano quando pensavo a Daniele e tra questi uno premeva quotidianamente.Quale sarebbe stato il suo atteggiamento una volta che fossi tornata a Roma, quello passato oppure quello recente dei giorni passati insieme in America?
In realtà ci eravamo sentiti quotidianamente al telefono e quelle telefonate erano state veramente carine.
Aveva usato, nel parlarmi, termini non usuali per lui restio a sdolcinature verbali come “Amore mio” oppure “Angelo della mia vita” tanto che mi ero commossa da avere gli occhi umidi di pianto.
Una sola idea aveva comunque fatto capolino nel mio cervello di donna troppe volte disillusa da realtà diverse che, simili a sogni, non si erano poi realizzate. E se poi tutte le belle speranze che stavano facendo capolino non fossero altro che creature della mia fantasia?
Non avevo più voluto affliggermi con quelle elaborazioni mentali e per quelli ultimi giorni di mia permanenza non volli pensare ad altro che ad Antonella, a Bruce ed ad Elisabeth.


Quando Daniele mi comunicò che era suo desiderio venire a prendermi perché cosi avrei fatto il viaggio di ritorno assieme a lui mi sembrò di toccare il cielo con un dito ma contemporaneamente fui assalita da uno stato ansioso incomprensibile.
Il giorno dopo i media interruppero i programmi per annunciare un disastro aereo causato da una collisione nei cieli del Tirreno.
Tra i dispersi nelle acque di quel mare che tanto avevo amato c’era Daniele, mio marito.

DIARIO DI UNA ROMAGNOLA DOC





SECONDA PARTE





CAPITOLO PRIMO





Elisabeth era cresciuta in America fino a cinque anni, quando mia figlia Antonella mi disse in un suo viaggio a Roma con i suoi gemelli.
- Mamma, se per te va bene, mi piacerebbe lasciarti Elisabeth. So di chiederti un grosso sacrificio per la responsabilità che ti assumeresti, ma io penso che nessuna altra persona al mondo potrebbe essere più adatta di te nel farla crescere educata e piena di buoni principi. -
Si fermò per un momento, poi aggiunse.
- Te la vorrei lasciare per un lunghissimo periodo, forse finchè non sarà grande e matura per camminare con le sue gambe. Questo fatto poi sarebbe la molla per venirvi a trovare molto spesso e così io ti sarò molto più vicina che adesso. Se tu sapessi come crescono male i bambini in California, i pericoli sono nascosti ovunque ed io posso garantire la mia attenzione soltanto a Bruce che come maschio è meno vulnerabile, più svelto e furbo della sorellina.-
Guardai mia figlia bella come una stella del mattino all’alba.
Era davvero molto preoccupata mentre Elisabeth non si voleva più distaccarsi dalle mie gonne.
Presi la bambina in braccio e baciandola chiesi.
- Elisabeth vuoi rimanere dalla nonna? Devi però promettermi che non farai molti capricci e che non piangerai troppo spesso. -
La piccola capiva perfettamente l’italiano e l’inglese ed Antonella era stata davvero brava nell’ insegnarle la lingua materna.
- Sì nonnina, sarò la più brava bambina del mondo e vedrai che staremo molto bene insieme. Alla mamma parlerò al telefono e verrà almeno una volta al mese qui a Roma vicina a noi due -
Non potei fare a meno di giudicare la mia nipotina una bambina eccezionale e molto giudiziosa e sua madre una figlia affettuosa, impareggiabile sia per il buon senso che stava dimostrando ma anche per l’attaccamento che mi stava manifestando.
Lei sapeva che non ero sola e che vivevo in quella villetta, quasi sempre, in compagnia del piccolo Raffaele, il figlio di Gianluca e di Martina, di soli due anni e che non avevo il tempo di annoiarmi per badare a lui, quando i suoi genitori andavano a lavorare entrambi.


Erano ormai quattro anni e mezzo che ero rimasta vedova del mio Daniele.
Quell’incidente aereo, che me lo aveva portato via quando lo stavo aspettando a San Francisco per tornare insieme in Italia, era capitato proprio nel momento che avevo creduto potesse cambiare la mia vita.
Il suo ricordo si era mantenuto però vivo e caro nel mio cuore, e quella metamorfosi era avvenuta miracolosamente in America, a casa di mia figlia.
Daniele era ritornato ad essere, negli ultimi tempi, l’uomo che aveva amato e sposato, dolce e premuroso nei miei riguardi come non avrei potuto pretendere di più ed avevo immaginato la mia esistenza piena di affettuosità, di tenerezza e finalmente di quell’amore che mi si era assopito e seccato dentro come un bel fiore messo tra le pagine di un libro della mia gioventù.
Avevo cercato, dopo la sua morte, di rifarmi una vita in America vicina ai miei figli Antonella e Duilio Maria ed ai miei due nipotini ma non vi ero riuscita.
Anzi, era subentrata nel mio cuore una grande tristezza che non poteva essere lenita né dai gemelli né da nessun altro uomo che Antonella aveva insistito di presentarmi.
Troppa era la differenza nel modo di vivere degli americani rispetto al mio e troppa era la nostalgia che mi possedeva della terra dove ero nata e della città dove ero vissuta.
Una mano me la aveva data il più giovane dei miei figli, Gianluca che era riuscito a farsi trasferire da Londra a Roma cogliendo al volo una grande occasione riguardante la sua professione.
L’avevano destinato alla Direzione Finanziaria Romana di una prestigiosa Banca di Affari e di Investimenti legata alla multinazionale da cui dipendeva.
Sapevo, come mamma, che lo aveva fatto per me ma anche per sposarsi con la sua innamoratissima e gelosissima Martina.
Era venuto ad abitare vicino alla mia villa all’Olgiata in una più modesta villetta a duecento metri dalla mia.
Avevo insistito per farli vivere assieme a me ma non avevano accettato. Mi aveva detto.
- Mamma, sei troppo giovane ancora per obbligarti a sacrificarti per noi ed il tuo privato deve essere libero da qualsiasi ostacolo. Devi riprendere la forza per vivere felice e non devi privarti della tua libertà ed in particolare per colpa nostra. -
Io e Martina ti saremo sempre vicini e potrai contare su noi per qualunque bisogno. In pratica vivremo gli uni vicini all’altra. -
Era il solito Gianluca sempre affettuoso e razionale, il mio tesoro di figlio che parlava in ogni caso con saggezza.
Infatti alla nascita del loro Raffaele fui io che in pratica mi trasferii a casa loro per un paio di anni, malgrado mio figlio avesse assunto a tempo pieno una baby-sitter con un chilometro di referenze.
Martina non aveva voluto attendere oltre e poco tempo dopo il suo matrimonio con mio figlio era rimasta incinta.
Le fui molto vicina durante la gravidanza ed i nostri rapporti si strinsero ancora più strettamente rispetto al periodo che lei era stata la fidanzata di mio figlio di stanza a Londra.
Non aveva voluto lasciare il suo lavoro, che negli ultimi due mesi di gravidanza ed io l’accompagnavo ogni volta che si recava dal suo ginecologo per farle sentire che la consideravo come una figlia acquisita e molto gradita, anche se la sua mamma non era da meno accontentandola in ogni desiderio che le poteva venire e non facendola affaticare per nulla a casa.
Raffaele già carino alla nascita era diventato, crescendo, uno splendido bimbo più alto dei coetanei di almeno tre centimetri, robusto e di carnagione ed occhi, scuri come quelli della madre.
Me ne ero innamorata e non lo nascondevo a nessuno tanto che, con la scusa che la nonna materna abitava molto lontano dall’Olgiata, avevo chiesto a Martina ed a Gianluca di permettermi di tenerlo durante il giorno appena compiuti i due anni a casa mia pur con la presenza della sua baby-sitter.
Sia Martina che mio figlio furono felici per la mia proposta e così nello spazio di pochi anni la mia villetta fu piena di grida dei miei due nipotini, Raffaele ed Elisabeth e talvolta di pianti di bambini.


Non avrei mai creduto che due cugini, sebbene belli come angeli quando dormivano, potessero essere così tremendi nei loro giochi infantili.
Raffaele oltre che tanti baci, dava ridendo certi spintoni ad Elisabeth veramente tremendi, accompagnati da calci e pugni in abbondanza.
Io cercavo di essere sempre presente per fare pesare la mia autorità di nonna ma non sempre riuscivo a contenere l’esuberanza del figlio di Gianluca.
Facevo di tutto perché si comportassero da persone civili ed in effetti lentamente ero riuscita ad addomesticare in particolare Raffaele che dopo qualche mese, avendo stabilito che chi comandava era lui, era diventato molto meno aggressivo dei primi tempi.
Contemporaneamente tutti e due volevano che li tenessi in braccio e con tutto ciò che la baby-sitter li strillasse entrambi in inglese, cosa molto utile per Raffaele che così cominciava ad imparare una lingua straniera velocemente come avviene con tutti i bambini, io stavo cominciando a spazientirmi con tutti e due perché, a furia di tenerli in braccio, avvertivo dolenze anzi veri i dolori alle braccia. alle spalle ed alle mani di cui non avevo mai sofferto.
La gioia che i bambini mi davano tenendoli tutto il giorno con me era però superiore ai miei malanni e così non ne feci cenno a nessuno.
D’altro canto ero stata io che li avevo voluti ma non avrei mai immaginato a che prezzo!
Gianluca e Martina poi mi riempivano di regali, di bellissime piante che mettevo nel terreno del giardino e di baci che mi ripagavano di tutto.
A modo mio mi sentivo felice di quella vita ma ugualmente sentivo quanto mi mancasse un uomo che si prendesse cura di me.
Spesso pensavo cosa avrei fatto man mano che gli anni fossero passati.
Avevo superato brillantemente il periodo più duro e lungo della menopausa senza ricorrere ad alcuna medicina ed usando soltanto la camomilla come tranquillante ed in quel periodo, con i bambini chiassosi che mi davano impegni ed allegria, mi sentivo pronta a fare qualcosa esclusivamente per me stessa.






CAPITOLO SECONDO





Quando iniziò l’anno scolastico, ad ottobre, dopo essermi messa d’accordo con Antonella che a settembre era venuta a Roma per restare quindici giorni con Elisabeth e con me, decisi di fare frequentare a mia nipote, la prima elementare, in una scuola italiana privata, di suore.
Era una bella scuola con un grosso parco a cinque chilometri dalla mia casa dove non solo si insegnavano i primi rudimenti della nostra lingua ma anche c’erano lezioni di inglese con insegnanti di madre lingua oltre che le fondamentali nozioni di aritmetica e di informatica.
Mi ero meravigliata che le suore avessero organizzato così bene il loro Istituto scolastico e che prendevano in prima, bambini di cinque anni maschi e femmine, con molte attività sportive legate al corso fondamentale.
Ma c’era di più. Per le bambine esistevano corsi separati di danza, con selezionati insegnanti professionisti sia per la danza classica che moderna.
Elisabeth ne era entusiasta ed al mattino si svegliava da sola per aspettare il pulmino della scuola che l’avrebbe portata dalle suore alle otto e mezza e riportata a casa alle diciotto e trenta.
Mi diceva felice che andare a scuola era la più bella cosa del mondo e che stare a Roma con me era una meraviglia.
Alcune volte, parlando alla sera di ballo, si infervorava ed era sicura che sarebbe diventata una grande ballerina, non sapeva ancora se di danza moderna o classica.
Io non potevo fare a meno di sorridere all’idea che forse avrei avuto tra i miei discendenti una Star del ballo e poi parlandone con Donatella al telefono avevo saputo che quello era veramente il chiodo fisso di Elisabeth già dall’America.
Martina, con l’avvicinarsi dell’inverno e con le giornate più corte, mi aveva informato che lei e Gianluca avevano pensato che, per la durata della cattiva stagione, sarebbe stato meglio per tutti che Raffaele fosse rimasto nella loro casa con la baby-sitter tutto il giorno in modo da permettermi, ora che Elisabeth era occupata ed impegnatissima a scuola, di recarmi al centro di Roma per le mie faccende personali.
Pur a malincuore accettai di distaccarmi per un po’ da mio nipote dal momento che lo avrei potuto facilmente vedere alla sera assieme ad Elisabeth.


Ero ritornata ad essere parzialmente libera, almeno per nove ore al giorno, di pianificarmi la giornata come meglio mi fosse piaciuto e non tardai molto ad approfittarne.
Per prima cosa volli ritornare a controllare la mia Casa di Moda e le due boutique a lei collegate.
Era tantissimo tempo che non mi interessavo più di quel sogno, divenuto realtà, della mia gioventù e pur essendo tranquilla per l’andamento degli affari, volevo vedere con i miei occhi cosa di nuovo i miei collaboratori avessero partorito di speciale nel campo della moda.
Quando mi videro nuovamente tra loro fui accolta con un entusiasmo da stadio.
Tutti mi abbracciarono, baciarono e sorrisero calorosamente e dovetti ricredermi sui vecchi amici ed amiche che avevo quasi dimenticato, non immaginando che si sarebbero più interessati della mia persona.
Al contrario mi chiesero in tanti se fossi ritornata per prendere di nuovo in mano le redine della Società ed al mio diniego rimasero molto male e vidi alcuni addirittura sconvolti.
Spiegai loro che sarei venuta spesso a trovarli ma che l’organizzazione avrebbe dovuta mantenersi immutata come stava in quel momento.
Tra gli altri. il mio ormai vecchio maestro era scoppiato a piangere quando gli raccontai della mia vita condita di qualche piccola gioia e di momenti di grande tristezza e di quanto stavo facendo per superare quel momento.
Diedi appuntamento a tanti miei collaboratori del passato, per l’indomani, in un ristorante vicino a Piazza Navona per un pranzo che sarebbe stato un caro “ben ritrovati”.
Avevo ottenuto questo regalo inaspettato da veri amici e conseguentemente pensai che non bisognava andare lontani, in giro per il mondo come avevo fatto in quelli ultimi anni, per ritrovare la voglia di vivere e di sentire nell’anima qualcosa di importante e di essenziale per la propria esistenza.
Capii inoltre che anche i miei figli sparsi per il mondo, ad eccezione di Gianluca, non potevano darmi un motivo indispensabile per la mia esistenza e per farmi dire alla fine dei miei giorni che non avevo vissuto invano.
Soltanto i miei nipotini mi riempivano di pura gioia le giornate, ma anche loro non avrebbero potuto mai riempirmi il cuore come degli adulti, più o meno della mia età.
Quando tornai a casa Gianluca mi chiese.
- Mamma, cosa ti è successo oggi? Sei radiosa e bellissima come da tanto tempo non ricordavo. Ti voglio tanto bene e vederti così mi riempie di gioia. Dovrai continuare a mantenerti in questo modo per tutta la vita ed allora sarò soddisfatto. -
Avevo bisogno di sentirmi parlare così da tanto tempo ed era stato proprio il mio più giovane figlio che mi aveva dato quello che credevo essere una frase che mai più avrei sentito.


Da quel momento cominciai a prendermi più cura della mia persona.
Cominciai a frequentare una Beautiful House nella quale potevo oltre al nuoto, fare idromassaggi e palestra, corsi di rilassamento muscolare e fango terapia, estetica del viso e del corpo assieme a ginnastica attrezzistica adatta alla mia età.
Mi azzardai anche a fare “bagni turchi” ed a cambiare il colore dei miei capelli e tipo di pettinatura.
Dopo un paio di mesi non mi riconoscevo più tanto ero dimagrita e tonificata nel corpo e tanto il mio viso si era ringiovanito.
Non esisteva un motivo preciso per cui mi stavo comportando così ma lo avevo fatto per me stessa e per avere una migliore autostima della mia persona.
Non credevo che quella metamorfosi sarebbe stata apprezzata anche da Martina che era una ragazza tanto semplice da rasentare la semplicità estrema, senza fronzoli e pure molto bella, ma fu esattamente così.
Tanto Martina apprezzò quanto avevo fatto che mi disse di darle l’indirizzo della Beautiful House che avevo scoperta da sola.
E così anche Martina cominciò ad andare di sabato in quel posto con grande meraviglia di Gianluca.
Regalai a Martina uno splendido abito da sera di seta, di colore amaranto preso in una mia boutique e le dissi che quello lo avrebbe potuto indossare in qualche serata importante per esempio a qualche concerto di musica classica che sapevo piaceva sia a lei che a Gianluca.
Non mancò l’occasione di esibirlo facendole fare una splendida figura e la prima volta che lo portò fu ad un concerto sinfonico in onore di Beethoven e di Dworak, nel quale vennero eseguite la sinfonia Eroica e la Nona del primo oltre che la Quinta sinfonia Dal Nuovo Mondo del secondo grande autore boemo.
Anche io non mi feci mancare il godimento di quella serata e fui una delle numerose persone VIP di quello straordinario concerto diretto dal più grande Maestro italiano, Muti.
Nell’intervallo la gente che mi conosceva fece ressa attorno a me ed a quelle persone presentai, non senza orgoglio, sia mio figlio che mia nuora.
Nei giorni successivi ebbi la bella idea di portare pure Elisabeth a teatro per farle sentire e vedere le danze del Bolero di Maurice Ravel.
Non credo che mia nipote potrà mai dimenticare né quella musica né quel ballo, ricordandosi contemporaneamente della sua nonna italiana e di Roma.
Elisabeth per giorni e giorni non fece altro che dirmi che mi amava tanto per averla iscritta alla scuola di ballo dalle suore e che lo avrebbe detto a Donatella, che la sua nonna era una persona molto speciale.






CAPITOLO TERZO





Lentamente e capricciosamente era tornata la primavera.
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile tutti i prati attorno all’Olgiata si erano dipinti di verde punteggiato da milioni di bianche margherite.
L’aria cominciava ad odorare di sole ed era frizzante, soprattutto verso sera, quando un lieve ponentino era solito soffiare dal mare ed arrivava fino a casa mia tra i pini mediterranei e gli alti platani e faggi che la circondavano.
Le giornate si erano molto allungate da quando era entrata in vigore l’ora legale ed il tramonto, verso le sette e mezza, colorava le bianche nuvole verso il mare, di colori gialli e rossastri diversi ogni sera.
Elisabeth come ogni pomeriggio era tornata da scuola puntuale, un’ora prima e si era messa a dondolare, felice ed allegra, sopra l’altalena che avevo fatto mettere nel giardino della villa.
Raffaele era stato portato nella villetta di Gianluca da Martina poco prima e mia nipote era rimasta sola per qualche minuto mentre io stavo parlando con la mia colf dando ordini perpreparare la tavola.
Alle sette e trenta precise pensai che fosse ora per la piccola di tornare in casa e velocemente mi affacciai alla porta principale della villa per chiamarla a cena.
Non sentii rispondermi e dopo aver pensato che quella birbante avesse fatto finta di non sentirmi, uscii nel giardino per prenderla per le orecchie e rimproverarla.
Elisabeth era scomparsa, volatilizzata e tutte le ricerche fatte da me e dalla mia colf furono inutili malgrado le mie urla ed i miei
pianti e singhiozzi.
Nemmeno con l’aiuto di Martina e Gianluca, che era appena rientrato dal lavoro, potemmo capire che fine avesse fatto mia nipote mentre Martina si ricordava perfettamente di avere chiuso il cancello di ingresso del giardino quando era venuta a prendersi il piccolo Raffaele.
Era logico che Elisabeth non poteva essere uscita dal giardino e che quindi le nostre ricerche dovevano concentrarsi lì o dentro la casa che era rimasta con l’uscio aperto, quando mi ero allontanata per pochi minuti dovendo parlare con la mia cameriera.
La disperazione si era ormai impadronita di me ed una grande ansia trasformatasi in una incontrollabile angoscia mi stava annientando quando Gianluca finalmente la trovò nella grande cantina in un angolo a piangere sommessamente.
Elisabeth era tutta sporca di terra con il vestitino bianco lacerato ma cosciente.
Quando Gianluca la prese in braccio portandola di sopra, in un evidente stato di shock, non parlava aggrappandosi a me ed a Martina.
Soltanto dopo un paio di ore mentre noi tutti le stavamo intorno accarezzandola e lavandola con dell’acqua e sapone di una tinozza riuscì ad aprire bocca.
Elisabeth, con gli occhi pieni di pianto, ci raccontò di aver visto entrare nel giardino un uomo grosso e brutto che aveva da prima scavalcato il muro di cinta e poi l’aveva presa in braccio per potarla via, tappandole la bocca.
Lei si era divincolata e gli aveva dato un morso sul collo tanto da fargli perdere la presa e poi come uno scoiattolo si era introdotta in casa, nascondendosi in un cantuccio della cantina tra gli arnesi del giardiniere e tra vecchie cianfrusaglie.
Non aveva visto più l’uomo cattivo ed era rimasta in silenzio con il cuoricino che le batteva a mille nel petto.
Elisabeth non era certo il tipo di raccontare favole di quella portata e tutti concludemmo che sicuramente aveva detto il vero, così fummo tutti d’accordo di comunicare il fatto alla Squadra Mobile della Polizia, pregandoli di fare venire anche un medico.


Medico e Polizia, dopo una attenta visita il primo e dopo accurate indagini e sopraluoghi la seconda, ci tranquillizzarono.
Elisabeth non aveva subito alcun danno da quel brutto episodio solo molta paura.
Gli uomini della Squadra Mobile avevano capito immediatamente chi fosse colui che era penetrato nel giardino, un barbone che già precedentemente aveva eseguito finti rapimenti di bambini, per estorcere qualche soldo in quella zona residenziale e che, per lo stesso motivo, era stato già condannato con suo sommo piacere ad alcuni anni di galera.
Era stato lui, ogni volta, colui che aveva riportato al distretto di Polizia di zona i bambini, affermando di volere essere giudicato e condannato per un periodo più lungo possibile, in modo che potesse avere un tetto e dei pasti caldi a spese dello Stato.
Il tribunale lo considerava un povero disgraziato ed era stato sempre molto indulgente con lui, condannandolo diverse volte a periodi di detenzione non eccessivamente lunghi.
Questo barbone era stato in passato un uomo molto conosciuto negli ambienti scientifici.
Un chimico, docente all’Università La Sapienza di Roma, molto geniale che aveva speso tutto il denaro in suo possesso nel tentare di scoprire una combinazione chimica, dal costo bassissimo, ma adatta come carburante per autoveicoli.
Il fallimento della ricerca, non sovvenzionata da nessuna Autorità oppure Istituzione, lo aveva gettato sul lastrico.
Il poveruomo venne arrestato immediatamente e senza battere ciglia confessò tutto quello che aveva fatto, dimostrandosi assai dispiaciuto dello spavento che aveva provocato alla piccola Elisabeth e si informò, con evidente ansia, sulle condizioni della bambina e quando seppe che in quel momento stava bene tirò un sospiro di sollievo.
L’ex professore universitario venne condannato a due anni di reclusione e si dimostrò compiaciuto per avere risolto, per il periodo della condanna, il problema di un letto ed anche quello di mettere d’accordo il pranzo con la cena.
Tutto questo venne riferito ad Antonella che, impietositasi, non aveva voluto che si ricorresse in appello.
Era stato Gianluca quello che aveva informato la sorella, dal momento che io mi trovavo in uno stato di agitazione colossale essendomi assunta la colpa di quanto successo, completamente.
Donatella disse a Gianluca che non avevo avuto nessuna responsabilità e che comunque sarebbe volata a Roma per il fine settimana per starmi vicina e per consolare un poco Elisabeth.


Quando arrivò Antonella andammo a riceverla tutti all’aeroporto e la mia bella figlia arrivò anche con il gemello di Elisabeth, Bruce.
La prima cosa che fece fu di stringersi al petto Elisabeth e poi me, accarezzandomi i capelli e baciandomi teneramente.
Sia Gianluca che Martina fecero cerchio intorno a noi ed il piccolo Raffaele si infilò in mezzo a tutti, urlando a squarciagola il nome di Antonella e di Bruce.
C’era tutta la mia famiglia meno Dario Maria che si trovava a Maranello impegnato con il nuovo modello della Ferrari e Duilio Maria che era rimasto a San Francisco per mettere in ordine la contabilità e l’organico della Società sua e della sorella.
Mi aveva telefonato il giorno prima e si era informato di come stavo in salute promettendomi che sarebbe venuto al più presto a trovarmi, cosa che fece quasi subito.
Mi aveva chiesto il numero del cellulare del fratello maggiore e quando gli dissi che Dario Maria era stato assunto alla scuderia Ferrari non resistette nemmeno un attimo esclamando che avrebbe comprato una di quelle macchine appena fosse giunto in Italia e che poi l’avrebbe portata in California a fare crepare di invidia tutti i suoi amici.
Insieme passammo non solo il fine settimana ma pure tutta la settimana seguente.
Era un vero piacere chiacchierare del più o del meno mentre le giornate continuavano ad allungarsi sempre di più ed il sole ritardava minuto dopo minuto la sua scomparsa dal cielo.
Antonella mi disse che Roma era la città più meravigliosa del mondo e che era un vero peccato lasciarla anche se San Francisco, in certe giornate, non le era da meno.
Mi chiese anche, facendomi arrossire, se avessi trovato un uomo che potesse piacermi e che non ci sarebbe stato niente di male se io lo avessi avuto dal momento che per lei ero, non solo ancora molto giovane, ma particolarmente carina e piacevole con quel nuovo taglio di capelli e con un corpo ancora sodo e flessuoso.
Aveva pure detto che si vedeva lontano un miglio che frequentavo una palestra ed una piscina tanto che riteneva spiacevole per lei il confronto con il mio fisico.
Non aveva tempo in America per fare quanto facevo io, tanto più anziana di lei, dedicandomi con pazienza e volontà a tentare di rimanere giovanile e non abbruttendomi in crisi esistenziali.
Io sapevo quanto Antonella mi avesse sempre ammirata ma non potevo immaginare che addirittura in un certo senso mi invidiasse.
In realtà parecchie volte ero stata sul punto di cedere alla corte di qualche ammiratore ma sempre avevo fatto un passo indietro, pensando ai miei quattro figli ed alla situazione imbarazzante in cui li avrei potuti mettere e non soltanto a loro ma anche ai miei nipoti, che avrebbero visto la propria nonna sotto un profilo molto diverso.
Non avevo però fatto i conti con i casi della vita sempre superiori ad ogni possibile immaginazione.







CAPITOLO QUARTO





Avevo ripreso la mia solita vita dopo la partenza dei miei figli e di mio nipote Bruce per gli Stati Uniti.
Diedi un particolare abbraccio ad Alessia ed a Dario Maria che, arrivati a Roma da Maranello per riabbracciare me, Duilio Maria e tutti gli altri e per portare al mio terzogenito la Ferrari richiesta, una stupenda sportiva rossa che faceva girare la testa a chiunque la vedesse, avevano ripreso la strada verso la scuderia della grande marca italiana.
Dario Maria mi era parso particolarmente felice per il suo trasferimento in Italia anche se mi era sembrato un po’ in rotta con Alessia che lo aveva accompagnato a Roma con una sfumatura di broncio, essendosi presa un periodo di congedo dal suo lavoro ma non avendo ancora deciso se abbandonare il Belgio o meno.
Duilio Maria le aveva offerto un posto dirigenziale a Milano dove aveva creato una succursale della S.P.A della casa di moda di Donatella.
Tra Modena e Milano la distanza non era eccessiva e così avrebbero, lei e Dario Maria, potuto prendere un bel appartamento o a Modena o a Milano e passare insieme ogni weekend.
Mi era parso che Alessia non fosse molto entusiasta di quella proposta tanto che gli rispose che ci avrebbe pensato e tra qualche mese.gli avrebbe dato una risposta.
Non volli entrare nel merito e lasciai correre anche se mi era venuta una voglia matta di chiedere a mio figlio come andava il suo matrimonio.
Duilio Maria. aveva provveduto a fare trasportare per via aerea a Los Angeles, con un cargo della Continental, la sua smagliante auto sportiva che poi avrebbe portata a San Francisco.
Elisabeth, dopo aver fatto visitare la scuola dove era diventata la prediletta della Madre Superiora e della Direttrice della sezione di danza nella quale era considerata la più idonea e capace, aveva ripreso anche lei il solito tran- tran impegnata come al solito dalla mattina al pomeriggio inoltrato.
Avevamo molto discusso con Antonella se fosse stato il caso che lei la riportasse in America dopo quanto le era successo nel giardino della mia villetta.
Antonella fu irremovibile.
Mi disse che si sarebbe profondamente offesa se le avessi riconsegnata Elisabeth perchè ciò avrebbe significato che lei, mia figlia, non aveva più fiducia nella sua mamma.
Non aggiunsi nessuna ulteriore parola ed Elisabeth rimase con me permettendomi quindi di avere quasi tutta la giornata libera, come era successo nel periodo precedente al brutto episodio di cui era stata protagonista.


Verso la fine di giugno il caldo, a Roma, era divenuto di giorno assolutamente insopportabile. La temperatura era fissa sui trentasette gradi centigradi, ma quello che era atroce, era l’umidità dell’aria che non ti permetteva nemmeno di respirare.
Erano già sette giorni che l’igrometro della mia villa segnava senza pietà l’ottanta per cento di umidità.
Avevo fatto installare l’anno prima un impianto di climatizzazione in casa, ma fuori era un disastro completo.
Io ed Elisabeth dalle nove di mattina alle dieci di sera non ci muovevamo da casa e quindi approfittavamo delle primissime ore della giornata per uscire e fare un giretto, spesso in macchina, avendo sempre come meta il Pincio o Monte Mario con il suo osservatorio astronomico.
Avevo prenotato per me e per Elisabeth un albergo per il dieci luglio al mare.
Preferivo andare con mia nipote in un posto dove avrei potuto nuotare ed insegnare ad Elisabeth, con l’aiuto di un istruttore ad arrangiarsi con l’acqua, cosa per me di estrema importanza dal momento che ancora ero rimasta una provetta nuotatrice.
Saremmo rimasti per un mese in un Hotel di Monte Silvano a Pescara provvisto di una bella e grande piscina e di una spiaggia privata molto curata da un bagnino favolosamente gentile, di nome Tonino.
Poi ci saremmo spostati in montagna sulle Dolomiti, per altre quattro settimane, ad Auronzo, con il suo bellissimo lago e con tutte le montagne che gli fanno da cornice, piene di abeti verdissimi e di prati profumati, mentre più in alto avremmo potuto ammirare le spigolose rocce, dei colossi delle Dolomiti, dai colori spendenti alla luce del sole.
Avevo proposto a Gianluca ed a Martina di venire con noi almeno al mare con quel birbante di Raffaele.
Gianluca mi aveva detto, con tanta gentilezza e con il cuore in mano, che volevano restare soli con il bambino in quel mese di ferie che si erano presi dopo un anno di intenso lavoro.
Avevo capito che era giusto così, sapendo quanto sia mio figlio che sua moglie fossero stanchi e stressati.


Dalla finestra dell’Albergo a quattro stelle di Monte Silvano di fronte al mare, vidi il mare maestosamente esteso fino all’orizzonte calmo ed azzurro verde, una piatta distesa di acqua punteggiata da barche a vela al largo, con qualche motoscafo tra loro e le scie di schiuma bianca disegnare linee curve e dritte intersecarsi tra gli scafi.
Erano solo le sette e trenta e svegliai Elisabeth, euforica per la vista dell’Adriatico e per quella brezza leggera che proveniva dal largo.
Le dissi che saremmo andati a fare colazione e poi che l’avrei affidata al maestro di nuoto della piscina.
Avrei approfittato di quella libertà per farmi una bella nuotata al largo e scegliendo il costume, presi un due pezzi arancione molto elegante e stilizzato con un pantaloncino molto aderente e corto, tale da mettere in evidenza sia le mie gambe che il provocante fondo schiena che era stato sempre il mio pezzo forte.
Volevo essere ammirata da tutti più per me stessa che per essere seducente ancora, con l’età che si avvicinava rapidamente ai sessanta anni.
Sapevo di essere ancora una bella donna e che nessuno mi avrebbe dato più di cinquanta anni e nella mia autostima volevo mettermi alla prova.
Dopo aver fatto una colazione a base di succo di arance, di pane tostato e di confetture di marmellate, mentre Elisabeth aveva preso una tazza di cioccolata con dolcetti, andammo sulla spiaggia e mi presentai al bagnino Tonino, un uomo sposato con due figli un maschio più grande, Fabio di dieci anni ed una figlia della stessa età di Elisabeth, di nome Sara.
Fui molto gentile e generosa con Tonino elargendogli un ottima mancia e mi raccomandai con lui di dare ogni tanto uno sguardo a mia nipote quando mi fossi assentata per farmi il bagno.
Quello mi sistemò due lettini ed un ombrellone vicini al bagno asciuga dove mi presentò alcuni clienti educatissimi qualcuno con figli altri single, sia uomini che donne.
Parlai pure con l’istruttore di nuoto e lo pregai di stare molto attento ad Elisabeth che sapeva, a male a pena, stare a galla nuotando solo a rana.
Questo era un giovanotto di poco più di trenta anni, dal volto aperto al sorriso e dagli occhi a mandorla castani che dimostravano con evidenza la sua origine meridionale.
Era un soggetto atletico, muscoloso ma non costruito in palestra, esperto di Surf e di sci nautico di nome Paolo
Pensai che se fossi stata molto più giovane forse lo avrei con un po’ di malizia corteggiato ma mi levai subito dalla testa quella idiozia.
Presi cinquanta euro e gli disse che erano per lui e per la cortesia che mi avrebbe fatto riguardo ad Elisabeth.
Dopo avere lasciato mia nipote nelle mani di Paolo me ne andai in acqua a godermi quella prima nuotata.
Mentre nuotavo pensai a quanto piacere psicologico e fisico mi dava il contatto col mare.
Lo accarezzavo e quello mi accarezzava facendomi sentire viva e risvegliando in me le sensazioni quasi sensuali, indimenticabili, di quando da giovane ero capace addirittura di andare al largo anche per un chilometro, nuotando in tutti gli stili appresi ad Ostia da adolescente quando ero una semplice ragazza che ancora studiava con estrema serietà e senza fronzoli per la testa.


Di sera alle dieci mettevo a letto Elisabeth esausta ed ubriaca di nuoto e di sole, le davo la buona notte e poi mi recavo, sempre dentro l’Albergo, nel locale adibito a Dancing dove poteva sentire della buona musica e cantanti assai in gamba alle loro prime esibizioni.
Mi ero fatta conoscere da diverse persone a cui avevo detto di essere una stilista di moda e la loro compagnia, giorno dopo giorno, mi stava completamente rigenerando lo spirito ed il cuore.
Tra l’altro mi dedicai al ballo dove però ero una perfetta frana ma a nessuno interessava come ballassi perché lo facevo con molta allegria cosa che avevo scordato da anni.
Gli uomini facevano a gara per starmi vicino ed io accettavo quella corte discreta con soddisfazione.
Stavo ricreando dentro me quella civetteria e quella seduzione di cui non avevo mai fatto uso durante tutta la mia vita ma che in quel momento non mi vergognavo di manifestare.
Tra la gente, che mi si raccoglieva intorno la sera, c’erano un paio di uomini particolarmente interessanti ambedue separati e divorziati da poco.
Uno di questi era un cinquantenne che mi faceva una corte spietata dalla mattina alla sera, che mi piaceva e di cui sentivo averne bisogno come una medicina presa ad orario nella giornata.
Si chiamava Sirio ed era fisicamente quanto di meglio una donna potesse pretendere.
Slanciato e senza un grammo di pancia in più, con una bocca ben disegnata ed un mento con una fossetta capricciosa, sapeva toccarmi con sapienza le corde più intime della mia natura di donna, compresi i sogni erotici che spesso facevo di notte.
Gli occhi poi, oltre che di un colore verde cupo, avevano una espressione continua di costante ed attenta intelligenza associata a momenti di incredibile ottimismo infantile, come se il mondo fosse tutto bello e tutto da scoprire.
Era il mio preferito e lo capivo perché ogni volta che ballavo con lui, le sue mani forti mi tenevano con una presa a cui difficilmente potevo sfuggire ed a cui avrei ceduto volentieri.
Egli mi teneva stretta nei lenti, balli che da sempre avevo preferito, posando il suo viso vicino al mio collo ed alle mie orecchie la qual cosa scioglieva in me il massimo godimento possibile dopo tanti anni di astinenza completa.
Non mi era mai capitata una cosa simile durante tutta la mia vita e capii finalmente cosa significasse l’attrazione sessuale verso l’altro sesso.
Mi era capitato come se, vicina ai sessanta, egli avesse saputo risvegliare in me una tempesta ormonale che avevo raramente sentito nel mio corpo solo a sedici anni.
Fui presa da un tremendo desiderio di far sesso con quell’uomo da poco conosciuto e se me lo avesse chiesto sarei immediatamente salita in camera sua.
Stavo provando una stupenda sensazione a pelle, di attrazione fisica non certamente condita da sentimenti, ma tale che mi avrebbe potuto soddisfare pienamente.
Quello che per tanti anni avevo cercato nel mio defunto marito, ma che mai avevo provato con lui, stava capitandomi quando meno me lo sarei aspettata.
Passando i giorni, tutti avevano capito che non avevo occhi che per Sirio e che quando mi parlava, qualsiasi cosa dicesse, era come una coppa di spumante che mi ubriacava sempre più.
Era come se fossi diventata sua schiava, io donna razionale ed in fondo piena di timidezza, pronta a fare ogni cosa mi avesse chiesto compresi atti che fino allora avevo considerato a chilometri di distanza dalla mia persona.
In un barlume di coscienza pensai ad Elisabeth ed a tutti i miei figli ma, con tutta onestà, non me ne importava un bel niente.
Avevo preso la mia decisione e non fu Sirio a fare il primo passo ma io, Angelica con il sangue che mi ribolliva nelle vene, gli feci capire che sarei andata da lui senza chiedergli niente della sua vitae che non mi sarei offesa se mi avesse detto di essere soprannominato “lo sciupa femmine” di Caserta, città dalla quale proveniva e con una professione di commerciante e titolare della più grande Auto Rivendita della città campana.






CAPITOLO QUINTO





Sfogai nella camera di Sirio tutto l’erotismo compresso nel corso della mia vita, quotidianamente ed anzi molto di più, tanto che venne il momento che divenni esausta e sfinita.
Egli, nel mio immaginario avrebbe lasciato un segno indelebile, uno sfrenato bisogno del suo corpo e mi sentivo giorno dopo giorno come se mi somministrasse dosi crescenti di eroina o di qualche altra droga.
Anche se mi sentivo talvolta venire meno, desideravo che mi strapazzasse fino a cadere come morta e non potevo farci niente perché quel bisogno era più forte della mia ormai debole volontà.
Ormai erano più di tre settimane che conducevo quella vita sregolata senza nemmeno un briciolo di sentimenti, tutto sesso e niente amore, quando mentre mancavano soli pochi giorni alla mia partenza per la montagna vennero a trovarlo i suoi due figli, una ragazza di diciannove anni ed un maschio di ventitre.
Sirio cambiò repentinamente atteggiamento nei miei riguardi. Divenne freddo e scostante, mostrandomi chiaramente che disturbavo la sua intimità più sacra cioè quella verso i figli.
Mostrò a tutti che la cosa più importante della sua vita erano loro due verso i quali diveniva di una sacrale tenerezza.
Di me non gli importava un bel niente, anzi ebbi l’impressione che gli davo fastidio,
Due giorni più tardi presi Elisabeth e partii in anticipo per le Dolomiti.
Per Elisabeth, nella sua ingenuità, il signor Sirio era stato un buon amico della nonna che aveva cercato di distrarre.


L’esperienza con Sirio,.con il quale non avevo nemmeno scambiato il numero del cellulare, se da un lato mi aveva fatta rinascere dall’altro mi aveva profondamente ferita, perché mai avrei pensato che potesse finire così senza nemmeno un falso atteggiamento di tenerezza nei miei riguardi.
Questo suo crudo modo di essere ebbe il potere di provocarmi una profonda amarezza, proprio in quel momento che la mia vita mi era parsa prendere un’altra piega e che forse avrei potuto avere un futuro non più solitario.
Avevo fatto un colpo di testa insospettabile nella mia vita di donna sola ed educata in ben altra maniera dalla nascita.
Erano passati appena dieci giorni da quando avevamo raggiunto in treno Calalzo e poi Auronzo.
Lì avevo preso una macchina in affitto per girare assieme ad Elisabeth tutti quei posti, dalla val Pusteria al Pordoi, dal Lago di Misurina a quello di Carezza.
Ma un giorno con un pulmino andammo in compagnia di altri turisti al Cristallo e mentre salivo con Elisabeth lungo un ripido sentiero del monte, preceduto da uno stato d’ansia di cui mai avevo sofferto, venni colpita da un attacco violento di tachicardia associato a vertigini ed a sensazioni di soffocamento.
Eravamo un gruppo di gitanti, tutti dello stesso Albergo, composto di donne e bambini ma anche di uomini, tra cui un cardiologo che subito mi visitò e mi fece trasportare da un elicottero, chiamato dal suo cellulare, all’ospedale di Cortina assieme ad Elisabeth ed ad un altro medico del Reparto di Rianimazione dello stesso Ospedale che era arrivato con l’elicottero.
Gli accertamenti furono molto accurati e le risposte furono tutte negative per patologie cardiache, vascolari o polmonari, mentre gli esami ematochimici erano tutti nella norma.
Mi diedero dei tranquillanti e mi dissero che si era trattato di una sindrome acuta di panico oppure DAP.
MI dissero anche che quelli attacchi di panico si sarebbero potuti ripetere all’improvviso anche settimanalmente e che tutto poteva essere stato scatenato da un grande stress.
Mi dimisero, dopo sole ventiquattro ore dopo aver provveduto anche ad Elisabeth molto spaventata dandomi una cura di farmaci ansiolitici associati a beta-bloccanti e raccomandandosi di praticare una ventina di sedute di Psicoterapia, appena fossi tornata a Roma .
Tentai di rimanere in montagna ancora per tutto il periodo prenotato ma non fu possibile a causa di una immotivata ansia che anticipava la paura di attendere l’ angosciante, quasi mortale, panico che avevo sofferto durante la gita sul monte Cristallo.
Avrei anche potuto partire subito, dopo aver avvisato Gianluca e Martina, appena tornati dalle Maldive dove avevano passato un mese da sogno di quanto mi era successo ma non me la sentii di metterli in angosciosa preoccupazione.
Quindi minimizzai l’accaduto dicendo loro che mi ero sentita poco bene ma che tutto era passato in pochissimo tempo e trovai un’altra scusa.per spiegare il mio ritorno anticipato a casa.
Dissi, mentendo, che sia io che Elisabeth eravamo stanche di girovagare per gli Alberghi e che cominciavamo, ora che agosto era arrivato quasi alla fine, ad avere una certa nostalgia dell’incipiente settembre romano.
All’Ospedale di Cortina mi avevano detto che un metodo efficace per evitare gli attacchi di ansia premonitori a quelli di panico era quello di ricostruire la mia autostima, in modo consono alla mia precedente personalità e di associare a tecniche di rilasciamento associate a respirazione addominale, nuove e facilmente attuabili
modalità di appoggio a terra e di ricostruzione del tono muscolare. Anche nel Salone, da me frequentato a Roma nell’inverno precedente, si parlava continuamente dell’importanza del tono muscolare e dei massaggi che contribuivano molto ad ottenere quello scopo a cui avrebbe dato una mano l’idromassaggio e lo Yoga come mezzo di rilassamento con metodiche di training autogeno.
Qualcosa conoscevo di queste cose e non persi tempo nei pochi giorni che mancavano alla mia partenza per la Capitale.
Poi mi sarei rivolta a veri specialisti in materia e così partii con Elisabeth da Calalzo, in vagone letto, speranzosa che un attacco simile non lo avrei mai più sofferto.
Purtroppo non fu così dal momento che la spiegazione era molto più seria, più complessa e difficile da risolvere.



La Psico-terapeuta mi aveva spiegato che mi si era accumulata nel cervello una grave perdita psicologica, che aveva toccato il profondo della mia coscienza e che questa sicuramente era dipesa dal mio comportamento a Monte Silvano.
Sarei completamente guarita, quando avessi rimosso dalla mia memoria incosciente Sirio e tutto ciò che era successo quell’estate al mare.
Per dare libero sfogo ad alcuni miei reconditi desideri, avevo senza accorgermene, violentato la mia volontà ed il mio normale comportamento.
Ogni risorsa terapeutica sarebbe stata inutile se non fossi riuscita a ritornare, nel profondo, quella persona limpida e sicura di me come era avvenuto nel corso di tutta la mia vita.
Soffrendo una serie di disturbi, che sarebbe troppo lungo elencare, con l’aiuto combinato di tutto quello che avevo imparato sull’argomento ed ubbidendo ad ogni consiglio compresi quelli dei medici e di terapia medica, in silenzio, senza dare ai miei congiunti sofferenze inutili, impiegai un anno per uscire dal tunnel nel quale volontariamente mi ero cacciata


Elisabeth e Raffaele non si erano accorti di nulla con mia grande soddisfazione.
Soltanto Gianluca, pur facendo finta di ignorare il mio stato di salute e le mie difficoltà, aveva fatto di tutto per alleggerirmi di ogni responsabilità riguardo a Raffaele, mandandolo all’asilo assieme alla cugina nella stessa scuola.
Avevo continuato saltuariamente a dedicare una parte del mio tempo, libero da impegni per curarmi, al lavoro ed anzi sembrava che più mi impegnassi più mi sentivo meglio tanto che ero riuscita a fare uscire una nuova linea riguardante l’intimo femminile.
Questa ebbe un grande successo ed anche ciò contribuì ad accelerare la mia guarigione.
Abbastanza velocemente era tornata l’estate.
Elisabeth aveva compiuto sette anni e Raffaele quattro primavere.
A questo punto dopo la fine delle lezioni a scuola, sentendomi perfettamente guarita, chiesi a mio figlio ed a sua moglie se si sentivano di portare con loro in vacanza insieme, il figlio e la nipotina americana.
Avevo bisogno di rimanere sola ed avrei utilizzato quel periodo di tempo per tornarmene in Romagna, della quale avevo una struggente nostalgia.
Mi sembrava che un secolo fosse passato da quando l’avevo vista l’ultima volta e che se non lo avessi fatto in quel periodo forse non ne avrei più avuto la possibilità perché, pur essendo guarita, qualcosa era rimasta in me dell’ angoscia di morire di colpo.
Mentre Martina manifestò subito la sua soddisfazione, Gian Luca mi prese da parte dicendomi che mi ammirava per il segreto che avevo tenuto per me sola da settembre ma che lui ora poteva dirmi di non averlo ignorato per tutti quei lunghi mesi e che non aveva voluto interferire con la mia decisione, sapendo bene quanto ero orgogliosa di riuscire a farcela, senza l’aiuto di parenti o amici, dal problema del quale ero stata vittima.
La maturità di mio figlio si era ancora nuovamente manifestata in tutta la sua forza e lo capii quando aggiunse che, del mio segreto, non ne aveva fatto parola nemmeno con Martina, che forse sospettava soltanto qualcosa e che potevo stare tranquilla per quanto riguardava le vacanze di Elisabeth.
Questa volta sarebbero andati tutti in California, graditi ospiti di Donatella e di Duilio Maria.






CAPITOLO SESTO





Ero ancora in grado di viaggiare con la mia coupè rossa che avevo fatto mantenere perfetta e nel motore e nella carrozzeria e quando partii, ai primi di luglio per la Romagna, l’avevo fatta lucidare nei minimi particolari come si fa con un paio di scarpe nuove.
Ne ero orgogliosa. Anche se vecchia, quella macchina mi ricordava i tempi passati quando l’avevo acquistata, tanti anni prima, con i miei primi sudati guadagni di stilista facendo felici i miei primi due figli, ancora bambini, che si bisticciavano per montarvi sopra considerandola il più bel giocattolo che avevano.
Antonella e Dario Maria mi mancavano tanto, da un lato così seri e compunti e dall’altro così esuberanti come erano cresciuti nei primi anni di vita.
Quei due piccoli mi rammentavano il mio passato remoto tanto pieno di speranze e di ambizioni relegate poi in cantuccio della mia memoria.
Duilio Maria e Gian Luca invece li ricordavo più bisognosi di cure e del mio affetto perché in fondo erano il mio passato prossimo, quando ormai non potevo dedicarmi a loro con lo stesso impeto ed entusiasmo degli altri due.
Ed era stato proprio quel mio modo di essere, seria e disillusa ma povera di spirito, che li aveva fatti crescere più forti dei primi.
A loro non avevo mai confidato i momenti difficili passati con il loro famoso padre ma, nello stesso tempo, li avevo educati ad essere razionali e senza tanti fronzoli per la testa e purtroppo, e me ne pentivo, meno spensierati
Tante volte avevo pensato a loro quattro, specialmente durante la mia lunga malattia, riflettendo che senza di loro la mia esistenza sarebbe stata vuota, anche se probabilmente più ricca di grandi soddisfazioni professionali.
E mentre sfrecciavo, con il mio coupè rosso verso la sacralità della terra natia, non potevo non considerare che le uniche vere felicità e soddisfazioni, immortalate nel profondo della mia anima, erano derivate dal sangue del mio sangue di quelli a cui avevo dato non solo la vita ma anche tanti pezzettini del mio cuore di madre e di donna.
Sapevo che quella era la piattaforma reale della mia persona e non c’erano alternative, né sconti, che avrei potuto trovare.


Partii di lunedì per due motivi precisi.
Il primo era che volevo evitare il bestiale traffico del sabato e della domenica e le lunghe code ai caselli autostradali di tutto il popolo dei patiti dei weekend ormai divenuti, ogni settimana, un fiume umano che, o col caldo o con la pioggia o con la neve, dedicava le due giornate sacre al il riposo all’autodistruzione, sia del fisico che della mente, per andare al mare oppure in montagna oppure in campagna dove sarebbero rimasti, se le cose fossero filate per il verso giusto, non più di ventiquattro ore.
L’altro motivo era che partendo il primo giorno della settimana, anche se avessi incontrato file di autotreni, sarei potuta passare da Modena a Maranello per vedere Dario Maria e sapere cosa fosse successo di importante con Alessia in quelli ultimi mesi.
Presi dunque l’Autostrada per Milano e dopo avere raggiunto Firenze e poi Bologna uscii a Modena dirigendomi nel cuore operativo della Ferrari dove mi sarei intrattenuta con il mio secondogenito.
Ero partita molto presto da Roma e così poco dopo mezzogiorno mi incontrai con Dario Maria, che avevo avvisato telefonicamente.
Egli fu felice di rivedermi e mi disse che mi trovava bene ma un po’ sciupata in volto.
Ignorava quanto mi fosse capitato nell’estate precedente e mentre ci stavamo dirigendo al ristorante per pranzare, lo vidi rabbuiato negli occhi prima ancora che io aprissi bocca.
Qualche giorno prima che partissi avevo fatto un brutto sogno che mi aveva lasciata scombussolata.
Avevo sognato Dario Maria ed Alessia
Lo avevo visto felice per quel posto prestigioso ottenuto solo per le sue capacità professionali e per essere tornato in Italia, anche se sapevo che era costretto a scorrazzare per il mondo per seguire la Squadra.
Dario Maria, prima ancora che aprissi bocca, mi aveva stretta al petto e parlandomi, come aveva fatto tante volte da ragazzo con tutta l’anima pulita che gli riconoscevo immutata, mi aveva spiegato che si era lasciato con Alessia e che anzi era stata lei a metterlo di fronte al fatto compiuto.
Alessia aveva rifiutato il magnifico posto dirigenziale che Duilio Maria le aveva offerto a Milano, adducendo come scusa che non se la sentiva di abbandonare il vecchio per il nuovo e che se Dario Maria avesse insistito nel volere rimanere nel suo Paese natio, poteva trovarsi una altra donna, perché a lei non le sarebbe mai passato dalla mente di abbandonare Liegi ed i suoi parenti.
La villa, così faticosamente voluta da Dario Maria, era stata data da Alessia in comproprietà alla sorella.
Aveva liquidato Dario Maria con una cifra irrisoria, considerando i prezzi di mercato del momento e non essendovi nulla di scritto davanti ad un Notaio, se l’era cavata con molto poco.
La motivazione principale da lei addotta era che mio figlio non aveva voluto avere figli e che così si sentiva defraudata di un diritto assoluto, mentendo, in quanto egli molti anni prima avrebbe accettato una paternità mentre a lei quella avrebbe intralciato la sua carriera professionale.
La conclusione era stata che mio figlio aveva perduto almeno quattrocentomila euro ed aveva dovuto ripiegare su una casa in affitto.
Alessia si era vendicata ma io, nel sogno, avevo rincuorato mio figlio dicendogli che quella cifra doveva assolutamente accettarla dalla sua mamma e che ero felicissima che non aveva avuto figli con Alessia.
Tra le proteste di Dario Maria avevo firmato immediatamente un assegno di tale importo e gli avevo detto di trovarsi unn’altra bella giovane del suo Paese e sposandola avrebbe chiuso per sempre e completamente con il Belgio.
Alla fine del sogno quando ormai stavo per svegliarmi da quell’incubo, non avevo potuto trattenermi nel dirgli che dalle parti mie si era soliti dire un proverbio, che recitava “moglie e buoi dei paesi tuoi”.
Gli dissi anche che avrebbe dovuto considerare quel denaro il mio personale regalo delle sue future nozze, possibilmente con una emiliana oppure una romagnola come me.
Era stato un semplice sogno angosciante tale però che mi aveva suggerito paure inconsce riguardo a quella vitaccia che mio figlio aveva voluto condurre lontano da casa, sempre impegnato in quel lavoro di grande responsabilità e privo di una vera vita familiare.
Quel sogno aveva voluto significare che le mie ansie non erano ancora del tutto scomparse e che le cose non fossero come avevo sognato, me lo dichiarò Dario Maria.
La verità era che Alessia era sempre più innamorata di lui, viveva a Milano avendo accettato il posto offertogli da Duilio Maria e che si vedevano ogni weekend recandosi alternativamente lui a Milano, lei a Modena e che era incinta al terzo mese di gravidanza
di un maschietto.
Il suo viso rabbuiato dipendeva da un problema che ancora non aveva risolto riguardante un marchingegno elettronico in collaudo su una vettura nuova.
Mangiammo con appetito tortellini e fagiano ed alle tre salutai mio figlio con un grosso bacio dicendogli di portare le mie felicitazioni ad Alessia che sarei andata a trovare al più presto.


Stavo per dirigermi verso Rimini, dopo aver fatto un tratto indietro verso Bologna, quando improvvisamente ebbi l’idea di recarmi subito a Milano da Alessia.
Conoscevo l’indirizzo datomi da mio figlio e pensai che per le diciannove, orario in cui generalmente finiva di lavorare, sarei giunta sotto la sua casa e le avrei fatto una sorpresa degna di un tipo come me esuberante ed improvvisatrice di natura.
La casa che avevano preso in affitto si trovava dalle parti di San Babila e Dario Maria mi aveva detto che era un attico spazioso, molto ben arredato e pieno di luce nelle giornate serene e non troppo cupo in quelle di pioggia o nebbia.
Fermai il mio coupè in un garage nelle vicinanze e senza portarmi appresso nessun bagaglio, ad eccezione del mio beautycase e della mia borsetta, suonai alle diciannove e trenta al citofono dell’attico.
Sentii rispondermi la voce inconfondibile di Alessia, con quella erre moscia caratteristica, mentre dissi che ero io Angelica che la volevo abbracciare e farle gli auguri per il prossimo pargoletto.
Alessia non voleva credere che la madre di Dario Maria, senza preannunciare la sua venuta, fosse venuta a Milano a trovarla e rise dicendomi che una visita più gradita della mia non se la sarebbe mai immaginata
Parlammo di tante cose come due vecchie amiche e volle per forza portarmi a cena in un ristorante vicino.
Già si intravedeva la pancetta prominente ed anche graziosa in quell’abito estivo che si era infilata e pensai con dolcezza a quel bambino che sarebbe nato nella prossima primavera.
Alessia fu molto affettuosa con me e mi invitò a passare la notte da lei, cosa che feci molto piacevolmente.
Parlammo al telefono con Dario Maria, sorpreso per quella visita inaspettata ed il mattino successivo ripresi la strada per Bologna per raggiungere la mia meta tanto desiderata.






CAPITOLO SETTIMO





Raggiunsi Rimini verso le sei del pomeriggio.
Me la ero presa molto comodamente dalla partenza da Milano e tutto il mio viaggio verso la mia Romagna fu come un bel sogno di quelli che vorresti fare ogni notte.
Andai subito sul lungomare per vedere l’ Adriatico, l’antico mare nei pressi del quale avevo visto la luce.
Ero commossa, stupidamente emozionata e nella mia fantasia ricordai le poche volte che mia madre mi ci aveva portata da bambina, coperta con un vestitino bianco immacolato che sporcavo immancabilmente di sabbia quando mi bagnavo i piedi con voluttà nell’acqua della spiaggia.
Nel cielo stava tramontando il sole mentre dalla parte opposta stava per sorgere una bianchissima luna piena, con un leggero alone giallino.
Qualche nuvola lontana dava al quadro una componente pittorica considerevole mentre io continuavo a passeggiare guardando il tutto con stupore.
Avevo tante volte visto tramonti anche più belli ma mai mi ero immersa così completamente nello spettacolo che mi stava offrendo la mia terra con una vena di amore inimmaginabile.
Mi sentivo tranquilla, serena ed in pace con me stessa e mi pareva strano che avessi dovuto combattere, per tanto tempo, quell’ansia e quella paura che l’estate precedente mi aveva colto di sorpresa.
Sapevo che tutti i miei cari stavano vivendo la loro vita con il bene più prezioso esistente e cioè la pace dell’anima e del cuore e non aveva più importanza vivere loro accanto, per sorprendere in essi ogni minima e magari banale contrarietà o dispiacere.
Avvertivo la presenza di tutti loro nel mio pensiero ma questa volta era come se io stessa li potessi proteggere da qualsiasi avversità.
Era come se fossi divenuta il loro angelo custode, con il quale avessero potuto sfidare tutto ciò che di brutto o di malefico vi fosse nel mondo, comprese le malattie, il terrorismo oppure tutte quelle guerre e quella povertà che minacciava la stessa esistenza del nostro pianeta.
Capii che questa rinnovata Angelica non era il frutto degli ansiolitici, della psico-terapia oppure del training autogeno o delle mille altre cose che avevo sperimentato per riacquistare la salute della mia mente, ma del mio Signore Creatore ed Onnipotente con l’aiuto della Vergine Santa che aveva avuto pietà per quella donna che mai aveva cessato di amarli .e di essere loro devota.
Vivendo un momento di particolare spiritualità dell’anima, mi ero convinta che era stata mia nonna paterna che mi aveva voluto in quel momento in Romagna forse per farsi perdonare, pur religiosa come era, del fatto di avermi trascurata da bimbetta quando ero stata per anni nel collegio delle suore senza mai degnarsi di venirmi a trovare o di portarmi anche un minimo dono.
Dal Purgatorio, dove immaginavo si trovasse ancora, mi aveva inviato un messaggio per farsi perdonare da me che non avevo fatto, come lei, costruire una chiesa a Santa Giustina per rabbonire il buon Dio dei suoi peccati in Terra.
Quando fu notte inoltrata mi affacciai al balcone di fronte al mare del mio Albergo.
Un profumo intenso di salsedine mi entrò nei polmoni e nei più piccoli alveoli raggiungendoli come se l’aria fosse trasparente e purissima.
Mi sentivo una persona diversa, forte e piena di dolcezza infinita, tanto che non mi sembrava vero di essere io quella donna sempre fragile in ogni avversità anche se coraggiosa e testarda su tutto quanto potesse riguardare la mia famiglia.


Contrariamente al solito, la mattina successiva, mi svegliai senza avere fatto alcun sogno o almeno se lo avessi fatto non me lo stavo ricordando.
Probabilmente erano mesi che ciò non mi accadeva, tanto che mi sentii fresca e riposata come non mai.
Ero completamente serena ed il mio benessere fisico raggiungeva la mente e si sprofondava poi nell’anima con una dolce tranquillità così innaturale per me specialmente in quell’ultimo anno.
Era così straripante il mio stato d’animo che mi venne voglia di comunicarlo a più gente possibile.
Mi vestii, dopo essermi fatta una doccia tiepida, e subito dopo mi ritrovai in strada salutando tutti coloro che mi sorridevano con un caloroso “Buon Giorno”.
Nel garage, dove avevo lasciato la mia autovettura, ebbi una parola di ringraziamento per l’uomo addetto al lavaggio delle macchine per il lavoro che aveva fatto al mio coupè, che mi parve lucido e rasserenato come me.
Impiegai tre quarti d’ora per raggiungere, tra Santagiustina e Santarcangelo la casa dove ero nata, il mio vecchio platano e l’albero delle giuggiole del giardino, ma questa volta bussai alla porta che mi fu aperta da un vecchio uomo calvo e mezzo sdentato con un paio di vecchi pantaloni di tela ed una canottiera.
Chiesi se potevo entrare dicendogli che in quella casa ero nata e vissuta nei primi anni della mia esistenza.
L’uomo mi fece accomodare nella spaziosa camera al pian terreno, porgendomi una vecchia sedia di legno scura e dicendomi se gradivo un caffè appena fatto.
Risposi che lo avrei bevuto con immenso piacere ma che lui avrebbe dovuto ascoltarmi attentamente.
Era un uomo solo senza la moglie morta da cinque anni e senza nemmeno un figlio e prima ancora che io aprissi bocca mi raccontò della sua vita di stenti che tirava avanti con una pensione di invalidità di guerra a mala pena.
Poteva avere quasi ottantacinque anni ed ancora se li portava bene.
Conosceva qualcosa della storia della mia famiglia e mi chiese se ero venuta per qualche favore dal momento che aveva visto la mia macchina targata Roma.
Gli spiegai cosa ero venuta a chiedergli, se avesse accettato, di vendermi quella casa mentre lui avrebbe potuto rimanere lì fin quando il buon Dio lo avesse chiamato a se.
Gli chiesi se era interessato ed a quello brillarono gli occhi.
La cifra che mi chiese era irrisoria per me anche se l’uomo non era assolutamente uno sprovveduto in fatto di affari.
L’importante per lui era rimanere in quella casa fino alla sua morte e di passare gli ultimi anni della vita in un notevole e gradito benessere.
Gli chiesi se avessi potuto ristrutturale la villetta a modo mio e che per questo disturbo gli avrei passato mille euro al mese.
Ci stringemmo la mano e ci demmo appuntamento per il pomeriggio da un notaio di Rimini, dove io stessa lo avrei portato con la mia macchina.
Il mio desiderio di riacquistare la casa dei miei genitori era cosa fatta e così avrei posseduto sia io che i miei figli un pezzettino di Romagna per sempre e non solo nel cuore.



 

VETRINA