X Y Z (Racconto)
X Y Z
(C) 2001 ARMANDO ASCATIGNO
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
CAPITOLO PRIMO
Per me « X Y Z..» a cinque anni, non aveva nessun significato.
Tutto al più poteva essere qualcosa di misterioso, un modo di esprimersi dei
grandi per non farsi capire dai bambini, oppure una formula matematica
algebrica di cui avevo sentito parlare, che quelli delle Medie usavano per
fare colpo sui ragazzini delle elementari considerati una vera nullità e
talmente inferiori da non degnarli nemmeno di uno sguardo, per non farli mai
intromettere nei loro sapienti giochi.
Per un breve periodo lasciai perdere di fare deduzioni inutili e certamente
sbagliate e mi dedicai esclusivamente al primo appuntamento serio della mia
vita, quello di imparare a leggere ed a scrivere mentre, nel tempo libero,.alternavo
attività sportive a misura della mia età a momenti dedicati al pensiero,
intenso, continuo, qualche volta invadente ma certamente utile per formare
quel carattere e quella razionalità che poi mi sarei portato a spasso, come
un cieco porta il cane che lo guida, per sempre..
A sei anni avevo capito che quei simboli, a seconda il punto di vista,
potevano significare molte cose diverse.
Da un punto di vista cattolico potevano avere, per esempio, la figura del
Figlio, Del Padre e dello Spirito Santo mentre per gli uomini comuni
avrebbero potuto significare il Lavoro, la Casa e la Famiglia.
Avevo molta confusione in testa perché, dopo poco, avevo chiarito che il loro
principale semplice motivo di esistere era quello della mia famiglia, dove la
X ero io, figlio unico, la Y mia madre e la Z mio padre.
Il difficile era per me capire quale dovesse essere la priorità della
sequenza e quale dovesse essere l’importanza della X in quella stessa
combinazione.
Mi sembrava logico pensare che la cosa meno importante dovesse essere la X
perché questa mi pareva indefinita, nebulosa e difficilmente reale tanto era
confondibile.
Con me c’era poco da sbagliare.
Io ero un figlio maschio e per giunta unico ma se fossi stato una femmina,
come poteva verificarsi che la stessa X potesse applicarsi al maschio oppure
alla femmina, senza che ciò non ingenerasse confusione almeno che il maschio
e la femmina fossero la stessa cosa.
Altrettanto era valido per il Cristo, il Padre e lo Spirito Santo.
Qui il mio pensiero si ingarbugliava ancora di più perchè se fossero stati la
stessa cosa, allora, era inutile distinguerli in tre persone.
Sarebbe bastato dire Dio e tutto sarebbe stato semplificato, se invece
fossero state tre cose diverse, perché non eliminare lo Spirito Santo, entità
che pareva essere il cervello e ridurre il tutto al solo Padre eliminando
pure il Cristo Figliolo, che non poteva essere tale dal momento che il Trio
non era una Famiglia, come per esempio la mia, composta da un maschio: il
Padre, da una femmina la Madre, e da un Figlio che ero poi io!
Era molto più semplice la X del lavoro, la Y della casa e la Z della famiglia
dal momento che senza lavoro non si può avere una casa e senza una casa non
si può creare una famiglia.
Fu a quel punto, vedendo che gli esempi potevano diventare infiniti e che
perdevo un sacco di tempo in quelle congetture, che decisi di essere ancora
immaturo per avventurarmi in simili pensieri che forse avrei affrontato molti
anni più tardi.
L’alternativa per me era solo quella di comportarmi, di agire e di avere idee
semplici come milioni di altri bambini da moccioso, privo ancora di un
cervello razionale, anche se avevo compiuto in quei giorni i sette anni.
Alla prima media arrivai che avevo appena dieci anni con molta soddisfazione
da parte mia quando alcuni conoscenti dei miei genitori, gente appartenenti
ai così detti salotti culturali della sinistra democratica, mi dissero.
- Caspita che fortuna, a questa età frequenti già la scuola media, come hai
fatto? -
La domanda era per me assolutamente idiota. Come avevo fatto? Semplicemente
iscrivendomi alle elementari a cinque anni e non era stata farina del mio
sacco.
I miei genitori che non avevano voluto che frequentassi l’asilo, discarica
delle madri impegnate nel lavoro fuori casa, avevano deciso dopo un consiglio
di famiglia, che ormai ero sufficientemente svezzato per affrontare le
elementari anche se io sapevo con assoluta sicurezza che ne avevano piene le
tasche di vedermi sempre tra i piedi
Alle “medie”, cambiai improvvisamente il mio modo di pensare, quando arrivò
il momento delle lezioni di Religione.
Secondo il sacerdote l’Essere Supremo, cui dobbiamo tutto, aveva fatto i più
grandi regali possibili all’uomo.
La nascita, la vita e la morte erano certamente i simboli più importanti per
l’uomo ma la X, la Y e la Z , come ci disse assumendo un atteggiamento serio
e compunto riferito a questo argomento, erano fenomeni variabili, come
schematicamente li avrebbe potuti rappresentare, troppo variabili e grandi
per darne un significato univoco.
Lo avevo già pensato, non di meno ora, detto da un prete, il fatto mi fece
proprio incavolare di brutto.
Ma quale regalo variabile, anche se estremo, poteva esserci se già la nascita
era come vincere milioni di euro alla Lotteria con tutti quelli spermatozoi
che facevano a pugni per arrivare all’ovulo e fecondarlo e non era detta
ancora l’ultima parola.
Anche se tutto fosse andato per il verso giusto, quello del nascere, era
proprio impossibile ridurlo ad uno schema matematico cioè alla X della vita.
Era dovuto, secondo me al caso ed alla necessità.
Il caso che l’uomo fosse fertile, provvisto di un esercito di spermatozoi,
uno dei quali fosse più veloce degli altri, più furbo degli altri, più
prepotente ed infine con la testa più dura.
La necessità che l’ovulo fosse più o meno disponibile, al posto giusto e non
troppo schizzinoso oltre che la donna fosse nel periodo adatto per essere
fecondata, mi aveva aperto il cervello e fatto meditare su un altro
importante fattore che governava la nascita.
Questo fattore lo chiamai X 1, la Fortuna, entità bendata tanto vera come era
dimostrato da tutti quelli esseri che nascendo senza la X 1, nella povertà
estrema, tra le malattie e la morte, avendo come piatto forte la fame più
nera o la sete più cupa, avrebbero, se richiesti, rinunciato allegramente al
privilegio della X.
La X 1 faceva capolino in tutta la vita facendo diventare la Y una Y + Y 1,
creando un insieme indissolubile impossibile da dividere.
Ne avevo visti tantissimi di sfortunati anzi di iellati e altrettanti, di
persone con un trentatré spaventoso.
L’unica cosa che rimaneva invariabile era la morte, dal significato uguale
per tutti, ma anche quella poteva essere dolce oppure orribile. Così, diedi
pure a questa variabile il segno di Z 1.
Anche quando mi innamorai a dodici anni delle prime ragazzine, le quali
avevano un anno più di me, ebbi modo di ponderare la triade del X Y Z.
In quella occasione mi ero considerato Z.
Cioè Z come Zero, per un motivo lapalissiano, non sapevo scegliere tra la
biondina e la brunetta, tutte e due disponibili nei miei riguardi.
La biondina aveva le gambe lunghe ma il ginocchio valgo tanto che per me
assomigliava ad una bella X, l’altra invece, con un petto prosperoso e la
vita sottile, mi faceva venire in mente la Y.
Perché mi consideravo Zero?
Semplice: io non contavo niente per le due compagne di classe, queste erano
due tipe battagliere e focose in tutto ma specialmente nei miei riguardi,
oggetto delle loro feroci dispute, che fra l’altro mettevano in mostra senza
ritegno anche davanti a me.
Se avessero avuto già le mestruazioni, pensai, si stavano disputando il mio
modesto membro virile come due cerve in amore, ma non era così.
Anche quando una delle due sembrava avere il sopravvento sull’altra, non
venivo mai interpellato a riguardo perché la vincitrice mi diceva senza
nemmeno un po’ di grazia, -vieni, bello, andiamo a fare all’amore! -
Poi quale amore fosse, non riuscivo proprio a vederlo, più di un bacio
verginale non rimediavo mentre io, perlomeno, speravo in qualcosa di più
eccitante.
Lo zero che avevo conosciuto in terza media, tra la X della bionda e la Y
della bruna, mi rimase nella memoria come un chiodo fisso per molti anni
facendomi considerare una perfetta nullità in fatto di donne.
Non c’era niente da fare. Nel gioco dell’amore comandavano sempre loro le
svariate X ed Y che man mano conoscevo, sempre diverse ma anche sempre uguali
nella prepotenza che mostravano e se qualche rara volta la Z si ribellava la
prendevano per una Z omosessuale, bella e buona, indegna di essere nemmeno
frequentata.
Valeva la pena divertirsi con tutte le combinazioni che passavano veloci e
rapidissime in quella scatoletta del mio cervello oppure dovevo fare un
piccolo sforzo per dimenticarmi quanto, con una logica elementare, avevo
partorito a cinque anni?
Non sapevo formulare una precisa risposta ma indubbiamente più in là nella
vita avrei riesumato il problema quando, più maturo, avrei potuto dare, alle
mie mille domande, risposte serie ed importanti.
Avevo anche considerato la possibilità di buttarmi nella Filosofia, ma non
solo per passare il tempo, piuttosto per diventarne uno studioso serio o semi
serio come tanti altri filosofi che avevo cominciato a studiare al liceo.
CAPITOLO SECONDO
Passarono diversi anni. Un bel giorno mi dissero che ero maturo avendo
ottenuto il diploma del liceo classico.
Non so ancora adesso cosa intendessero per maturità.
Forse si riferivano ad altri diplomati, non certo a me, che avevo avuto la
sensazione di essermi totalmente rincoglionito con la massa di nozioni che
avevo dovuto incamerare ma che non mi avevano spiegato quanto a me
interessava sapere.
Nemmeno i grandi filosofi dell’umanità mi erano stati del tutto utili.
Qualcosa avevo appreso riguardo all’etica, alla logica, alla estetica ed alle
verità del razionalismo e del materialismo in contrasto con il capitalismo ed
alle mille sfaccettature del cervello raziocinante o del nichilismo
anarcoide.
Mi sembrava di avere rapinato il diploma che mia madre e mio padre avevano
appeso al muro della mia camera.
Sapevo di essere un perfetto ignorante e che anche se avessi scelto, per
l’Università, “Lettere e Filosofia” sarei rimasto tale.
Così, decisi di andarmene per il mondo a toccare verità che a quell’epoca
ignoravo e che mai avrei conosciuto, se fossi rimasto a vegetare nel luogo
dove ero nato.
Cominciai a frequentare un collegio di preti missionari che cercavano qualche
giovane laico da inviare tra gli uomini dei cinque continenti e ciò avveniva
nel bel mezzo dello scandalo di cui ero divenuto oggetto nei salotti
frequentati dai miei.
Lì ci si domandava, come fosse possibile che il figlio unico di due loro
compagni ex comunisti di Rifondazione, ora che il partito della Sinistra
Democratica avrebbe vinto le elezioni politiche, potesse essere così cretino
da mettersi con i missionari cattolici come laico sostenitore
E cosa mi avessero raccontato di tutte le loro discussioni, nei salotti della
sinistra antimperialista americana, dove si parlava soltanto di socialismo e
di sfruttamento del proletariato non chè di economia non globale e di
islamismo in contrapposizione al capitalismo semitico, condendo il tutto di
negazione del razzismo, cosa questa che interessava miliardi di persone?
Mia madre, che era poi la più suscettibile e la più facilmente, fortemente
condizionabile dalle critiche, aveva risposto che con me non c’era niente da
fare dal momento che fino da bambino aveva dato segni inequivocabili di
idiozia acuta e cronica demenza.
Si era messa a blaterare sulle mie “X Y Z “ nella grande ilarità generale e
così finalmente mi lasciarono in pace di vivere come avevo programmato.
Dai miei ricchissimi nonni avevo personalmente ereditato una fortuna che i
miei genitori avevano occultato su un conto cifrato in Svizzera e che ora che
avevo diciotto anni potevo disporre a mio piacimento.
Non avevo dunque bisogno di lavorare né di aiutare chi mi aveva generato,
perché anche loro vivevano di rendita senza pagare un euro di tasse.
Come tutti i loro amici ideologici avevano in casa un paio di extra
comunitari non in regola e senza nemmeno un pezzo miserabile di carta con un
permesso di soggiorno.
Tutti gli altri erano gente che viveva di favori politici nelle prosperose
Aziende del Nord Est, sfruttando i meridionali emigrati in quei luoghi per
fame ed andando in giro d’Estate con barche di venti metri, risultanti di
proprietà di Società del sud America oppure del Lussemburgo.
I preti mi accolsero benevolmente.
Erano tutti dei morti di fame e non avevano niente da spartire con la Curia
romana che anzi succhiava loro il sangue come una piattola negli stagni della
Guaiana.
Vivevano di quel poco che riuscivano a racimolare dalla generosità della
povera gente che si privava anche del necessario per l’Opera Missionaria che
il Vaticano non poteva toccare a scanso di qualche scandalo colossale.
C’era un mutuo accordo tra essi ed il Vaticano, tutte le proprietà che le
vecchiette od i vecchietti lasciavano alla Chiesa rimanevano in mano del
Vicariato mentre soltanto il venticinque per cento degli affitti andavano ai
missionari.
Mi chiesero se potevo provvedere da solo per i viaggi e per gli indumenti ed
alla mia risposta affermativa mi benedirono come un neonato al battesimo con
un grande sospiro di sollievo.
Avrei raggiunto assieme a due preti, uno di cinquantatre anni e l’altro
giovane novizio, il Brasile nei territori della foresta amazzonica.
La Missione era situata ad otre due mila chilometri all’interno della foresta
ed era composta da qualche centinaio di persone in maggioranza donne e
bambini più due dozzine di uomini e qualche anziano.
Era situata in una spianata tra gli alberi che intrecciavano i loro rami
fittamente ed un fiume, largo circa cento metri, l’attraversava da ovest ad
est pieno di canne e torbido di fango.
Poche decine di capanne erano disposte a raggiera intorno alla Missione, due
capannoni più grandi, composti da due zone.
Una di queste era una modesta infermeria mentre l’altra comprendeva una
piccola scuola e la chiesa, per modo di dire, composta da una serie di sedie
e da un tavolaccio che faceva le veci di un altare.
Quando vi entrai per la prima volta, vidi in fondo all’entrata il dipinto di
un uomo del tutto somigliante ad una specie di Cristo con le braccia a croce
e la mani inchiodate ad un grosso albero.
Era somigliante ad uno di quelli uomini che avevo visto di fuori seminudi e
dal volto sofferto dalle privazioni e dalla fatica.
Era comunque un uomo in croce piagato sul torace e con una corona di spine in
testa.
Fu in quel momento che mi ricordai delle mie elucubrazioni mentali di quando
avevo sei anni.
Nel terreno spirituale, riducendo il divino alla mia “X Y Z” con l’errore di
avere eliminato alla fine il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, lasciando
soltanto un Dio indefinito al quale non mi ero permesso di dare nessuna
sigla, avevo fatto l’errore più madornale della mia breve esistenza.
Mi stavo chiedendo lì in Brasile se quel Dio che era rimasto nella mio
pensiero, come un anelito del mio cuore, non fosse per caso il fattore K che
non avevo considerato da bambino.
Cioè l’Uomo Qualunque con le sue pene, le sue paure, le sue speranze, il suo
coraggio ed il suo amore per questo Universo di cui non riusciva a carpire
l’essenza per la pochezza della propria intelligenza ed insieme per
l’immensità ma anche contemporaneamente, per la semplicità di ogni cosa che
lo circondava.
Così, sarebbe stato proprio l’Uomo Qualunque quel Dio dalle sembianze di
poveruomo e spesso irrazionale che io avevo cercato affannosamente? Avrebbe
potuto essere così, rinnovandosi di volta in volta nella sua prole e
rimanendo perciò non dico eterno ma il fattore K che sarebbe finito con la
fine della Terra.
Ma chi poteva essere stato il Creatore di tutto, chi avrebbe potuto dare
inizio al Big Bang?
Non certo l’uomo che non esisteva all’inizio di tutto!
Ero ritornato al punto di partenza senza speranza di dirimere il problema.
Una sola cosa era sicura.
Dovevo aiutarlo, nei limiti delle mie possibilità e delle mie forze, quel
Uomo Qualunque che cominciavo ad ammirare così lontano da tanti altri uomini
che avevo conosciuto nei miei primi diciotto anni di vita tra falsi ed
ipocriti politicanti ed anomali psicopatici.
CAPITOLO TERZO
Per molti mesi rimasi incantato ad osservare gli uomini e la natura di quello
stupendo paese e più l’osservazione si faceva attenta e meticolosa più mi
sentivo toccato da una grazia e da uno stupore mai provato in precedenza.
Chi mi sorprendeva maggiormente erano i bambini, attaccati alle loro madri
come le liane ai giunchi della foresta, dagli occhi grandi neri e dalla
fragilità simile a quella dei cuccioli delle scimmie oppure a quelli degli
alligatori o degli uccelli in attesa del cibo che puntualmente arrivava loro,
come fosse una legge sacra ma naturale di una qualche forza custodita nei
nuclei delle cellule viventi apportatrici di precise e quasi divine
informazioni che avessero stabilito una scala non scritta di priorità, perchè
era la prole, il fattore K 2, ciò che doveva essere protetta prima di ogni
altra dagli stessi genitori.
La meraviglia dei colori delle farfalle o dei pappagalli era un vero canto
alla vita non sviluppatasi con leggi umane ma spontaneamente, seguendo leggi
biologiche e mutazioni genetiche assolutamente imprevedibili ed
apparentemente causali.
Più era grande il mio stupore più pensavo che tutto ciò fosse non
predestinato da un essere lontano costituito di puro spirito ma da una enorme
concatenazioni di eventi che riconoscevano il principio universale del caso e
della necessità.
Mi stavo avvicinando, ogni giorno che passava, all’ateismo più assoluto e
questo era la mia paura ed il mio segreto maggiore che nascondevo anche ai
miei amici missionari che ammiravo sempre più con fortissimo affetto,
illuminati da una fede cattolica enorme ed infinita.
Solo la vita di San Francesco mi calmava e mi faceva comprendere quanto fosse
stato grande quell’uomo.
La stessa esistenza storica del figlio del falegname non era paragonabile a
quella del Santo dell’Umbria.
L’uno era certamente stato un grandissimo uomo politico che aveva fatto
dell’amore verso tutti gli uomini, amici o nemici, il suo verbo da cui si era
sviluppato un movimento che mai avrebbe cessato di esistere fino alla fine
dell’umanità, l’altro lo aveva superato perché l’amore si era sparso verso
ogni cosa che sulla terra accadeva, si sviluppava, nasceva o moriva.
Erano passati due anni in quella missione così povera e così ricca di
insegnamenti per me, alla ricerca continua di un motivo per vivere la vita,
senza ipocrisia e nella gioia, che nessuno mi aveva insegnato.
Tutto l’odio che avevo appreso nel mio mondo così detto civile, in primo
luogo da quella gente che i miei genitori avevano e continuavano a
frequentare, mi faceva talmente schifo che avrei preferito non essere nemmeno
nato.
Anche le mie stesse riflessioni, dai cinque anni in su, erano state divelte
con un taglio di bisturi rapido e preciso ed allontanate dal mio conscio.
Avrei voluto saperne di più sull’origine primordiale dell’Universo ma questo
capivo come fosse impossibile.
Forse soltanto la morte me lo avrebbe spiegato ma per quella, pensavo, avrei
dovuto attendere ancora molto tempo, almeno che non avessi deciso di
togliermi la vita irrazionalmente.
Qualche giorno dopo il Capo Missione mi prese in disparte par chiedermi se
avessi avuto piacere di recarmi in Africa, precisamente nel territorio
meridionale del Sudan, dove c’era estremo bisogno di aiuti umanitari.
Quella zona del Paese era martoriata dalla guerra civile ed io avrei dovuto
dare una mano alla Missione che badava a sostenere donne e bambini senza cibo
e colpiti da ogni genere di malattie, come se non fossero state sufficienti
le mutilazioni che i guerriglieri del nord avevano apportato a chiunque non
appartenesse al loro credo ideologico e religioso.
Mi ero spesso domandato come fosse possibile, nel nome di un qualsiasi Dio,
uccidere e martoriare chi non la pensasse alla stessa maniera.
Questi chiamavano gli altri “Infedeli”.
Centinaia di migliaia di morti e milioni di feriti e di mutilati avevano
bisogno, gli uni di sepolture, gli altri di un minimo di speranza.
Non sapevo a cosa sarei andato incontro ma accettai l’incarico accodandomi ad
un gruppo di medici “senza Frontiere” che stavano per raggiungerne degli
altri, che già si trovavano sul posto.
Se fosse esistito l’inferno, quel posto sembrava esserne la copia in carta
carbone.
L’infamia di uomini, non degni di questo nome, aveva ridotto quel territorio
ed altra gente della medesima specie ma diversamente educata, alla stessa
stregua di un posto peggiore di quanto avessi potuto mai immaginare pur con
la mia fervida fantasia.
Atroce era vedere dei piccoli negri ridotti senza braccia e senza gambe.
La denutrizione era al massimo grado possibile, con donne solo pelle ed ossa
e bambini con pancioni inverosimili per l’ascite ed il fegato e milza
spappolati
Il volto di questi non aveva più nulla di umano, solo gli occhi spauriti si
intravedevano tra le mosche mentre altri insetti appiccicati sulla loro
pelle,
riempivano quella, di eruzioni e piaghe orripilanti.
Ero stato, più volte, sul punto di vomitare in mezzo a quei poveri esseri.
Non ero nato medico e soltanto l’ammirazione verso i missionari e verso tutti
coloro che si prodigavano nel non farli morire sporchi e nudi, come bestie al
macello, mi tratteneva in quel posto che rappresentava il peggio del peggio.
Molti mi avevano visto sospirare non spiegandosi del motivo di quel gesto.
Mi chiedevo innumerevoli volte del perché chi credeva in un Dio, saggio ed
illuminato, non riuscisse a comprendere il motivo di tanta sofferenza, se non
rifugiandosi nel mistero della Fede.
Secondo me era troppo facile parlare di Fede, troppo riduttivo ed anche
troppo menefreghista.
Dicevano che le cose andavano così soltanto per un motivo, che era quello del
passaggio temporaneo dell’umanità sulla terra, nell’attesa che la morte
portasse tutti di nuovo nel mondo di Dio.
Ma allora perché quel Dio aveva fatto nascere tanta gente senza nemmeno
domandarsi, e questo era il caso di quella marea di bambini, se avessero
capito qualche cosa della vita dal momento che appena nati ritornavano nel
suo grembo?
Non riuscivo a darmi nemmeno una risposta plausibile e non volevo
bestemmiare.
Riflettevo tanto su quel Dio che credevo, vaneggiando, che mi sentisse.
Una volta mi sorpresi a parlare da solo.
- Mio Dio non essere così crudele. Tu che tutto puoi, mandaci addosso un
cataclisma apocalittico piuttosto che questo scempio frutto di odio religioso
oltre che dettato dalla sete del potere, per cui il più forte prende tutto! -
Come potevo io, che non avevo la Fede, credere che quella gente doveva essere
sacrificata nel nome astratto di una ideologia e di un mercantilismo e non
salvata in nome di un ragionamento elementare?
Gli altri, quelli dall’altra parte delle barricate, poi addirittura erano, se
in buona fede, convinti di conquistare il loro Paradiso uccidendo gli
infedeli.
Tutto mi parve un enorme “bluff”, che trascinava in un gioco d’azzardo
l’Umanità intera.
Anche quel poveruomo del Papa, con le sue preghiere non era ascoltato da
nessuno e specialmente dal Signore.
Aveva voglia di benedire gli infelici, gli oppressi, gli affamati, i
diseredati gli storpi, i ciechi, gli orfani e via dicendo, ma la domanda era
sempre la stessa.
Forse il Signore era distratto da cose più importanti e suo Figlio, forse,
vagava per altri pianeti del cosmo a predicare inutilmente quell’amore che
aveva insegnato più di duemila anni prima, sulla Terra.
Ed il Dio dei mussulmani con il suo profeta Maometto, possibile che non si
commuovesse davanti a quelle mattanze?
Certo Maometto aveva promesso ai suoi seguaci il Paradiso, ma che bel
Paradiso avrebbe potuto essere, quando quello si basava sulla morte alzata a
dignità eccelsa soprattutto colpendo anche gente del tutto innocente e solo
non mussulmani?
Ero diventato esausto, avvilito, depresso ed anche ateo quando decisi che il
mio posto non poteva essere quello.
Sentivo impellente il bisogno di gridare con tutte le mie forze al mondo
tutto ciò che avevo visto e vissuto.
Salutai i miei amici e dopo qualche giorno fui di nuovo in Europa.
CAPITOLO QUARTO
Pensai a lungo dove avrei potuto recarmi per constatare che forse, almeno
nella mia vecchia Europa, ci fosse qualche luogo dove l’Uomo Qualunque avesse
imparato a convivere con altri uomini da fratello a fratello, dividendo il
pane ed il lavoro con giustizia, forte di una unione politica ed economica
che moltissimi avevano considerato di ferro.
L’euro era ormai una realtà ed era alla pari del dollaro.
Così, i primi Paesi furono il Belgio, l’Olanda, la Francia ed il Lussemburgo.
Quello che avevano fatto gli italiani nel Belgio in passato era scritto anche
nei libri di scuola.
Chi aveva potuto dimenticare i nostri minatori morti nelle miniere di carbone
come poveri martiri, per fare del piccolo Belgio una Nazione industrializzata
da capitalisti affamati di denaro e pronti a qualsiasi infamia per correre
dietro alla ricchezza?
Molti di quei minatori anzi la maggioranza erano emigrati da tutta l’Italia,
per trovare lì uno straccio di lavoro più adatto a delle bestie che ad uomini
degni di questo nome.
L’avevo probabilmente trovato in Belgio il mio “Fattore Kappa”, proprio
quell’Uomo Qualunque da me fantasticato vivendo con i missionari.
Vidi con i miei occhi come erano vissuti siciliani, pugliesi , calabresi e
tutti gli altri che si erano illusi che lassù nel nord ci fosse più giustizia
e più correttezza civile ed impianti, non fatti per risparmiare su carne da
macello, come costoro venivano reputati da quelli di lingua francese o
fiamminga.
Come esseri inferiori, degni soltanto di un pezzo di pane e di casupole
fatiscenti, i nostri emigrati avevano invece insegnato il significato
profondo della famiglia portando a Liegi e dintorni tra cui la grigia e
povera Ougree moglie e figli e una cosa che i loro ospiti non conoscevano
nemmeno lontanamente, cioè la dignità umana e la cortesia della loro lontana
terra di origine, mista all’affabilità propria dell’Italia specialmente del
meridione della penisola.
Riflettei che quanto era successo avesse una grande attenuante per quel
popolo, abituato alla rudezza mascherata da perbenismo dei loro antenati, ma
mi stavo sbagliando.
Uguale era rimasto dalle Ardenne alle Fiandre, dal Lussemburgo al mare del
Nord, l’astio per della gente temprata dalla fatica che continuava a parlare
la lingua natia.
Solo chi si era adattato. al loro modo di vivere ed aveva imparato
perfettamente la lingua francese nelle loro scuole, era accettato e tra
questi erano riusciti a spuntarla i figli dei nostri emigrati, non solo ma
erano riusciti ad emergere in quella società chiusa e retriva esclusivamente
per merito della propria intelligenza e professionalità.
Nemmeno un uomo che contava a Bruxelles, un politico che era stato Capo di un
Governo della nostra Repubblica, muoveva un dito a favore di una giustizia
sociale ed ad una vera uguaglianza di diritti che pure predicava ogni santo
giorno.
Ma il Belgio non era niente in confronto all’Olanda che, mascherandosi dietro
ad una libertà assoluta nell’accettazione di omosessuali, drogati e
prostituzione, esibiva i suoi muscoli contro tutti gli altri europei che si
erano recati in quel posto per meritocrazia.
Italiani e tedeschi in primo piano.
Erano avari peggio degli scozzesi, politicanti senza un minimo di buon senso,
avidi ed invidiosi dei successi di tutte le Nazioni europee, piazzando i loro
uomini, chiamiamoli così con un eufemismo, nei posti chiave delle succursali
delle multinazionali che avevano aperto sul loro suolo.
Ma che razza di Unione Europea era quella?
Odio e sadismo regnava dovunque, non un briciolo di cortesia e di giustizia,
sfruttamento totale delle risorse umane specie per gli stranieri, considerati
allo stesso modo di invasori rimasti tali anche dopo formato il Parlamento
europeo.
Leggi diverse, tolleranze e cattiverie assurde, matrimoni tra omosessuali
legali in Olanda e Francia proibiti in Spagna, Italia, Portogallo eccetera.
Un vero casino!
Come mi sarebbe piaciuto vedere il mio fattore “K” quell’Uomo, strano e
misterioso, soprattutto Qualunque, bacchettare chi si era permesso di
schernire, violentare, alludere, bistrattare e piegare ogni essere umano in
nome di una presunta superiorità di razza!
Al suo posto il mio Uomo, il mio fattore “K” avrebbe insegnato un Amore
generalizzato di tutti verso tutti, come se trovarsi ad Ostenda oppure ad
Amsterdam fosse come a Firenze o Roma.
Solo i tedeschi sembravano un tantino più disposti a rispettare gli italiani
ed in particolare i tedeschi di oltre il Reno oppure quelli del sud.
Forse era merito speciale della Ferrari, indiscussa invidia della Germania,
che però aveva un pilota dentro quella squadra, piena di gloria e piena di
ingegno.
Molti tedeschi si erano fatta la casa attorno al lago di Garda ed erano i
primi e più numerosi turisti sui quali contare.
La Germania era leale ed il suo popolo affabile ed amichevole.
C’era ancora molto concorrenza tra le industrie delle due Nazioni ma era una
concorrenza pulita e non fatta di colpi bassi ed ero sicuro che il tempo
avrebbe fatto di meglio.
Comunque avevo capito che l’uomo europeo e di ogni angolo del Continente non
pensava o non voleva pensare di essere”Un Unico Popolo” e che la razionalità
era di pochi singoli come del resto non poteva esserci un minimo comune
denominatore.
Troppe beghe antiche erano presenti nel Cervello degli uomini di Potere ed
ancora chissà quanto avrebbe dovuto attendere la gente per avere uno scopo
univoco e conduttore verso la saggezza e la verità.
Di nuovo mi si era riaffacciato nella mente il tremendo dubbio che la fine
autoctona del pianeta avrebbe preceduto l’ordine del pensare e della
spiegazione non religiosa della vita.
Era del tutto inutile andare in Palestina.
Lì avrebbe dovuto recarsi un mago di quelli a 24 carati fornito di una lente
di ingrandimento, spaziale, temporale, retrospettiva e futuristica.
Palestinesi nativi, ebrei palestinesi, ebrei importati da ogni parte del
mondo, palestinesi pacifisti, della Intifada, kamikaze suicidi, islamici
integralisti, gruppi sionisti rifacentesi alla vecchia ma mai morta Irgun
zwai leumi, nostalgici della banda Stern, falchi e colombe, nazionalisti,
militari e civili, cattolici ortodossi, ebrei non ortodossi, infiltrati di
tutti i servizi di sicurezza del mondo intero, dalla CIA alla Intelligence
Service.
Lì esisteva l’inizio e la fine di tutto il mio alfabeto che avevo imparato a
cinque anni.
Altro che la X Y Z di vecchia memoria.
Chissà se stava arrivando veramente il momento dell’Apocalisse .
Certo che una cosa era chiara, lampante, inequivocabile e sicura: la
Palestina sarebbe stata la “causa belli”e la fine di tutto si stava
avvicinando velocemente.
Tutti erano incazzati, prima o poi sarebbe successo il Finimondo.
Chi sarebbe stato il responsabile della fine dell’Homo Sapiens era
impossibile chiarire.
Me ne andai ad Assisi, in un convento di frati, a pensare ed a piangere.
La CNN inviava senza sosta, da tutto il mondo, immagini in diretta.
Vidi come in un lungometraggio gli scoppi delle atomiche come se fossero
delle ciliegie l’una dietro l’altra.
Che peccato non avere potuto avvisare ed impaurire il mio fattore K che se si
fosse mosso in tempo forse avrebbe potuto evitare lo scempio incalzante e
imminente!
Era piena estate e forse per quel motivo mi spogliai nudo come aveva fatto
San Francesco.
Attesi senza timore la fine che immancabilmente sarebbe giunta soltanto
perché gli uomini avevano studiato troppo.
Nota bene:
Sto inviando questo mio messaggio, nella speranza che qualche superstite
sulla Terra lo capti, da un altro pianeta nella Galassia di Andromeda, dopo
essere risuscitato, molto più ricco di esperienza e di saggezza..
ARMANDO ASCATIGNO