ARMANDO ASCATIGNO

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FORSE SOLTANTO TU (Romanzo)

FORSE SOLTANTO TU
(C) 2001 ARMANDO ASCATIGNO - TUTTI I DIRITTI RISERVATI



CAPITOLO PRIMO


1

Alle nove precise suonai il campanello della pensione “Casa Tua” al numero 48 di via del Mercato Grande.
Giù in strada avevo letto, tra le targhe che incorniciavano il portone spalancato, i nomi di almeno quattro “pensioni” ognuna ad un piano diverso.
“Casa Tua” si trovava al primo piano ed era messo in bella mostra che i prezzi erano modici ed il trattamento familiare.
Mi venne ad aprire una vecchia sulla settantina in vestaglia a fiori, con i capelli arruffati completamente bianchi e con un grosso naso caduco che le penzolava tristemente su un volto pieno di rughe.
- Cosa desideri giovanotto? - mi disse con voce acuta e stridula dopo avermi squadrato in faccia e dopo avere esaminato il mio vestito “principe di Galles”, il più nuovo che avevo e che riservavo per le grandi occasioni.
- Se vuoi un letto devi farmi vedere i documenti e devi avere più di sedici anni! - Concluse rapidamente mentre io non avevo ancora aperto bocca e fissandola negli occhi piccoli e giallastri, avevo cercato di darle l'impressione del bravo ragazzo ingenuo ed educato.
- Cerco la signorina Elisabeth, - cominciai - mi ha detto di venirla a trovare alle nove questa mattina ed io sono puntuale. -
Nel dirle la frase, preparata da ore, le mostrai l'orologio da polso le cui lancette indicavano esattamente l'ora da me indicata.
La vecchia aprì la bocca sdentata.
- Ho capito, ma la signorina sta dormendo ancora. Se vuoi busso e le chiedo se puoi entrare, - esclamò sogghignando.
Le feci un sorriso implorante ed i miei occhi neri cercarono di esprimerle la massima gratitudine per il piacere che mi stava per fare. Rimasi nell'ingresso scarsamente illuminato da un lampadario con cinque lampadine e con un attaccapanni di legno sulla destra ed attesi qualche minuto mentre quella si era allontanata camminando lentamente lungo il corridoio.


Avevo conosciuto Elisabeth la sera prima in un Night del porto.
Era aprile inoltrato ed a me ed ad Alfredo, sedicenne anche lui, mio inseparabile amico e compagno del primo liceo classico “Francesco Petrarca”, l'aria della primavera ci aveva messo in corpo uno strano prurito per cui eravamo perennemente a caccia di elementi di sesso femminile.
Dimostravamo entrambi più della nostra età. Alfredo, biondo ed occhi azzurri, sembrava uno svedese mentre io bruno, capelli ondulati ed occhi nerissimi potevo essere scambiato per un napoletano verace. E così non c'erano ragazze, che girassero a coppia, che non riuscissimo ad agganciare con estrema facilità.
Avevamo in comune una terribile faccia tosta, ma in realtà tutti i nostri appuntamenti erano semplici esercitazioni dal momento che finivano al massimo con qualche bacio e qualche palpatina innocente.
Noi due eravamo, inequivocabilmente, sessualmente vergini anche perché ci rifiutavamo, bellocci come credevamo di essere, di frequentare le case di tolleranza che a quell'epoca, era il 1949, a Trieste pullulavano in ogni quartiere ma specialmente nella “Città Vecia”.
A dire il vero qualche volta entravamo nei “casini”, dopo aver superato lo sbarramento della “badessa” e ci sedevamo sulle panche di legno del “Metro Cubo” o sulle poltroncine messe a disposizione dalla tenutaria del “Rosetta”, casino questo tra i più eleganti e costosi, ma dopo una ventina di minuti, durante i quali guardavamo le tette e le natiche delle signorine, uscivamo ancora più decisi di trovare altrove carne per i nostri denti.
Quel giorno io ed Alfredo ci eravamo incontrati dopo cena, verso le nove ed avevamo constatato di essere particolarmente in grana, perché i nostri rispettivi genitori ci avevano elargito un premio in denaro per gli ottimi voti buscati nei compiti di latino e greco, ovviamente elaborati in comune.
Camminando lungo il Corso e poi, a piazza dell'Unità d'Italia, girando verso il porto, avevo visto un'insegna, vicino al mercato del pesce, splendere di luce rossa. L'invito del “Night Club the Flowers” mi aveva incuriosito ed avevo convinto Alfredo ad entrare, benché riluttante.
Non eravamo mai stati in un Night e quell'atmosfera, fatta di penombra peccaminosa, ci aveva eccitato terribilmente.
C'era poca gente, ma in compenso un gruppo di cinque ballerine somale davano al locale un aria esotica e misteriosa. Tre di quelle ballavano con altrettanti soldati americani, ma due erano sedute in disparte sole vicino all'orchestra.
Io, dopo aver dato una gomitata di intesa al mio amico, mi ero alzato e mi ero avvicinato a quella delle due che indossava un vestito rosso attillato e scollatissimo.
- Vuoi ballare?- le avevo chiesto in tono sommesso e falsamente romantico.
- Mi chiamo Guido, - avevo continuato guardandole gli occhi senza belletto ed il viso ovale, adornato da un nasino regolare, ma soprattutto scrutandole il seno quasi scoperto.
- Non posso offrirti champagne perché sono uno studente di medicina quasi squattrinato, - avevo mentito, sapendo che il tasto della medicina faceva quasi sempre colpo con le donne.
Lei si era alzata in piedi e solo allora mi ero reso conto che pezzo di figliola mi fosse capitata fra le mani. I fianchi, disegnati in una curva perfetta, facevano da cornice ad un culetto delizioso e le lunghe gambe con ginocchia piccole e tonde davano alla ragazza un aspetto felino specie quando, ad ogni passo della samba che aveva cominciato ad accennare nell'alzarsi in piedi, uscivano dalla gonna con un lungo spacco verticale.
Mi aveva dato una piccola mano morbida e mi aveva accompagnato al centro della sala. Si era fermata un attimo e mi aveva sorriso mostrando dei denti bianchissimi che risaltavano sul viso di ebano chiaro.
- Il mio nome è Elisabeth, - aveva sospirato - e faccio parte di questo gruppo di ballerine somale. Come vedi parlo italiano, perché mio padre ha lavorato nel mio Paese proprio con tuoi connazionali ad Asmara. Balliamo pure e non ti preoccupare per lo champagne, facciamo finta che sei mio ospite tanto poi ti dovrò chiedere un piacere. -
Non aveva proseguito ed aveva iniziato una serie di slow a luci quasi spente.
L'avevo tenuta stretta quasi incollata al mio corpo ed i movimenti del suo bacino ritmici ed il contatto con il suo pube mi avevano fatto impazzire di desiderio quando, nel momento che stavo quasi per svenirle addosso, si era staccata da me e mi aveva portato, sempre tenendomi per mano, a sedere.
Mi aveva guardato in viso dolcemente, bisbigliandomi ad un orecchio.
- Vieni a trovarmi domattina alle nove: voglio essere visitata da te visto che sei quasi un medico. Questo è l'indirizzo della mia pensione. Ora, - aveva esclamato baciandomi sulla bocca - devi andartene perché il lavoro mi aspetta sennò il padrone del locale ci caccia tutte e cinque. -
Non avevo dormito nemmeno un minuto durante la notte girandomi e rigirandomi nel letto, con quel desiderio pazzo che Elisabeth mi aveva appiccicato addosso al Night. Mi ero sentito bollire il sangue nelle vene al contatto fisico con quel corpo di donna che chiaramente aveva voluto provocarmi con maestria.
Sentivo ancora viva la prominenza del suo ventre e l'infossamento curvilineo fra le sue cosce, come una promessa non detta ma sicura, mentre il letto stava diventando una prigione troppo stretta per me. Non avevo mai immaginato, fino a che punto il corpo di una femmina fosse desiderabile perché il problema era tutto lì: volevo con tutte le mie forze e con ogni cellula del mio corpo accoppiarmi con quella stupenda somala.
Alle sei e mezzo mi ero alzato, con grande meraviglia di mia madre che ogni mattina mi doveva buttare giù dal letto per farmi arrivare a scuola puntuale.
Le avevo detto che dovevo ripassare un po’ di matematica ed intanto ero rimasto in bagno più di mezzora per farmi bello e per profumarmi ogni parte del corpo.
Non facevo mai sega a scuola e quindi quell'assenza non sarebbe stata scoperta anche perché sarei tornato a casa puntuale per l'ora di pranzo.
Non ci sarebbe nemmeno stato il problema della cartella con i libri che avevo deciso di posteggiare dal mio amico giornalaio a via Giulia ed al quale non avrei dovuto dare alcuna spiegazione.


E così ora ero lì.
- Giovanotto, - biascicò la vecchia sdentata tornando indietro e trovandomi dritto in piedi sotto il lampadario con la faccia rossa e la fronte sudaticcia, - puoi entrare, la camera è la numero sei in fondo al corridoio. -
Non fece in tempo a finire la frase che mi ritrovai davanti alla camera indicatami. Bussai leggermente.
- Posso entrare? - supplicai a voce bassa.
Dal di dentro sentii rispondere alla mia invocazione.
- Vieni, sei tu Guido? -
- Scusami ma sto ancora dormendo, - aggiunse quando fui entrato e nel semibuio della stanza ebbi visto il letto matrimoniale alla sinistra della porta - e non ti preoccupare se c'è anche la mia amica Mary. -
Il fatto che ci fosse l'amica nello stesso letto non l'avevo previsto e mi contrariò notevolmente, ma un attimo dopo riflettei che dell'amica me ne sarei infischiato assolutamente.
Mi sedetti e senza fiatare infilai la mano sinistra sotto le coperte.
Il corpo di Elisabeth era nudo e liscio come la mamma l'aveva fatta.
Avvicinai il viso al suo e sussurrai, - io adesso mi spoglio e vengo vicino a te così ti potrò visitare meglio...! -
Lei mi accarezzò i capelli e mi fece capire che potevo entrare nel suo letto.
In un attimo fui nudo e vicino ad Elisabeth che si era spostata verso il centro per farmi spazio.
- Fai piano, - mi disse sottovoce - non dobbiamo svegliare Mary, è molto stanca. E venuta a letto appena tre ore fa. -
Poi aggiunse, - Mary è l'amica di un tenente dei marines e ci aiuta molto economicamente in questo periodo dal momento che noi ragazze del gruppo di ballo non ce la stiamo passando molto bene. -
Io annuii e mi misi di fianco alla bella somala cercando di fare il minor rumore possibile: sentivo il contatto del suo corpo vellutato vicino al mio ma l'incanto della sera precedente era svanito.
Lei sussurrò di nuovo, - montami pure addosso, vedrai che non faremo confusione. -
Mi misi su di lei senza fiatare. I nostri corpi furono a contatto diretto ma, amara ironia, il mio sesso rimase flaccido ed impotente. Quando me ne accorsi, un minuto dopo, cominciai a sudare abbondantemente preso dal panico.
Due idee mi balenarono contemporaneamente e contrastanti: far finta di niente cercando una scusa banale, come un improvviso malessere, oppure squagliarmela velocemente e sparire nel buio della stanza come vi ero entrato.
Trovai una terza soluzione e mentre sentivo sotto di me Elisabeth che cominciava a spazientirsi ed odiavo me stesso e la mia improvvisa impotenza, ebbi la sfrontatezza di dirle spudoratamente.
- Scusami ma sono scarico; prima di venire da te ho dovuto assistere all'agonia di un mio zio e non ho dormito niente. Ho passato l'intera notte in Ospedale e con tutto quello che ho visto mi è venuta la nausea. -
Lei allora si scansò con molta delicatezza e mi pregò di ascoltarle il cuore perché, poco tempo prima, le avevano detto che aveva un piccolo soffio cardiaco.
Mi ritrovai in mezzo al letto.
Misi l'orecchio sotto la sua mammella sinistra, morbida e tornita e feci finta di visitarla. Non riuscii nemmeno a sentire i battiti del suo cuore che all'improvviso mi sentii toccare ed accarezzare il fondo schiena da Mary. Mi trovai immobile a sandwich fra le due somale e dopo un attimo, non so come accadde, eiaculai addosso ad Elisabeth rimanendo ancora una volta vergine e deluso.






2

Da quel momento ebbi un problema in più da risolvere che mi perseguitò per un bel po’ di tempo.
“L'avventura somala” mi aveva fatto male e la mia sicurezza di maschio in erba se ne era beatamente andata a farsi friggere.
- E possibile, - mi domandavo ansioso di trovare una risposta accettabile - che ho fatto cilecca in una situazione simile che chissà quando potrà ripetersi così favorevolmente? -
Ad Alfredo non avevo raccontato niente di quanto era successo, anzi gli avevo detto che mi ero fatto la somala ed avevo visto trapelare nei suoi occhi una certa invidia.
Si era all'ultimo trimestre e per un po’ pensai a studiare seriamente, per essere promosso a giugno ed avere così libera tutta l'estate e per un paio di mesi mi dimenticai momentaneamente dei miei enigmi sessuali.
All'uscita dei quadri venne al “Petrarca” anche mio padre. Risultai promosso alla seconda liceo con la media del sette e mezzo ed egli felice per i risultati dei miei studi mi disse.
- Per premio ti mando fino a Ferragosto in montagna in Cadore, ormai sei grande e rimarrai un mese e mezzo da solo a Lorenzago nell'albergo del mio amico Valmiro. Io e tua madre ci faremo un viaggio di una ventina di giorni in Spagna; è tanto che non rimaniamo soli e che tua madre non si muove da Trieste. -
Mio padre era un uomo dalle idee moderne e sbrigativo nelle decisioni, sempre improntate ad un preciso senso di equilibrio e giustizia e molto sensibile al motto del “do ut des”: generosissimo nel premiare, duro e severo nel punire. Inoltre i suoi ordini non si potevano discutere.
Fui abbastanza contento per quella lunga vacanza in montagna anche se avrei preferito passare a Lorenzago, posto che conoscevo perfettamente per esserci stato con i miei per anni, il solo mese di agosto e divertirmi a luglio a Trieste dove me la sarei spassata con Alfredo riprendendo le nostre avventure e passando le nostre giornate al mare e le serate a ballare.
A Trieste invece sarei ritornato il 18 agosto ed avrei avuto solo un mesetto scarso per spassarmela. Quello stacco in montagna era quindi un fatto che avrebbe potuto anche andare bene soprattutto se avessi rivisto gli amici che negli anni precedenti mi ero fatto in abbondanza, fra veneziani, trevisani e bellunesi che passavano l'estate in Cadore.


Il pullman arrivò a Lorenzago alle dodici e venti e mi scaricò proprio davanti all'Albergo Trieste con le mie due grosse valige.
Valmiro, il padrone dell'albergo ed amico di mio padre, stava lì ad aspettarmi.
Era un omone grande e grosso sempre in camicia bianca, senza cravatta e senza maglione, perennemente rosso in faccia per le ombrette che si faceva dalla mattina alla sera, sempre sbarbatissimo e con pochi capelli lisci accuratamente pettinati.
- Ciao mulo, fiol d'un can! - esclamò dopo aver soppesato con uno sguardo quanto fossi cresciuto in un anno.
- Sta a veder, - proseguì sorridendo - che il prossimo anno o anco prima te me superi in statura ! -
Educatamente gli porsi la mano e quello mi diede una stretta micidiale con quella sua enorme sventola di mano che mi fece scricchiolare tutte le ossa.
- Come sta la moglie? - gli feci sorridendo a mia volta e facendo finta di niente per il dolore che mi aveva provocato. Vedo che ha sistemato il giardino con quelle panchette e con quella pista da ballo dietro la fontana dei pesci rossi. A proposito, ce ne sono ancora? -
- Non solo, - mi rispose affabile, - gavemo i pessi rossi ma anche le trote! -
Andai a guardare la vasca della fontana. Effettivamente nell'acqua gelida, che proveniva da uno zampillo alto e prepotente, nuotavano assieme trote e pesci rossi. Respirai voluttuosamente l'aria pura di quel luogo ed osservai i grossi pini ed il vecchio ed enorme albero di noci che davano al giardino una piacevole ombra ed un senso di pace.
Valmiro interruppe la mia attenta osservazione del luogo e proseguì.
- Andemo fiol il pranzo xè pronto e le cameriere non le spetta i comodi de nissun! -


Salii un momento al terzo piano, nella camera che mi aveva assegnato e cinque minuti dopo fui al ristorante dell'albergo a tavola.
Il mio tavolo era il sesto a sinistra entrando dal bar, vicino alla grande vetrata dal lato del giardino. La tovaglia con il tovagliolo di bucato, candida e profumata ed un piccolo mazzolino di fiori variopinti mi diedero un caldo benvenuto.
La sala non era molto affollata. Vidi solo una dozzina di tavoli occupati e quella relativa scarsità di ospiti mi fece piuttosto piacere sentendo il bisogno di rilasciarmi sia fisicamente che psicologicamente e di non stare lì ad intrattenere le solite vecchiette.
Pensai che mio padre aveva fatto bene a mandarmi in Cadore ed aveva dimostrato, ancora una volta, buon senso e saggezza antica; sapeva che ero un tipo esuberante e che se fossi rimasto a Trieste avrei fatto cose turche. -
Ero cresciuto moltissimo durante l'inverno e durante quella primavera. Alto e magro ma non gracile, mi ero irrobustito facendo molte attività sportive a cominciare dal calcio per finire all'attrezzistica, che praticavo due volte la settimana nella gloriosa società della “Ginnastica Triestina” a via Pindemonte.
Le mie giornate erano state pienissime di impegni dalla mattina alla sera ed adesso, con quel problema da risolvere che mi aveva lasciato Elisabeth, avevo proprio bisogno di un attimo di calma e di riflessione.
Mi si avvicinò, mentre rimuginavo così, una graziosa ragazza in divisa da cameriera. Era bionda e di statura media con occhi verdolini. Portava una specie di grembiule troppo stretto per lei che, dal mio esame sommario, risultava ben tornita e sul davanti e sui fianchi, Calcolai che non poteva avere più di diciotto anni.
- Posso servire il pranzo? - mi disse guardandomi con curiosità ed arrossendo leggermente.
Dimostravo a quell'epoca per lo meno vent'anni e ciò era dovuto sia alla barba che ero costretto a radere ogni giorno, sia al fatto che bruno di carnagione e profondamente compreso nel ruolo di giovane romantico, davo l'impressione di un ragazzo piuttosto navigato ed esperto, ma buono come si addiceva al mio sguardo volutamente malinconico.
- Grazie, - le risposi sorridendo - e mi raccomando, mi tratti bene perché ho una fame formidabile. -
- Come si chiama? - chiesi con interesse.
La ragazza vide accendersi nei miei occhi una viva curiosità di conoscerla più a fondo ed arrossì ancora più visibilmente.
- Claudia, - disse arrossendo, - ...allora spaghetti e bistecca, va bene? -
Annuii e quando lei si allontanò vidi le sue gambe slanciate e le caviglie sottili che prima non avevo notato. Ormai avevo capito che quella sarebbe stata la mia prossima preda e mi considerai fortunato perché ero convinto che, per almeno dieci giorni, essendo i primi di luglio ci sarebbero stati nel paese ben pochi miei coetanei.
Guardai fuori dalla vetrata e riconobbi in lontananza, incorniciata da un cielo azzurro e terso, la cima seghettata del Cridola con le sue eterne rocce bianche, leggermente sfumate d'arancione.
Mi sentii felice di essere in quel luogo e mangiai con gran appetito.
Passai i primi tre giorni cercando di essere metodico ed ordinato: qualche passeggiata nei boschi al mattino, lunghe dormite di pomeriggio, chiacchierate con tutti coloro che incontravo nella piazza del paese dove dall'alto campanile della chiesa, vanto del prete, venivano scandite le ore con rintocchi assordanti.
Negli altri due alberghi, vicino alla piazza, erano alloggiati pochi villeggianti e solo un paio di ragazzi universitari di Padova venuti in montagna a studiare.
Quel mattino mi svegliai presto piuttosto annoiato; era mercoledì e fino a sabato sapevo che le cose non sarebbero cambiate perché solo allora sarebbero arrivati in molti e soprattutto giovani.
Scesi a far colazione che erano appena le sette e mezza; ero solo nella sala del ristorante e Claudia venne subito al mio tavolo.
- Latte e caffè, - mi domandò sorridendo - oppure preferisce, oggi, cioccolata e panna? -
La guardai attento e mi meravigliai di vederla così allegra di primo mattino. Non era vestita col grembiule da cameriera ma indossava un vestitino color crema con un maglioncino rosso fuoco. I capelli lunghi erano annodati dietro con un nastrino dello stesso colore del vestito e le labbra avevano un leggero velo di rossetto.
- Siediti un momento Claudia, - le feci spostando la sedia che avevo alla mia destra, - ed intanto diamoci del tu! -
Lei rifletté per un attimo, poi sedette vicino a me e mi guardò negli occhi.
- Oggi, - disse tutto d'un fiato, - è la mia giornata di riposo e servo solo la colazione. Alle dieci sono libera e se vuoi possiamo passare la giornata insieme. -
Non mi meravigliai della proposta poiché in quei giorni ero stato sempre gentile con lei pur dimostrandomi distratto nei suoi confronti.
Usavo spesso quella tecnica di aggancio e nove volte su dieci la cosa funzionava perfettamente.
- Le ragazze, - pensavo - se le corteggi dal primo momento, si montano la testa e ti mandano in bianco.-
Presi un fiorellino dal vasetto sul tavolo e glielo porsi, poi dissi.
- Va bene. Dirò a Valmiro che oggi non pranzo in albergo così ci vedremo in piazza all'autobus di linea per Domegge alle dieci e mezzo. Torneremo questa sera e vedrai che passeremo insieme una bellissima giornata. -
Arrivammo verso le undici. Nell'autobus eravamo rimasti a distanza per non dare nell'occhio, ma appena fuori scendemmo la stradina ghiaiosa verso il lago tenendoci per mano.
Claudia era radiosa, la sua felicità quasi palpabile tanto il viso era luminoso, con quegli sguardi dolci che mi rivolgeva mentre si camminava.
Ci fermammo su un prato pieno di ciclamini a qualche metro della sponda del lago e lei si sdraiò sull'erba morbida e calda, quasi un tappeto vivo, chiudendo gli occhi.
Mi chinai guardandole il viso pallido, arrossato lievemente sulle guance. Alla luce del sole splendente i suoi capelli biondi erano fili, sottili e brillanti, la sua bocca socchiusa delicata e quasi indifesa.
Baciai dolcemente, senza parlare quelle labbra morbide e lei mi rispose con tenerezza. Non avevo mai baciato una bocca così piccola e così innocente e sentii ingigantirsi dentro di me un grande desiderio di accarezzarla, coccolarla, toccarla, ma non come mi era capitato in passato per dare sfogo alle mie velleità mascoline, ma solo per renderla felice.
Non pensai nemmeno per un attimo con malizia di possedere quella creatura abbandonata ed innocentemente languida, ma solo di starle vicino e di darle tanta tenerezza. La presi in braccio e lei aprì gli occhi ridenti.
- Ti porto nel bosco, - sussurrai baciandole la punta del naso - sento che anche tu lo desideri. Il bosco è profumato ed il terreno è soffice, - continuai mentre mi avviavo con quel prezioso fardello verso i primi abeti alti e solenni.
Lei allungò le braccia e mi si strinse al collo, mentre lasciò ciondolare la lunga chioma liberata dal nastrino che fino allora le aveva serrato i capelli dietro il capo.
Solo gli gnomi furono testimoni del nostro illanguidire.
Non avevamo nemmeno udito il suono delle campane della chiesetta di Domegge, che avevano scandito le ore di quel giorno di luglio, quando ci risvegliammo che ormai era quasi buio e tutto era immerso nel silenzio e nel profumo di resina fresca. Avevo imparato a fare l'amore per la prima volta e lei con me, dolcemente.






3


Ogni volta che salivo i vialetti del Manicomio il timore, che mi si insinuava dentro dopo la prima rampa, diventava quasi panico quando, arrivando nel tratto dove si affacciavano sui due lati i reparti degli agitati, guardavo le grandi finestre sbarrate. Dietro s'intravedevano ombre più che uomini, nella scialba luce delle camerate, muoversi come fantasmi senza vita.
Andavo spesso da Sergio, un mio compagno di classe figlio di un ispettore del grande Ospedale Psichiatrico, non tanto per studiare quanto per passare un paio d'ore a tirare calci ad un vecchio pallone, nel campetto con porte regolamentari vicino alla sua abitazione, all'interno dello stesso Manicomio.
In compagnia di altri ragazzi ci cimentavamo in accanitissime partite e giocavano con noi pure giovani malati, giudicati dai medici soggetti in via di guarigione o cronici non pericolosi.
Sergio aveva un fisico atletico e si poteva considerare un bel ragazzo, anche se il viso non era certamente regolare.
Occhi piccoli sotto due sopracciglia cespugliose, naso camuso, labbra sottili e fronte eccessivamente sporgente, gli davano un aspetto piuttosto tenebroso ma interessante Aveva un certo fascino non tanto perché era sicuramente un ragazzo intelligente, ma soprattutto per la sua personalità distorta e perché viveva in quel posto tra i malati di mente.
Ce ne aveva raccontate di storie sui clienti del Manicomio, anzi si capiva che godeva immensamente quando teneva banco con simili argomenti.
- Vedi quello, - mormorava con aria di svelarti un gran segreto - ha tagliato la gola a tutti i componenti della sua famiglia ... e quell'altro, - continuava imperterrito - ha dato fuoco alla moglie dopo averla cosparsa di benzina! -
Erano sempre storie terribili di stragi e di morte ed egli le buttava lì tranquillamente con quella sua aria ironicamente intellettuale impressionando visibilmente gli amici. Era un narratore efficace e sapeva dosare e scegliere i vocaboli indulgendo, con grande maestria, nei particolari più agghiaccianti.
Aveva quasi un anno più di me ed era un tantino geloso della mia amicizia per Alfredo e dei nostri successi con le ragazze. Lo consideravo un timido insicuro e le sue battute erano sempre improntate ad una grande aria di spacconeria
- Andate a cercare le mezze calzette e vi accontentate, - diceva spesso - ma io voglio qualcosa di meglio che quelle puttanelle che frequentate ed ho gusti assai più raffinati dei vostri che sembrate dei morti di fame! -
Non era un modello di riservatezza e quando voleva accentrare su di sé l'attenzione non risparmiava colpi bassi agli amici, mettendo in piazza piccoli segreti di cui era venuto a conoscenza per caso.
Io però gli ero molto affezionato. In fondo, non occorreva essere uno psicologo per scoprire l'origine delle sue turbe di comportamento.
La causa era da ricercarsi sicuramente nei genitori, due tipi molto strani e mal assortiti.
La madre era così miope e portava occhiali dalle lenti così spesse, che ogni volta che mi incontrava doveva guardarmi diverse volte per riconoscermi. Era stata una maestra elementare ed era di origine francese. Invalida al lavoro per quella quasi cecità, il suo leitmotiv era Parigi e le feste di quando era giovane e carina.
- Avevo un vestito rosa a fiori, - mi aveva raccontato innumerevoli volte ripetendo un racconto che conoscevo ormai a memoria - quando mio padre mi portò al ballo delle debuttanti in una sala da concerto agli Champ Elisè e tutti i giovanotti facevano carte false per ballare con me! -
Proveniva da una famiglia della borghesia parigina al contrario del marito che era figlio di un manovale.
Questi la sopportava a mala pena anche perché non faceva altro che rinfacciargli di non aver studiato e di essere Ispettore al Manicomio solo perché il posto glielo aveva trovato lei.
Era un forte bevitore e predicava al figlio che ogni mezzo era lecito per farsi strada.
Passava la vita a rompere le scatole a tutti e specialmente ai professori del liceo per elogiare la serietà del figlio e il suo attaccamento allo studio.
Li riempiva di regali con la scusa delle Feste Comandate e dei vari onomastici e così era riuscito rapidamente a far diventare antipatico a tutti Sergio, che non aveva certo bisogno di raccomandazioni per essere promosso ogni anno.
Ne voleva fare un medico ed era quella la sua rivalsa contro la moglie. Intanto lo spingeva ad accelerare i tempi di una maturazione che ancora era lontana.
- Fatti una ragazza! - lo sentivo dire ad ogni piè sospinto.
- Guarda, - insisteva indicandomi - lui non fa altro che cambiarle almeno ogni settimana. Quando lo incontro lungo il Viale xx Settembre, lo vedo sempre con una diversa! -
Poi davanti a me, tirava fuori dal portafoglio tre o quattromila lire e dandole al figlio continuava.
- I soldi te li do abbondantemente, le sigarette pure, vuoi forse che le ragazze te le porti a letto io? -
Suonava il violino in una orchestrina di un caffè della periferia, come secondo lavoro ed io e Sergio lo andavamo a sentire specie il sabato sera. Era piuttosto bravo specialmente quando si impegnava nelle musiche delle operette di Lear o nei valzer di Strauss.
- Vedi quella bionda? - aveva detto una volta al figlio - ti regalo diecimila lire se riesci a conoscerla ed a farti dare un appuntamento! -
Poi rivolto ad un cameriere, un vecchio allampanato e calvo, aveva proseguito.
- Porta una bottiglia di champagne a questi due “muli” -
- Lo vedi questo qui? - aveva continuato sempre parlando al cameriere ed indicandomi, - è per me come un secondo figlio e per Sergio come un fratello: poi è bravissimo a scuola! Vedrai Franz, quando saranno diventati medici e ti farai visitare da loro..., allora sì che sarai in buone mani finalmente! -
Fu in quella occasione che Sergio ebbe un atto di ribellione.
- Papà, - disse con rabbia - ma perché rompi sempre le scatole a tutti? Vivi e lascia vivere una buona volta! -
Poi rivolgendosi sia a Franz che a me aggiunse sorridendo, - non fateci caso ma il “ vecio “ non sempre regge bene il vino. -
Subito dopo mi invitò ad uscire con lui per fare quattro passi ed io lo seguii.
Questo era Sergio; un contrasto tra la debolezza materna e l'aggressività paterna.
Ci incontrammo alcuni anni dopo durante una mia vacanza estiva a Trieste. Stava per laurearsi in legge e seppi che il padre era morto un anno prima stroncato dalla cirrosi.
- Quando il “vecio”, - mi disse - venne a sapere che mi ero iscritto a legge, per poco non gli prese un infarto! -
- E come te la passi con le donne, - esclamai ridendo - altro pallino di tuo padre? -
- La solita iella, - mi raccontò tra il serio ed il faceto - quando me ne ero trovata una che sembrava la fine del mondo, non vengo a sapere che fa la puttana nel più elegante e costoso bordello di Padova! E quella mi voleva fare intendere che faceva la studentessa in biologia! Alla faccia della biologia, - esplose dopo essersi fatta una sonora risata - sta a vedere che voleva imparare, dalle leggi di Mendel come è possibile fare il massimo numero di incroci. -






4

Quel giorno la bora tirava gelida spazzando alberi e ghiaia, quando arrivai all'altezza del secondo padiglione agitati. Una donna giovane, con i capelli arruffati ed in vestaglia, comparve improvvisamente da dietro una siepe, mi si avvicinò e mi intimò ansimando.
- Fammi vedere dove è l'uscita, figlio mio; fammi uscire ed io ti regalerò una cosa preziosa. -
Non finì di parlare che, aperta la vestaglia, mi mostrò la sua nudità giallastra e pallida con quel ciuffo di peli folti e neri sul pube. Tremava dal freddo ma sorrise ed afferratomi per un braccio continuò bisbigliandomi all'orecchio.
- Sai qui dentro io sono la Principessa ma intorno non ho che servi lerci e malati ed io voglio tornare nel mio castello vicino al mare! -
A quella visione ed a quelle parole tremai quasi per la paura e mi sentii raggelare il sangue, ricordandomi di quando Sergio mi aveva spesso raccontato riguardo ad agitati fuggiti dai loro reparti.
Mi trovavo per la prima volta di fronte ad un pericolo reale ed ero solo senza nessuno che mi potesse dare una mano o un consiglio.
Riflettei per un istante, poi risposi controllando la voce e cercando di darle un timbro di sicurezza e calma.
- Va bene Principessa, ti accompagno all'uscita e forse troveremo ad attenderti un cocchio con due cavalli bianchi che ti porterà a casa. -
- Ma dimmi,- aggiunsi più tranquillo vedendola sufficientemente rilasciata, - non hai dimenticato per caso la corona quando sei uscita così in fretta?
Lei parve smarrire il corso dei suoi pensieri e lo sguardo divenne vuoto e lontano.
- Sì la corona, - disse con un filo di voce - andiamo a prenderla! -
Non sapevo perché mi ero comportato in quel modo, né perché ero riuscito a calmarla con quelle poche parole e col mio atteggiamento.
Ciò di cui ebbi certezza, fu invece che la mia freddezza e la padronanza di ogni reazione emotiva avevano avuto un effetto positivo. Un'immensa pietà per quell'essere umano era subentrata al posto della paura.
La presi per un braccio e l'accompagnai tranquillo all'ingresso del reparto da dove era uscita fuggendo, consegnandola a due infermieri che erano arrivati trafelati per cercarla. Mi separai dalla “Principessa” con un certo rimpianto.
- Povera donna, - pensai - quale destino avverso hai avuto dalla vita! -
Poi, riprendendo la strada verso casa di Sergio, mi convinsi che quella era stata la mia prima paziente: avevo deciso di diventare medico.











CAPITOLO SECONDO






1

Due microfoni erano piazzati sul grande tavolo dell'Aula Magna dell'Istituto di Patologia Speciale Chirurgica gremita di studenti, assiepati nei banchi ed in piedi in ogni angolo. Uno stava di fronte al Maestro, l'altro, raccogliendo le risposte degli esaminandi che si diffondevano in ogni punto dello stesso anfiteatro, rappresentava lo strumento demoniaco, ultima invenzione del Professore, per farci vergognare tutti pubblicamente.
Il Maestro era, al solito, elegante e distinto nel camice candido. La testa, appena inclinata ed appoggiata sul palmo della “divina mano” dalle dita lunghe ed affusolate, aveva fino a quel momento fatto cenni di disappunto nella valutazione delle risposte che i primi dodici studenti avevano dato alle sue precise domande.
- Oggi è venerdì diciassette, - esclamò con sottile ironia il grande scienziato rivolgendosi all'aula - e forse è meglio che vi ritiriate dall'esame prima che si superi il limite della decenza . -
- Finora, - proseguì con voce calma e distaccata - ho esaminato dodici somari e non vi nascondo che le bocciature fanno più male a me che a voi. Vorrei che almeno capiste che il mio atteggiamento non è un fatto personale ma unicamente una protezione per tanti poveri ammalati che non potrebbero essere mai curati da voi! -
A quelle parole un silenzio tombale piombò nell'aula e quando l'Aiuto lesse il mio nome perché era arrivato il mio turno, il primo impulso fu quello di non rispondere alla chiamata, mentre avvertii che le pulsazioni del mio povero muscolo cardiaco stavano raggiungendo il limite della tachicardia parossistica.
Marisa, che si trovava al mio fianco, mi diede una gomitata tremenda.
- Muoviti, - disse sottovoce - non te la fare sotto, non ti riconosco più!-
Ero diventato pallidissimo ed un sudore freddo cominciò ad inzupparmi il collo e la schiena quando, come un automa, percorsi quei dieci metri che mi separavano da Lui.
Era quello il primo esame del quarto anno ed avevo deciso di darlo al primo appello, il sette giugno, perché a luglio avevo in programma di presentarmi all'esame di Patologia Medica, dove ero interno già da un anno. Con una media di vent’otto e quaranta e senza nessuna bocciatura, sarebbe stata per me una grande disgrazia fallire forse il più importante esame del quarto anno.
Non ero ancora giunto al grande tavolo che l'Aiuto ripeté il mio nome a voce più alta ed un attimo dopo mi trovai seduto su quella scomoda sedia dirimpetto al Maestro, di fronte a quel maledetto microfono.
- Mi parli, - cominciò freddo ma bonario - della artrite gonococcica del ginocchio. -
Lo guardai dritto negli occhi mentre quel po’ di saliva che mi era rimasta non riusciva ad inumidirmi la gola e le mie prime parole uscivano strozzate e quasi afone.
Conoscevo bene l'argomento e dopo un attimo glielo descrissi, parlando lentamente ma scandendo bene le parole ed esprimendomi con estrema chiarezza e proprietà di linguaggio.
Come d'incanto la mia voce era tornata ad essere quella di sempre ed il microfono l'amplificava cosicché, nell'aula silenziosa, era la sola cosa che si udisse.
Una gradevole sensazione di esaltazione mi aveva completamente preso quando gli buttai, non richiesto, la descrizione delle lesioni istologiche della malattia.
- Bene, passiamo al quadro iniziale e poi a quello diffusivo del carcinoma dell'ampolla di Vater, - esclamò interrompendomi mentre un leggero sorriso gli si dipinse sul volto. Sciorinai egregiamente anche quel quadro nosografico nei minimi particolari.
Ormai ero certo di essere il primo promosso della sessione, ma mai avrei immaginato le successive raffiche di domande che il Grande Chirurgo cominciò a rivolgermi affondando nei più reconditi angoli della Patologia Chirurgica.
Dopo quarantacinque minuti di martellamento continuo e di atroce tensione si fermò, stese la bianca mano verso di me per stringere la mia e disse rivolgendosi a tutti.
- Questo giovane deve essere premiato non tanto per la preparazione accurata che ha dimostrato su ogni argomento e per la sicurezza che ha avuto nel rispondere, ma soprattutto perché sono sicuro che in mano sua, in un futuro che gli auguro roseo, i malati avranno quei benefici che sono l'unica cosa importante della nostra professione. -
Poi, scandendo bene nel microfono, proferì il fatidico trenta e lode.
Col viso paonazzo mi ritrovai in mezzo agli amici e Marisa mi si buttò letteralmente addosso. Sentii le sue braccia nude e fresche attorno al collo in un abbraccio affettuoso e pieno di dolcezza.
Mi adorava e nello stesso tempo mi ammirava: ero il suo ragazzo e lei, che di medicina non ne capiva nulla, mi aveva sempre incoraggiato nei momenti di depressione e di sconforto, quando ci si vedeva la sera per fare quattro passi insieme.
- Hai visto - riuscì a dirmi con voce rotta dall'emozione - sei forte e non devi più farmi penare prima di ogni esame con quei tuoi lamenti di eterno insoddisfatto! -
Le sorrisi e le accarezzai la chioma corvina che le abbelliva il viso così squisitamente delicato, anche se gli occhi meravigliosamente neri, tra ciglia lunghe e curve, erano tutt'altro che morbidi nell'espressione abituale.
La baciai di slancio riconoscente per la spinta di prima ed afferratala per la vita sottile la trascinai fuori dall'aula.
- E vero, - borbottai con mal celato orgoglio quando fummo fuori nei vialetti del Policlinico - ormai sono oltre la metà del corso e con il mio curriculum, vedrai che riuscirò a laurearmi con il massimo dei voti e con lode.-
- Ma tu, - proseguii stringendola ancora più forte - dovresti starmi sempre vicina come hai fatto sinora. Ho proprio bisogno del tuo aiuto e poi ti voglio tanto bene, che potresti farmi arrossire se lo dicessi in giro.-
- Non essere troppo sdolcinato con quei tuoi “ti voglio bene” mio bel dottorino, - mi rispose con un velo di malinconia nello sguardo. -
- Tu sai che conti più dei miei studi in lettere e che ti sono già troppo legata! - Continuò questa volta assumendo un atteggiamento deciso e fermo - ma non credere che io sia succube di questo sentimento o che sia una pazza. Se vuoi, dimmelo adesso che non devo farmi illusioni: sarà dura, così, ma ora la cosa è accettabile mentre domani potrebbe essere troppo tardi. -
Marisa diventava acerbamente bellissima, quasi infantile ed imbronciata, quando parlava del suo amore per me perché in quei precisi momenti i suoi occhi brillavano di ardore e fiammeggiavano di passione e così la interruppi con un bacio per non proseguire sull'argomento che involontariamente avevo provocato. Lasciai passare qualche attimo guardandola con ammirazione, poi dissi.
- Andiamo a casa, prendiamo i costumi da bagno e poi corriamo al mare a goderci la giornata. Ti va? -
Lei sorrise e ci incamminammo verso il Bar subito fuori il Policlinico.






2

Avevo conosciuto Marisa un anno prima, d'estate, nella biblioteca dell'Università. Lei era una matricola in Lettere Moderne ed io stavo preparando Patologia Generale.
Me l'ero trovata seduta di fronte concentrata su alcuni testi che stava consultando con grande attenzione. Io ero in compagnia del mio gigantesco trattato del Favilli, ma quel giorno avevo più voglia di chiacchierare che di studiare.
- Sei una matricola, - avevo cominciato rivolgendole la parola - ...ce lo hai scritto in faccia anche se non alzi il viso! -
Lei era diventata improvvisamente rossa in volto quando mi aveva risposto con voce impaurita, mentre finalmente avevo potuto guardarla in faccia constatando che non era stata ingannevole la sensazione di trovarmi di fronte ad una ragazza assai diversa dalle solite colleghe di Medicina.
- Si! Ed allora? Sono del primo anno ma tu non puoi seccarmi con la richiesta del “papiro”, con le firme degli anziani, perché la festa delle matricole l'abbiamo fatta ed io sono entrata di diritto nella famiglia universitaria. -
Era apparentemente seccata per la mia intrusione, ma intanto avevo visto che mi stava osservando. Con un gran sorriso le avevo detto.
- Non te la prendere, è stato un modo qualsiasi per attaccare discorso. Piuttosto come ti chiami? -
Lei titubante aveva pronunciato il suo nome e dopo dieci minuti eravamo fuori a camminare nei viali dell'Università.
Aveva fatto il Liceo dalle suore ed era figlia di un colonnello dell'esercito. Era nata a Firenze e le piaceva la musica dei Beatles ma anche quella classica.
Una sera l'avevo portata a Villa Borghese più o meno verso la fine di agosto. Durante il percorso a piedi le avevo raccontato di me e di come fossi capitato a Roma per caso dopo il Liceo dato che proprio quell'anno, mio padre era stato trasferito per lavoro nella Capitale.
L'avevo quasi plagiata per la mia passione per la medicina scelta come una vocazione e le avevo descritto quei primi anni di lezioni e di esercitazioni che mi incantavano.
Marisa ascoltava attenta ogni particolare e sembrava particolarmente interessata delle mie prime esperienze in corsia.
Già da qualche mese ero riuscito a diventare interno a Patologia Medica per merito della mia alta media negli esami ed ero uno di quei pochi fortunati che già al terzo anno avevano il permesso di visitare i malati all'interno dell'Istituto.
Quando le avevo raccontato di Simona, una ragazza di sedici anni, che con uno stato febbrile atipico, considerato all'inizio brucellosi, era morta per un sarcoma osteoblastico del femore, avevo visto i suoi occhi luccicare di pianto.
- Non fare così, - l'avevo implorata - se vuoi che ti racconti tutto o quasi, devi essere più forte e distaccata, altrimenti è meglio che parliamo dell'ultimo album di Topolino e Paperino. -
Aveva sorriso e mi aveva stretto con forza la mano destra.
- Ma dove andiamo, - aveva esclamato ad un tratto mentre ormai c'eravamo inoltrati dentro Villa Borghese - non mi porterai troppo al buio: lo sai che ho paura di tutto! -
La serata era calda ed afosa e noi eravamo giunti senza rendersene conto, fino a Piazza di Siena. Ci eravamo sdraiati sull'erba ormai secca per il troppo sole estivo ed io le avevo appoggiato la testa sul ventre.
Avevo guardato le stelle nel cielo, che si intravedevano tra gli altissimi pini e parlando più a me che a lei avevo esclamato.
- Guarda come è bello il cielo e pensa come è importante essere insieme in questo momento. E’ come se la nostra gioventù si rafforzasse perché ci vogliamo bene! -
Lei aveva messo le mani sulla mia fronte e sulla mia bocca ed io avevo incominciato a baciarle le dita con tenerezza.
- Mi sei tanto caro, - aveva mormorato allora Marisa stringendosi forte a me, - e voglio confessarti che i tuoi atteggiamenti affettuosi mi provocano intenso piacere e contemporaneamente un incredibile giramento di testa, quasi un cedimento.
Avevo capito di avere conquistato definitivamente Marisa e l'avevo voluta tranquillizzare avendola sentita palpitare timorosa come un passerotto impaurito, tremante per la paura di essere ghermito da una mano troppo grande e forte.
- Ti ho sempre desiderata, - avevo sussurrato accostando il mio viso al suo dopo che mi fui messo a sedere accanto a lei - fin da quando ti ho conosciuta. Sei fresca e bella ed appetitosa come un frutto proibito ma ti giuro, - avevo aggiunto con trasporto ed appoggiando le dita sulle sue labbra infuocate - che non ti farò mai del male, o almeno cercherò di non fartelo. Il nostro rapporto sarà sempre chiaro e pulito e forse, se il destino lo vorrà, avremmo un futuro insieme. -
Appena detto così avevo avvertito chiaramente di essere andato oltre le mie intenzioni, tanto più che non era onesto illuderla tanto ed avevo voluto attenuare con garbo il significato della frase.
- Dobbiamo però vivere, fin da questo momento, la nostra vita tranquillamente e non voglio crearti problemi più grandi della tua età. -
Marisa aveva capito soltanto che ero pazzo di lei e fu da quella sera che mi permise molto sessualmente.
L'unica cosa che mi negava era un rapporto completo e questa sua necessità di voler rimanere vergine era motivo di allegria per me, commista a rassegnazione.
Pensavo che ciò fosse frutto della sua educazione religiosa e soprattutto del fatto che aveva vissuto tanti anni con le suore.
Mi aveva detto che non era così, che non si trattava di nessun tabù spiegandomi che, in realtà, l'amore che provava per me la frenava per paura che se avesse iniziato non avrebbe potuto più farne a meno.
La sentivo voluttuosamente calda quando le accarezzavo e le baciavo ogni lembo di pelle e le avevo creduto.
In fondo ciò non mi turbava minimamente perché mi compensava dandomi tutta se stessa: oltre che il dominio completo di quel suo splendido corpo, erano soprattutto le sue dolci attenzioni che avevano importanza assolutamente primaria per starle sempre più vicino.
Quando giungemmo a Fregene, quel giorno dopo il mio esame, pareva che fosse estate inoltrata tanto il sole era caldo e il mare azzurro e calmo.
Prendemmo una cabina e ci trovammo nudi uno di fronte all'altro.
Non era la prima volta che vedevo Marisa completamente svestita davanti a me ma io non mi ero mai trovato nudo e quasi vergognoso di fronte alla mia ragazza.. La sua nudità me la esibiva con estrema semplicità tanto che, più di una volta, avevo pensato che lei godesse dei miei sguardi di ammirazione e di bramosia.
Quel giorno ero così felice ed esaltato per l'esito dell'esame che non mi sentii imbarazzato come invece avrei potuto immaginare e volli che lei mi guardasse bene e mi dichiarasse la sua passione.
Volevo solo provocarla per gioco ma anche con sottile cattiveria. Non mi aspettavo certo nulla per quella mia smargiassata ma Marisa mi diede una lezione di estrema maturità.
- Lo sai, - mormorò sottovoce - che mi piaci. I tuoi occhi e la tua bocca mi danno alla testa ma adesso basta. -
In un attimo mi spinse a terra e cominciò a baciarmi appassionatamente. Sentivo sul mio corpo il suo così morbido e quando mi aiutò nel guidarmi dentro il suo sesso ebbi un tremendo rimorso.
Facemmo l'amore per ore e poi corremmo verso il mare a nuotare mentre vidi nei suoi occhi una gioia infinita come se il mondo e quello splendido sole fosse tutto suo.
Anch'io avevo toccato il cielo con un dito pur rimanendomi sulla coscienza un'ombra. Mi ero comportato come le avevo promesso?






3

Avevo poco più di un mese per rifinire e studiare a fondo Patologia Medica e poco tempo da dedicare a Marisa.
Non potevo abbandonare proprio in quei momenti i compiti che mi erano stati affidati in corsia ed almeno due ore al mattino e due alla sera le passavo a compilare cartelle cliniche ed a fare prelievi di sangue, endovenose ed esami obbiettivi.
Il ”Grande Capo” aveva vinto la Cattedra un paio d'anni prima e si era portato dietro tutti gli uomini che aveva avuto come aiuti ed assistenti nella sede precedente. L'organizzazione e la disciplina nell'Istituto era ferrea.
Entro le sette di mattino bisognava firmare il foglio di presenza in portineria che poi passava immediatamente nello studio personale del Direttore. A questa prassi erano obbligati tutti dall'ultimo studente interno, come ero io, al più importante collaboratore.
Egli arrivava alle otto in punto davanti all'ingresso della Clinica con una grande Mercedes nera. L'autista gli apriva lo sportello e dal quel momento il terrore entrava nell'Istituto.
Era un uomo sulla sessantina grande e grosso con freddi occhi azzurri e con una enorme testa incorniciata da lunghi e bianchi capelli che gli cadevano sul collo tanto da farlo sembrare un artista, pittore o musicista che fosse.
- Sta a vedere, - pensavo spesso quando lo guardavo - che solo uno come lui con un cranio così grosso può diventare uno scienziato di fama internazionale. Forse, - concludevo - la massa cerebrale è proporzionale all'intelligenza e quindi la maggioranza degli uomini, me compreso, non potranno mai sfondare perché i loro cervelli pesano più o meno lo stesso.-
Quasi ne ero convinto ma molti anni dopo seppi con certezza che, per fortuna, le cose non erano esattamente come quella volta avevo immaginato.
Quando passava per la prima visita del giorno per le corsie, qualche minuto dopo il suo arrivo, ogni cosa doveva essere perfettamente al suo posto.
I malati, che visitava per la prima volta, dovevano trovarsi completamente nudi sotto le coperte e la cartella clinica, compilata in ogni parte, ai piedi del letto.
Indossava sempre, io penso per vezzo, un camice di seta sottile troppo stretto per la sua mole e per la sua pancia e la Sister gli porgeva, con un atto regale prendendolo da una specie di scrigno, il personale fonendoscopio ogni volta che si sedeva vicino ad un paziente.
Prima ascoltava in silenzio religioso la storia clinica del malato e quello era per me il momento più emozionante perché molte volte ero io stesso che, avendola raccolta, gliela leggevo.
Inizialmente la voce mi usciva di gola tremolante, poi non appena sbirciandolo vedevo che non aveva reazioni negative, continuavo più rinfrancato fino in fondo.
La cosa che mi impressionava di più nel vederlo visitare era non tanto il tempo che trascorreva ad auscultare ed a palpare, ma il modo in cui, con la percussione cosi detta “alla Condorelli”, disegnava con la matita dermografica il profilo degli organi del malato e specialmente quelli del cuore.
Non sempre le cose filavano così lisce.
Avevo assistito qualche volta a degli scatti di ira violenta inaudita da parte dell’Uomo”. Per un nonnulla lo avevo visto bistrattare il mio capo diretto, cioè un suo assistente libero docente, umiliandolo davanti a più di trenta fra medici e studenti quando un piccolo particolare dell'esame obbiettivo era stato trascurato.
Ma a lezione veniva fuori la sua grandezza di Maestro e la sua perfezione di medico.
Affrontava il caso clinico con grande umiltà, basandosi quasi completamente sulla semeiotica. Poi iniziava con le diagnosi differenziali prima per organo e poi per apparati costruendo ,pezzo per pezzo , la diagnosi inattaccabile sotto qualsiasi profilo critico che lui stesso provocava chiamando in mezzo all'aula, sempre gremita, uno studente volontario.
Avevo seguito per due anni di seguito le sue lezioni e per questo l'esame non mi faceva troppo paura. Avevo accettato ulteriori incarichi che il suo assistente ogni giorno mi affibbiava, essendosi accorto che con il mio lavoro le figuracce davanti al professore si erano praticamente azzerate.
La cosa mi faceva sorridere: io, uno studente che aveva appena incominciato a mangiucchiare qualche boccone di Medicina, ero riuscito a fargli fare bella figura con il Capo.


La conclusione di tutto ciò era che riuscivo a vedere Marisa solo quando studiavo perché lei aveva deciso, dopo aver preso un ventuno al primo esame, di non farne altri nella sessione estiva e di aiutarmi anima e corpo nella preparazione del mio. Veniva a casa mia dove disponevo di una stanza con ingresso indipendente che
utilizzavo per studiare e per ricevere gli amici.
Mia madre e mio padre non si interessavano granché con chi passavo tanto tempo rinchiuso e così godevo di ampia libertà di manovra.
Marisa si metteva ad ascoltarmi attentamente quando ripassavo ad alta voce i vari argomenti, ma nello stesso tempo voleva che, nelle pause, facessimo all'amore ormai che ogni inibizione in lei era cessata.
Era un periodo magnifico. Mi sentivo realizzato in pieno. Avevo praticamente tutto, successo nei miei studi che progredivano a ritmo pieno e l'amore di Marisa che si era abbandonata a me con tutta se stessa.
Ne aveva parlato ai genitori, soprattutto alla madre. Le aveva fatto capire che ero il suo grande amore e che degli eventuali ostacoli paterni non ne avrebbe tenuto conto.
- Guido, - aveva detto un pomeriggio di domenica davanti a me che ero andato a prenderla a casa - è un bravo ragazzo e tu mamma mi devi permettere di vederlo quando voglio e non mi devi ostacolare se qualche volta starò fuori di casa tutto il giorno. -
Quella l'aveva guardata attonita mentre svolazzava per casa con la gonna nuova a pieghe minute e con il maglione, di cotone giallo, aderente.
Io ero rimasto immobile sulla sedia della cucina e stupito per quella sua uscita improvvisa.
Era stata la prima volta che ero salito da lei. Mi aveva convito al telefono dicendomi che il padre era fuori Roma, come al solito, in missione e che in casa avrei trovato solo la madre.
- Non mi farai stare in pensiero figlia mia! - aveva esclamato una volta che Marisa si fu fermata.
- Lo sai che tuo padre mi incolpa sempre e comunque di qualsiasi cosa avviene in casa nostra! - Aveva aggiunto, mentre osservavo quella donna minuta e magra col viso spaventato per ciò che le sarebbe potuto accadere e per la chiara impossibilità di rifiutare alla figlia ciò che in pratica aveva già deciso.
- Mi sembra proprio un giovanotto a modo, - aveva continuato indicandomi - ma tu, che sai quanto ho sofferto con tuo padre, non mettermi in ansia.-
Poi rivolgendosi a me, mormorò con quell'accento toscano che portava in giro come un marchio di fabbrica.
- Mi sono sposata giovanissima infatuata da una divisa, ma non avevo capito cosa ci fosse dentro. -
- E stato mio marito, - si era confessata dopo un attimo di sosta - a voler mandare Marisa in collegio dalle suore. Voleva essere libero di girare e di portarmi appresso come un soprammobile. Non vi ostacolerò ma, mi raccomando ragazzi, abbiate giudizio! -
Mi ero ritrovato con la benedizione, non richiesta, di quella donna e Marisa dal quel momento non aveva avuto più remore di nessun genere. Era felice e non lo nascondeva a nessuno.
Un giorno però la vidi arrivare a casa mia con gli occhi gonfi di pianto e mi spiegò, tra le lacrime, che il padre aveva deciso di portarla con sé in villeggiatura per un mese e mezzo durante tutto luglio e fino a Ferragosto in Toscana.
Rimasi malissimo. Avevo progettato un estate di fuoco a Fregene con Marisa e tutto andava all'aria. Sarebbe partita due giorni dopo e quel pomeriggio non studiai per niente.
Volevo che si portasse via un bellissimo ricordo di me e prima di lasciarla le dissi.
- Non ti preoccupare, un mese e mezzo passa presto; però giurami che non guarderai nessun ragazzo! -
Lei giurò e mi promise che mi avrebbe scritto ogni giorno.
- Ti fa bene, - volli concludere allegramente - così ti accorgerai cosa sono per te ed intanto farai l'apprendista come scrittrice. -






3

Dopo l'esame di Patologia Medica, che superai come programmato il dieci luglio con un altro trenta e lode, mi prese un improvviso pazzo desiderio di tornare a Trieste.
Non vi ero più stato negli ultimi quattro anni da quando la mia famiglia si era trasferita a Roma.
Avevo mantenuto contatti epistolari saltuari con parecchi amici del Liceo ma non più con Alfredo che, dopo essere stato bocciato all'esame di maturità, aveva deciso di lasciare gli studi e di emigrare in Argentina dove aveva diversi parenti.
La metamorfosi di Alfredo era avvenuta proprio nell'ultimo anno del Liceo.
Apatico ed abulico, sia nello studio che in tutte quelle avventure che lo avevano avuto come protagonista brillante fino all'anno precedente, viveva di rabbia impotente covando un odio profondo verso il padre. Proprio durante l'estate gli era morta la mamma di parto.
Io non mi trovavo a Trieste ma al mio ritorno in città mi aveva detto cosa era successo.
- Quel porco di mio padre, - aveva cominciato con gli occhi gonfi di lacrime - ha voluto risparmiare sulla pelle di mia madre. Il medico si era raccomandato di farla partorire in clinica ma lui la ha convinta che in fondo, per un semplice parto, non occorreva spendere tutti quei soldi.-
Tremava mentre mi raccontava e non mi aveva dato nemmeno il tempo di interromperlo per consolarlo.
- Lo sai quanto guadagna col negozio quell'infame! Cifre da capogiro! Ma lui i soldi li vuole tutti in banca. Lo odio, lo voglio vedere morto ed odio anche quella creatura che è nata! -
A causa di una placenta previa marginale, la madre aveva avuto già, prima di partorire, delle modeste emorragie ma quella che era avvenuta durante il parto era stata spaventosa..
Nemmeno la mia amicizia era valsa a farlo tornare in sé. Veniva a scuola solo per passare il tempo e poi non voleva più uscire né con me né con nessuno.
Passava intere giornate al cimitero vicino alla tomba della mamma e quando fu bocciato ne era stato felice: si era vendicato sul padre che lo avrebbe voluto laureato.


Arrivai a Trieste di mattina. L'aereo, che mi aveva portato fino all'aeroporto “Ronchi dei Legionari” era atterrato puntualmente alle dieci e trenta. Il pullman, con cui la società aerea provvedeva al trasporto dei passeggeri fino all'agenzia vicina alla chiesa di Sant'Antonio Nuovo, percorse la strada costiera da Sistiana a Barcola.
Ammirai lo stupendo panorama, indimenticabile ,del mare visto dall'alto della strada scavata nella costa rocciosa.
Era sempre il mio bel mare dove per tanti anni avevo fatto lunghe e poderose nuotate. Ed anche tutta quella gioventù, che prendeva il sole tra il Castello di Miramare e la Rotonda, mi sembrò che fosse la stessa che avevo lasciato quattro anni prima.
Mi ritornarono alla memoria i versi di quella canzonetta studentesca che faceva: “in mezo al mar xé una colona - Tito xé mona - Tito xé mona” e che si riferiva alla pretesa jugoslava di ammettersi anche la zona A del territorio libero di Trieste.
Chissà perché c'era stata tanta difficoltà, da parte degli Alleati, per restituire la città all'Italia! Eppure lo avevano promesso in modo sacrosanto.
Erano stati quaranta giorni maledetti quelli, da quando le milizie titine erano scese dai monti e l'avevano occupata.
Lerci e pidocchiosi erano arrivati a Piazza Unità ed erano entrati negli antichi palazzi del Municipio, della Prefettura e delle Assicurazioni Generali.
L'antico Caffè degli Specchi era diventato il loro quartiere generale e finalmente avevano imparato ad usare le tazze dei cessi prese, all'inizio, per strumenti idonei al lavaggio dei piedi ogni qualvolta le cassette di scarico dell'acqua venivano messe in funzione.
Vendette tremende si erano consumate in quei pochi giorni e molta gente era stata uccisa barbaramente: “le foibe” erano state riempite di italiani, primi seviziati e torturati. Avevano castrato uomini e accecate donne prima di ucciderli e la scusa era che erano fascisti.
In realtà la maggioranza di quella povera gente col fascismo non aveva mai avuto nulla da spartire. Era sufficiente che uno fosse indicato in mezzo alla strada come “sporco italiano”, perché il suo destino fosse segnato.
Poi erano arrivati i neozelandesi dell'esercito Alleato e finalmente avevamo potuto assaporare insieme, cioccolata e aria di libertà.
Ricordai le giornate di passione quando noi, studenti liceali e gran parte della popolazione, eravamo scesi in Piazza per manifestare contro gli inglesi e gli americani.
C'erano stati molti feriti e qualche morto fra gli studenti ma ciò non aveva frenato il nostro entusiasmo di inneggiare all'Italia e di fare pressione politica sulle decisioni che i governi Anglo-Americani avrebbero preso riguardo al futuro di Trieste.


Era più o meno mezzogiorno quando entrai al Jolly Hotel e quando mi sistemai in una spaziosa camera al terzo piano con veduta sul porto.
Mi feci una doccia rinfrescante e decisi di andare a farmi i capelli nel mio “Barber Shop” a Piazza Goldoni.
Il padrone del negozio mi aveva tagliato i capelli per sedici anni, praticamente da quando avevo la testa piena di boccoli ed ero la meraviglia di tutte le donne che avrebbero fatto carte false per avere i miei riccioli.
Era un po’ invecchiato dall'ultima volta che l'avevo visto, ma era sempre un bell'uomo biondo, alto e asciutto, con limpidi occhi azzurri ed un bel sorriso sulle labbra che rafforzava notevolmente il suo sguardo intelligente.
- Chi si vede! - esclamò non appena ebbi superato l'ingresso della barberia, venendomi incontro con le forbici nella destra.
Per salutarmi aveva piantato in asso la testa dell'uomo seduto nella prima poltroncina vicino alla vetrata.
- Come va Signor Verducci? - chiesi stringendogli calorosamente l'altra mano - e come stanno moglie e figlia? - aggiunsi abbracciandolo.
- No xé mal, - rispose immediatamente in dialetto - ma ti dime, xé vero che te sta’ studiando per diventar dottor? Me lo ga dito tu pare un anno fa quando el xé vignù a Trieste a trovarme! -
Mio padre e il signor Verducci erano stati amici da sempre e mi ricordai delle tante volte che avevamo cenato insieme d'estate, la mia con la sua famiglia, in una delle tante trattorie disseminate sulle colline intorno alla città.
- Si xé vero, - esclamai sorridendo - ma lei la me deve far un taio de cavei che fra un par de setimane farà il giro del Policlinico de Roma! -
- Speta un po’ che finiso 'sto sior, - sorrise - ma guai a ti se stasera non te vien a casa mia a cenar! -
Il signor Verducci aveva una moglie deliziosa, molto più bassa di lui e leggermente grassottella ma tanto dolce e bonaria, che ogni volta che ci riflettevo mi appariva sempre più evidente il motivo per cui egli ne fosse così innamorato.
Avevano avuto due figlie: Licia e Bruna ed ormai erano passati tanti anni da quando Licia era morta di setticemia, a causa di una infezione al tallone provocata da un paio di scarpe nuove. Aveva solo tredici anni ed era stata il mio primo amore.
Una sera di primavera inoltrata eravamo andati a cenare vicino al Faro. La trattoria aveva anche i tavoli all'aperto ed un gran pergolato di rose rosse si affacciava verso il mare.
Dopo cena, mentre i miei e i signori Verducci con la piccola Bruna erano rimasti a tavola a chiaccherare, io e Licia eravamo andati vicino al pergolato a guardare il mare che luccicava per la luna piena che vi si specchiava.
Avevo solo quattordici anni e quando rimanemmo soli le avevo stretto furtivamente la mano mentre il cuore si era messo in tumulto attendendo una sua reazione.
Lei aveva appoggiato la testa sulla mia spalla, io avevo avvicinato la bocca alla sua e l'avevo baciata timoroso.
Mi ero sentito venire meno dall'emozione quando ebbi il coraggio di parlarle.-
- Licia, sei la prima ragazza che ho baciato. Se lo desideri da oggi in poi sarai la mia fidanzata! -
- Guido, - aveva sussurrato arrossendo - sei il mio primo ragazzo. Ti voglio tanto bene! Forse sono cotta di te. -
Nel mese seguente ero andato a sentirla suonare il pianoforte al Conservatorio, nel saggio di fine anno.
Poi la sua morte, in meno di una settimana, nonostante che il padre avesse venduto perfino la propria “Vespa” per procurarsi la penicillina che in quell'epoca era introvabile e preziosa come i diamanti.
Ma tutto era stato inutile ed incredibilmente crudele.


Quando arrivai all'appuntamento con Francesco era già l'ora di pranzo. Faceva caldo e lui mi venne incontro scamiciato, allegro e sorridente come sempre, tenendo al solito per mano Maria.
Gli avevo telefonato appena arrivato, anzi era stata l'unica telefonata che avevo fatto.
- Vuoi venire a pranzo con me? - gli chiesi quando riconobbi la sua voce dall'altro capo del filo - e dal momento che mi trovo in vacanza offro io! -
- Porto anche Maria, - rispose subito, - ti fa’ piacere? -
-Certo, - esclamai ridendo - ci mancherebbe altro che a Trieste si dicesse che Francesco vada in giro senza Maria! -
Da quando aveva sedici anni lui e Maria erano diventati inseparabili, un duo indivisibile.
Lei era bella, alta e slanciata ed era stata corteggiata da mezza Trieste.
Anche Francesco era un bel ragazzo, soprattutto per il viso aperto e senza ombra di malizia, anche se non possedeva un fisico atletico.
Avevano la stessa età e lei lo aveva scelto fra tanti come il suo ragazzo, mentre la marea dei superfusti che le girava attorno, come api su un fiore, era rimasta scornata e meravigliata perché Francesco non aveva fatto praticamente nulla per conquistarla.
Ci abbracciammo e la prima cosa che mi disse fu che l'anno successivo in estate si sarebbero sposati.
- Era ora, - proruppi con gioia sincera - che vi decideste! Se vi farà piacere vi farò da testimone alle nozze, anzi ditemi subito quale regalo desiderate così avrò quasi un anno per mettere da parte i soldi. -
Tutti e due mi sorrisero e Maria disse.
- Guido lo sai che ti vogliamo bene. Saremo felici se verrai al nostro matrimonio anzi lo devi fare perché tu sei un vero amico per Francesco, anche se vivi a Roma. -
- Non sono cose che si possono dimenticare, - proseguì guardandomi dritto in faccia e spalancando i suoi meravigliosi occhi verdi - come gli sei stato vicino quando gli morirono i genitori, aiutandolo a credere nella vita. Ti sarò sempre grata perché mi ricordo bene che, quando dopo la maturità lui lavorava e gli altri si divertivano, eri l'unico che lo ammirava perché contemporaneamente studiava con profitto.-
Al ristorante “da Pepi Granzo” parlammo per ore e così seppi che erano ormai anni che Maria lavorava alle Poste e che il mio amico, anche se un po’ indietro con gli esami, si sarebbe laureato in legge prima del matrimonio.
L'indomani era domenica e passammo l'intera giornata al mare alle “Ginestre” a Sistiana. Il posto mi sembrò ancora più incantevole di quando ero ragazzo, con quelle rocce e con tutto quel verde fiorito intorno. Nuotammo, spingendoci al largo e gustammo sulla nostra pelle quel mare salato e trasparente.
Mi trovavo con loro come se fossero miei fratelli.
Maria si comportava con me semplicemente come era nella sua natura. Francesco sprizzava bontà da tutti i pori.
Lei gli aveva fatto da mamma e da amante contemporaneamente.
Ma la cosa più incredibile che mi fece riflettere di più, anche molti anni più tardi, era la loro perfetta simbiosi ed il fatto che sembravano nati l'uno per l'altro. Il matrimonio non avrebbe cambiato niente e solo poca gente l'avrebbe capito.


Nel grande Bar di Via Carducci il profumo del caffè appena tostato si spandeva in ogni angolo.
Mi ero piazzato sullo sgabello di fronte al balcone ed avevo ordinato due brioches e un cappuccino quando sentii una grande manata sulla spalla. Mi voltai di scatto e vidi Paolo più alto e più grosso che mai.
- Mi venga un colpo, - mi investì ridendo - orco zio... ma che fai da queste parti, puttana vergine... come sono contento di vederti, figlio di cane! -
- Non ebbi il tempo di rispondergli che proseguì.
- Orco zio... ma lo sai che studio anch'io medicina a Padova? -
Era un “Ercole” un metro e novanta per cento venti chili. Il viso pasciuto e roseo non aveva un pelo. Mi aveva oppresso con la sua mole per tutto il liceo perché era il compagno di classe che per tre anni avevo avuto nel banco dietro al mio.
Mi ricordavo ancora i cazzotti che mi appioppava nella schiena quando c'erano i compiti in classe.
- Fatti di lato, orco zio, - mi sussurrava ansimando nell'orecchio - fammi copiare, puttana vergine! -
Aveva un occhio di falco ed il mistero era come riuscisse a vedere, così a distanza, la mia calligrafia minuta e quasi indecifrabile per tutti.
Ma lo spettacolo più divertente era quando veniva interrogato. Vicino alla cattedra, occupava tanto di quello spazio che il professore sembrava un pigmeo. Diventava congestionato in faccia quasi violaceo ed alla fine, quando tornava al banco scornato con un quattro, mi dovevo sorbire per almeno dieci minuti la litania delle sue bestemmie che tirava giù, giulivo ed a velocità supersonica, anche quando era felice e soddisfatto.
Quello di bestemmiare peggio di un turco era il suo modo di esistere. Lo faceva con estrema naturalezza, mai imbarazzato. Non aveva assolutamente il minimo autocontrollo e sembrava che intercalasse il discorso ai moccoli.
- Bravo Paolo, - riuscii a dirgli prima che rincominciasse con i suoi ”orco zio” - saremo colleghi tra qualche anno. Che esame hai fatto per ultimo? -
- Ho finito il biennio, vergine troia, - sorrise - ma io non ho la tua testa e mi accontento! -
- Rimasi con lui gran parte della mattinata e mi volle offrire una gran coppa di gelato da “Zampolli” la più famosa ed antica gelateria di Trieste.
Mentre eravamo seduti e mi raccontava tutto di tutti i nostri comuni amici, osservavo il via vai del passeggio lungo il Viale.
Era la solita sfilata di “belle mule” e di “fusti” che si facevano i muscoli in palestra ed una profonda nostalgia di quei tempi, quando anch'io appartenevo a quella razza, mi prese quasi all'improvviso.
Mi accorsi che il tempo era passato anche per me anche se avevo solo ventidue anni. Mi venne in mente la mia vita così diversa a Roma ed ebbi la sicurezza di aver imboccato una strada dura e difficile.
Nemmeno il pensiero di Marisa riuscì a farmi tornare il sorriso sulle labbra e dopo un paio d'ore salutai Paolo andandomene al mare a nuotare.


Incontrai Cristina all'improvviso, girando l'angolo tra Via Giulia e Piazza Martiri Giuliani. Mancò poco che non le cadessi addosso tanto violentemente ci urtammo.
Avevo passato gli ultimi tre giorni senza programmare niente, facendo quello che mi veniva in testa di fare ogni mattina, dopo aver consumato la prima colazione al Jolly.
Per me, che a Roma sapevo in anticipo quello che avrei fatto non solo nella giornata ma addirittura nel mese, rappresentava il massimo della libertà e dello svago.
Tra gite in barca, con amici che rintracciavo al telefono all'ultimo minuto e serate, organizzate improvvisamente una volta in Birreria, altre al Castello di San Giusto, altre ancora a ballare in qualche Rotonda sul mare, calcolai che nell'ultima settimana avevo dormito non più di cinque ore per notte.
Ero stato anche a trovare, proprio quel giorno, il mio vecchio medico di famiglia: il Dottore Gramb. Anzi l'incontro con Cristina era avvenuto proprio mentre ero uscito, quasi di corsa, dal suo studio in Via Giulia.
- Cristina, dolcezza, sogno di una notte d'estate - le dissi prendendole ambedue le mani nelle mie, - ti ricordi di quanto ti ho rotto le scatole perché tu diventassi la mia ragazza? -
Lei, manifestando senza alcun pudore la felicità di trovarsi di fronte a me, rimase per un attimo a bocca aperta guardandomi in faccia.
- Sono sorpresa, - cominciò illuminandosi con un sorriso così intenso e gioioso che solo lei aveva così naturale, - ma non sei riuscito ad uccidermi con la tua apparizione! -
Cristina era l'unica delle mie conquiste che mi aveva risposto sempre picche quando avevo tentato di passare dal corteggiamento, che accettava volentieri, a fatti più concreti.
- Lo sai, - mormorai preso da un profondo slancio affettuosamente ipocrita - che se tu mi avessi detto di sì la mia vita sarebbe cambiata? -
- Sei sempre il solito chiacchierone, - rispose ridendo.
Un refolo di vento le scompigliò la chioma castana che teneva libera sulle spalle nude e la gonna di seta verde fece l'atto di sollevarsi per mostrare a tutti le sue lunghe gambe.
- Mi sei mancato tanto, anzi direi che mi hai fatto soffrire! Mi ero presa una cotta formidabile ! -
- Non me ne ero accorto, - le dissi di rimando mentre, presala sotto il braccio cominciammo a passeggiare.
- Ma sì, solito fanatico, che te ne eri accorto! Sennò perché mi scrivevi tutte quelle poesie che ancora conservo? -
Quello che mi stava dicendo Cristina era la sacra verità.
L'avevo conosciuta ad una festa alla Ginnastica Triestina e dopo qualche settimana di telefonate, ero andato ad aspettarla ogni giorno all'uscita da scuola all'Istituto Magistrale, da dove l'accompagnavo a casa con le sue amiche del cuore, Paola e Carla.
Mi ero probabilmente innamorato di lei. Cristina mi lasciava parlare quando davo fondo al mio romanticismo. Mi dava ogni giorno un piccolo bocconcino per tenermi sulla corda ma poi, quando cercavo di farla parlare e di capire cosa lei provasse per me, si manteneva sulle generali e non si sbottonava mai completamente.
Era stato proprio una sera di fine luglio, quattro anni prima, che eravamo andati in sei, tre ragazzi e loro le tre amiche, a ballare a Miramare in una notte senza luna ma con un cielo pieno zeppo di stelle.
L'orchestrina aveva suonato solo ritmi lenti perché così avevamo corrotto il maestro direttore del gruppetto orchestrale.
Io e lei avevamo fatto coppia fissa e circuendola con il mio “fascino” ero riuscito a sentirla cedere tra le mie braccia. Sapevo che sarei partito a settembre per Roma e glielo avevo detto.
- Vado a Roma a studiare all'Università ma, se tu dici di sì, sarai lo stesso la mia ragazza. Mi aspetterai per sei anni e poi, quando lavorerò, ti verrò a prendere e ti porterò via con me. Vivremo insieme e tu sarai la mia donna ed io il tuo uomo. -
Cristina mi aveva stretto abbracciandomi teneramente, poi mi aveva risposto.
- Vedi Guido, non è possibile. Sento che in questo momento sei sincero ma domani ci separerà la vita. E meglio così, teniamoci questo bel ricordo di questa notte tutto per noi ed un giorno ci ricorderemo di quanto fummo felici in questo momento. -
Fino a settembre ero tornato ripetutamente sull'argomento ma Cristina era una ragazza troppo intelligente per seguirmi nei miei ragionamenti contorti e troppo seria per lasciarsi andare in un amore senza futuro.


Arrivammo camminando fino al mio albergo.
- Vieni su, - le proposi quando ci fermammo all'ingresso, - ti faccio vedere delle fotografie di Roma che ho nella valigia. -
- Si va bene, - sorrise - vengo ma non per vedere le foto. -
Rimasi stupito per quella decisione improvvisa e quel giorno lei mi diede tutto ciò che avevo sospirato per mesi, quattro anni prima. -











CAPITOLO TERZO






1

La corsia era affollata di parenti ed amici venuti a trovare i loro malati all'ora di pranzo.
La Sister mi chiamò mentre stavo spiegando ad un marito che la moglie sarebbe stata messa in uscita, al più tardi, un paio di giorni dopo guarita.
- Dottore la numero dodici sta’ morendo. Abbiamo già messo il paravento vicino al letto. Se crede vada a darle una occhiata. -
Chiamai la prima infermiera che vidi ed insieme giungemmo in un attimo accanto a quel letto.
Guardai la donna sulla sessantina che rantolava con le palpebre chiuse e tutta bagnata di sudore. La maschera di plastica trasparente, che le portava l'ossigeno, le copriva il naso e la bocca.
Presi il fonendoscopio e lo appoggiai sul petto, mentre l'infermiera stava prendendole la pressione.
Il cuore era fortemente aritmico ma la pressione ancora valida.
Sentii i caratteristici rantoli dell'edema polmonare acuto mentre vidi uscirle dalla bocca della schiuma rossastra.
Le praticai una endovenosa con un coktail di farmaci che avevo ordinato all'infermiera di preparare. Attesi trenta secondi e riuscii a farle un'altra endovenosa questa volta di strofantina.
Ero quasi certo che non avrebbe superato la crisi: presi un bisturi ed incisi per salassarla. Il sangue uscì cianotico a fiotti.
Tre minuti dopo la donna cominciò a respirare più regolarmente ed aprì appena gli occhi.
Rimasi vicino a lei per un'altra mezz'ora poi, quando fui certo che la situazione si era normalizzata, mi alzai dallo sgabello accanto al letto e rivolto alla Sister, che nel frattempo era venuta a vedere, dissi:
- Non muore più, può fare levare il paravento.-


Trovai Marisa a casa mia che mi aspettava. Ero distrutto dopo quel turno allucinante di ventiquattro ore di quella domenica di ottobre.
Erano le nove di sera e Marisa mi aveva atteso perché dovevamo andare a cena insieme.
- Sei stanco, Guido? - mi domandò dopo avermi baciato.
- Forse è meglio che ti cucini qualcosa qui, a cena fuori andremo una altra volta. -
Era sempre la solita Marisa dolce e premurosa.
I miei non si trovavano a Roma perché mia madre era dovuta andare a trovare mia nonna, a Perugia, che si era fratturata un braccio e mio padre era fuori per lavoro.
- Ti ringrazio, - risposi strofinandomi gli occhi arrossati - è stato un turno durissimo! -
Marisa mi accarezzò i capelli e mi mise l'indice sulle labbra per non farmi continuare.
- Ti faccio un piatto di spaghetti aglio ed olio, va bene? -
- Se va bene a te, - sorrisi - non so se sopporterai, più tardi quando ti bacerò, l'odore dell'aglio! -
- Posso sopportare tutto perfino l'odore della cipolla, - esclamò buttandomi le braccia al collo - ora però mangiamo e poi mi racconterai! -
Non volevo tediarla troppo con i miei problemi, ma lei voleva sapere proprio tutto. Conoscevo profondamente il suo carattere, anzi le dicevo spesso che mi sembrava una calabrese, tanto aveva la testa dura e cocciuta, quando le cose riguardavano me.
Il fatto era che i concorsi ospedalieri erano bloccati forse per anni ed io, pur lavorando come assistente a San Giovanni, avevo la qualifica di volontario per cui non guadagnavo praticamente niente se non una piccola percentuale che mi passava il Primario sugli introiti ambulatoriali.
Presi il discorso alla larga dopo cena.
- Certo chi l'avrebbe detto che quella donna si sarebbe salvata; - le raccontai - un edema polmonare acuto in quella fase è difficile farlo regredire. -
L'avevo osservata mentre avevamo cenato in cucina. Marisa era diventata ancora più bella di quando l'avevo conosciuta. Ora la profondità del suo sguardo nel guardarmi unendosi alla bellezza naturale del volto esprimeva sentimenti meravigliosi nei miei riguardi ed un amore pieno, possente e totale.
- Dai che ti fa’ piacere di essere lodato! -. sorrise maliziosamente in quel modo che faceva spesso quando era soddisfatta.
- Ma d'altronde vuoi forse pretendere di meno da uno che a ventisei anni si è laureato con un “cento dieci e lode” ed è già specializzato in cardiologia? -
Marisa sapeva adularmi e nello stesso tempo pungolarmi con le sue parole.
Per lei era ovvio che io dovessi essere bravo anzi bravissimo.
- Si va bene lasciamo correre, - le dissi - ma ti sembra giusto che non si sa nemmeno lontanamente quando faranno i concorsi ospedalieri? Ho parlato ieri sera col Primario e mi ha detto che devo avere pazienza e farmi le ossa in corsia. Qualche soldo me lo passerà lui direttamente ma io non vedo sbocchi professionalmente! -
Marisa mi guardò e vide che la mia fronte si era aggrottata e che i miei occhi esprimevano delusione.
- Non ti preoccupare, - finì per esclamare,- fra sei mesi mi prendo la laurea anch'io, la ciuccia fuori corso della Facoltà di Lettere e lavorerò in una scuola privata con le raccomandazioni di mio padre il “Generale di Brigata”. I soldi li guadagnerò io, tu non pensarci! -
Con quest'ultima battuta, sui suoi futuri guadagni, era riuscita a farmi ridere di cuore e poi era divertente pensare che lei avrebbe preso uno stipendio ed io no.
Mi faceva sorridere anche quando si dava della somarella. Non era vero che fosse così indietro con gli studi; era sì fuori corso di due anni, ma le mancavano solo due esami e la tesi. Intanto la sua media viaggiava intorno al venticinque e sapevo bene che, a causa mia, aveva sfruttato solo per il cinquanta per cento la sua capacità.
Marisa, quando parlava dei propri studi, aveva in mente solo il confronto con me. Dei suoi colleghi e colleghe non le importava niente. Era convinta di essere stata un mezzo fallimento all'Università perché la pietra di paragone ero io.
L'aiutai a lavare i piatti ed a mettere in ordine la cucina, poi la presi sulle ginocchia cullandola per qualche minuto e le mormorai in un orecchio.
- Adesso facciamo i bravi bambini. Io ti accompagno fino a casa e tu te ne vai a nanna nel tuo letto. Ci vedremo domani verso l'una. Ti vengo a prendere in Facoltà; recupereremo rapidamente ciò che abbiamo perduto oggi sotto il profilo sessuale. -


Quando me ne andai a letto piombai in un attimo in un sonno profondo, ma l'indomani alle sei ero già in piedi.
Alle otto ero di nuovo in corsia però il mio turno, di lunedì, durava solo fino a mezzogiorno.
Avevo lasciato da tre mesi l'Istituto di Clinica Medica dell'Università, quindi subito dopo la specializzazione in cardiologia.
Ero stato per tre anni vicino al miglior Aiuto del Direttore.
Ai primi di luglio mi aveva preso in disparte e mi aveva detto.
- Sentimi bene! adesso che ti sei specializzato non rovinare tutto il lavoro che finora hai fatto con ottimi risultati.
- La tua carriera, amico mio, - aveva proseguito - è qui in Clinica. Hai già fatto quattro lavori scientifici pubblicati con il tuo nome. Ti prometto, che se rimarrai, a trenta anni ti farò prendere la libera docenza. -
Non avevo creduto alle mie orecchie. Lo avevo ringraziato ed avevo promesso che sarei rimasto molto volentieri.
- Diventerò professore, - pensai - il sogno della mia vita! -
Tre giorni dopo quell'uomo, che era stato per me come un padre, moriva in un incidente stradale.
Non avevo altre protezioni o amicizie che contavano in Clinica ed allora avevo preso la decisione di lasciarla e di entrare all'Ospedale San Giovanni dove conoscevo il Primario di Medicina.
Avevo sperato che con i concorsi avrei fatto ugualmente la carriera ospedaliera, ma dopo poco tempo avevo saputo, in modo assolutamente sicuro, che avrei dovuto attendere anni per partecipare al concorso di assistente effettivo in cardiologia per il momento bloccato.
Ero fortemente combattuto dal desiderio di tornare in Clinica all'Università, ma andandomene m'ero tagliato quasi ogni possibilità di rientrarvi.
- Se non devo guadagnare niente, - pensavo - tanto vale che continui il lavoro di ricerca e di studio di cui sento fortemente la nostalgia. -
Avevo una mezz'ora di tempo libero prima dell'appuntamento con Marisa e pensai di andare, dopo essere uscito dal San Giovanni, al Policlinico.
Ero appena entrato nell'androne dell'Istituto, che mi imbattei con la dottoressa Virgili “l'amica” di un Aiuto.
La chiamavano tutti “la spirocheta pallida” tanto era scialba, bianca di carnagione e di un biondo slavato. Cosa ci trovasse di bello o di interessante il Professore, nessuno era mai riuscito a capirlo.
Una cosa si sapeva con certezza: aveva le mani in pasta con la politica e nessuno l'avrebbe mai spiazzata di là mentre lei si faceva fare le pubblicazioni da altri a cui non lavorava assolutamente, ma sulle quali appariva sempre come primo nome il suo.
Parecchie volte, in passato aveva cercato di attaccare bottone con me. Era chiaro che le piacevo e che aveva valutato sufficientemente quanto avrei potuto essere a “letto” più valido del “suo” professore.
La odiavo cordialmente e mi stava particolarmente sullo stomaco l'aria di super donna che assumeva sempre nei rapporti con medici e studenti, facendosi forte del fatto che tutti sapevano che era anche nipote di un ministro.
- Come te la passi Guido, - cominciò bloccandomi, mentre avevo cercato di scantonarla ignorandola - è un bel po’ che non ti si vede in Clinica.-
Mi aveva sempre dato del tu ed in effetti la cosa era più che normale dal momento che sicuramente aveva oltrepassato i trentacinque e mi considerava un pivello e soprattutto un fottuto sgobbone.
- Così e così, - le risposi tentando di essere il più gentile possibile - ma preferirei rientrare in Clinica anziché lavorare al San Giovanni. -
Me n'ero uscito con quella frase senza calcolare l'effetto che avrebbe avuto su di lei dal momento che non era mia intenzione chiederle nessun favore.
Quando però vidi che si stava interessando a me più con gli occhi che con le parole, decisi lì per lì di sondare quali possibilità reali ci fossero, magari con la sua sicuramente interessata collaborazione, per riavere il mio posto di ricercatore.
- Chissà quanti lavori ha in pentola! - sorrisi adulandola.
- Certo parecchi, - mi rispose come al solito con aria soddisfatta, - anzi non mi dispiacerebbe per nulla che tu collaborassi con me e con il Professore! -
La furbastra aveva lanciato l'esca ma non abboccai al suo amo. Feci finta di non aver capito la proposta ed incalzai.
- Ora come ora avrei bisogno di studiare qualche cosa di nuovo poi, se trovassi qualcosa di interessante, lei sarebbe la prima a saperlo e potremmo discuterne con il Professore.-
- Allora, - mi fece accondiscendente - vieni pure da me domani. Ne parlerò con il Professore e vedrai che ti farò avere uno spazio completamente tuo!-
Era fatta, lo scopo l'avevo raggiunto con facilità. Le avevo fatto intendere che la consideravo un'amica ma nello stesso tempo ero riuscito a sganciarmi, almeno momentaneamente, dalle sue grinfie. Non c'erano dubbi che mi avrebbe sistemato per il meglio ed era altrettanto sicuro che in seguito avrei dovuto pagarle questo favore.
Non ci pensai. Mi interessava il presente e non il futuro: al momento opportuno avrei saputo cavarmela.


Marisa mi aspettava sotto la Facoltà di Lettere. Era impaziente e un po’ imbronciata perché erano più di venti minuti che stava passeggiando avanti e indietro.
- Lascio il San Giovanni e ritorno in Clinica! -, esclamai appena le fui vicino.
- La dottoressa Virgili mi ha appena garantito che mi farà lavorare alla ricerca e quello che più conta con una certa libertà di manovra e non direttamente alle sue dipendenze. -
Marisa mi guardò stupita. Le si leggeva nello sguardo, contemporaneamente, la contentezza per la notizia ed il disappunto che artefice di ciò fosse proprio quella bionda slavata che aveva visto un paio di volte in quelli anni e di cui conosceva per filo e per segno l'arrivismo ed il cinismo morale.
- Non sarà mica, - sospirò dopo qualche secondo - che la bionda è in cotta per te? -
Il suo istinto femminile come al solito andava al sodo.
- Non ti fare fregare da quella, - continuò prendendomi sotto braccio - e ricordati che quel tipo di donna non fa’ niente per niente! -
Quando la baciai, per farle capire che tutto ciò che aveva detto io lo sapevo perfettamente, sentii quanto morbide e calde fossero le sue labbra e pensai che mai, per mia colpa, avrei perduto Marisa per correre dietro a fantastiche chimere.
- Decidi tu dove andiamo a pranzo, - le dissi dopo averle accarezzato la fossetta minuscola che aveva sul mento - io proporrei di andarcene a Castel Gandolfo. -
Mi comportavo sempre così con lei: le dicevo di scegliere, poi facevamo quello che mi andava di più a genio.
Lei come al solito mi rispose di sì, aggiungendo sorniona.
- Non sarebbe il caso che la prossima volta ti risparmi di chiedermi cosa voglio? -
Eravamo felici insieme. Sentivo che Marisa era una ragazza che mi completava in tutti quei lati del carattere in cui ero maldestro. Aveva un forte potere di sintesi sulle cose e mentre io talvolta mi perdevo nei particolari, lei non scordava mai il profilo generale di qualsiasi disegno sia che si trattasse di problemi che ci riguardavano individualmente oppure di situazioni impreviste che richiedessero una rapida analisi.
Ero assolutamente una frana, per esempio, quando si trattava di far quadrare il mio piccolo bilancio economico.
Marisa aveva una piccola rendita mensile che le derivava dalla nonna paterna e questa equivaleva a quanto io riuscivo a guadagnare in un mese. La differenza era che io non riuscivo a risparmiare nemmeno un soldo, mentre lei, pur vestendosi e facendo alla “romana” con me quando spendevamo per divertirci o per passare il tempo insieme, metteva da parte su un libretto di risparmi un tot, al mese, fisso.
Tra le altre cose mi credevo piuttosto furbo e mentre avevo pagato molte volte in maniera salata questa mia presunzione, a lei, che pareva il ritratto dell'ingenuità, nessuno era mai riuscito a metterla nel sacco.
Quando ciò accadeva era perché l'aveva voluto e così le delusioni io le coltivavo come un contadino disordinato il suo orticello, lei, se capitavano, le aveva sempre previste.
Mettendosi con me Marisa aveva fatto una precisa scelta di vita con tutti i rischi che questa comportava; al contrario io, pur adorandola, non avevo mai riflettuto sufficientemente su cosa avrebbe comportato lo stare insieme per la mia professione e per la mia esistenza.






2

Quando vidi il lago dall'alto della strada panoramica mi sembrò un grande occhio verde , cupo , triste e desolato.
La giornata non era delle migliori; il cielo, coperto da un denso strato di nubi immobili per la completa mancanza di vento, pareva una colata di piombo fuso. Minacciava pioggia ed a dire che Marisa ed io avevamo sperato tanto in una bella giornata ottobrina soleggiata.
La mia “600” scendeva lentamente verso la trattoria “Nido sul Lago” e dal finestrino aperto il silenzio penetrò nell'abitacolo dandoci una sensazione di pace ma nello stesso tempo di disagio nervoso.
Appoggiai la mano destra sul suo ginocchio sinistro scoperto e volsi lo sguardo. Più tempo passava e più mi sentivo completamente innamorato di quella ragazza. Era come se non potessi più farne a meno; avevo bisogno di scrutarle la fronte, gli occhi, la bocca e di sentire il contatto fisico con il suo corpo, di udire la sua voce.
Non riuscivo a stare nemmeno un giorno senza vederla e sentivo che mi era più necessaria del pane e dell'acqua; ciò nonostante era difficile che le dicessi parole dolci ed appassionate. Succedeva raramente e soprattutto quando facevamo all'amore. In quei momenti perdevo completamente ogni freno inibitore e solo allora Marisa sentiva dalla mia bocca quelle parole che forse avrebbe voluto udire anche in altre circostanze.
Fermai la macchina nel giardino-posteggio della trattoria e lei pose delicatamente il capo sulla mia spalla, quasi non volesse infrangere quell'atmosfera irreale che si era creata.
- Guido,- mormorò sottovoce - perché non mi dici più, come facevi una volta, che mi vuoi bene? -
Eravamo stati silenziosi, mentre percorrevamo la strada, per un buon quarto d'ora e la domanda di Marisa mi trovò impreparato.
- Perché dovrei dirtelo, - esclamai ridendo - non c'è ne bisogno. Tu lo sai cosa provo per te; perché vuoi che ti dica una frase così stupida? -
Marisa sollevò il viso e mi guardò dura negli occhi.
- Come fai, - mi disse con tono freddo e risentito - a dire certe corbellerie. Lo sai che noi donne abbiamo bisogno di sentirci dire anche “le frasi stupide”, oppure pensi che è sufficiente che tu me le dica solo in certi momenti...? -
La conversazione stava prendendo una brutta piega perché, conoscendomi, ormai era chiaro che avrei mantenuto per partito preso la mia posizione.
Non mi costava niente dirle ciò che realmente sentivo traboccare dal mio cuore ma non l'avrei mai detto, a costo di qualsiasi conseguenza, per non dargliela vinta.
Cercai di cambiare argomento, mentre ancora non eravamo usciti di macchina.
- Che ne dici se pranzassimo, - esclamai dopo una breve pausa - non mi dire che non hai fame!
- Non scendo, - mi rispose mentre un lieve rossore le infiammava le guance - se non mi dici che mi vuoi bene! -
- Andiamo Marisa, - replicai subito - non fare la bambina capricciosa. Ne parleremo dopo di questo argomento, ora scendiamo! -
- Non hai capito niente - cominciò tra i singhiozzi e mordicchiandosi il labbro inferiore - tu mi tratti spesso come un oggetto e questo non lo sopporto . Ora riportami subito a Roma che voglio andarmene a casa! -
Tutto il programma stava andando all'aria per un mio puntiglio e dopo averla pregata ancora una volta, non so perché urlai.
- Non ti voglio bene, vengo con te perché mi fai comodo ed anzi ti dico che cercherò per un bel po’ di starti lontano. -
Sapevo che la stavo offendendo e ferendo ma un sadico piacere momentaneo non mi faceva ragionare più.
Impiegai pochissimo tempo per tornare indietro tanto avevo lanciato la “600” alla massima velocità. Sotto casa sua non scesi nemmeno e la vidi allontanarsi correndo verso il portone.
Mi prese, subito dopo, una crisi di sconforto. Avevo volontariamente rovinato una giornata di riposo sia per me che per lei. Io poi, che di ore libere ne avevo così poche, mi ero comportato da ottuso imbecille.
Pensai tra me e me.
- Nemmeno uno scaricatore di porto, con tutto il rispetto, avrebbe agito così. Se le avessi detto un decimo di quello che sento mi sarebbe saltata al collo e mi avrebbe ricoperto di baci! -
Feci una seconda considerazione, la più amara.
- Ma che bravo medico sono! Che fine psicologo! Me l'aveva detto ieri che si trovava in periodo premestruale ed allora..., quanto mi hanno dato nell'esame di Endocrinologia? Trenta! Altro che trenta, mi dovevano bocciare; è possibile che non ho pensato che Marisa si trovava in un momento ormonale delicato e che in ogni caso la dovevo accontentare? -
Infine, ultima considerazione, tutto era stato inutile.
Era chiaro che qualsiasi fossero le conseguenze di quella maledetta gita al lago, avrei dovuto, per onestà, fare marcia indietro e spiegarmi bene affrontando di nuovo quella stessa discussione.
Dovevo rivederla al più presto e intanto sicuramente le avevo provocato un grosso dolore e me ne dispiaceva, ricordandomi quante volte era stata con me generosamente dolce e disposta a perdonare ogni mia debolezza anche quando, di umore non certo allegro, ero stato sgarbato nei suoi riguardi.






3

Mangiai un paio di tramezzini al Bar di Piazza Euclide e bevvi una birra.
Intanto la pioggia aveva cominciato a rovesciarsi con violenza lavando la città e snebbiandomi il cervello.
Cercai di dormire un'oretta a casa ma non ci riuscii ed alle cinque mi ritrovai a suonare il campanello di Marisa. Ero sicuro che sarebbe venuto ad aprirmi la madre, l'unica che non usciva mai di pomeriggio.
Mi trovai di fronte il generale, alto ed asciutto, con quei baffetti alla francese che mi avevano sempre fatto sorridere quelle poche volte che c'eravamo incontrati.
- Giovanotto, - mi disse non appena ebbe aperto l'uscio di casa - che diavolo hai combinato a Marisa? -
Era la prima volta che sentivo quell'uomo interessarsi dei problemi della figlia e per un attimo ebbi il timore che mi avrebbe cacciato di casa senza farmi dire mezza parola.
- Niente di particolarmente grave, - risposi assumendo un atteggiamento più professionale possibile - Marisa non si è sentita molto bene e quindi la ho accompagnata a casa prima di quanto avessimo previsto di rientrare. -
- Ma cosa mi racconti, - esplose lui con fare altrettanto professionale -è entrata in casa in lacrime e si è chiusa da allora nella sua stanza! Non vuole vedere nessuno, nemmeno la madre e sta’ singhiozzando che Dio solo sa! -
- Mi faccia per cortesia parlare con lei, - dissi assumendo questa volta un tono rispettoso e vagamente implorante - vedrà che tutto si agiusterà.-
Mi stavo accorgendo che il generale non era il solito militare di carriera con gli occhi foderati di prosciutto per quanto riguardava le faccende di casa. Probabilmente aveva deciso, già da parecchio tempo, che prima o poi mi avrebbe fatto un discorsetto molto chiaro.
- Siediti di fronte a me! -
Nel dirmi così mi indicò la grande poltrona a fiori che faceva il paio con l'altra situata accanto al caminetto, in marmo dalle venature amaranto e che era quella delle due che riceveva direttamente la forte luce del grande lampadario di cristalli di Boemia che aveva acceso.
Ubbidii senza replicare e mi ritrovai sprofondato nella poltrona, con quella luce in faccia fatta apposta per un interrogatorio di terzo grado.
- Forse, - cominciò sedendosi pure lui, - avrai pensato finora che io sia cieco, sordo ed arteriosclerotico. Ti sei sbagliato. Se ho chiuso gli occhi e se ho fatto finta di non capire è perché Marisa rappresenta ciò che di più prezioso possiedo. -
- Non voglio neppure sapere, - proseguì fissandomi negli occhi- quello che mia moglie può averti raccontato riguardo ai nostri rapporti in questi anni. Non ha importanza. -
- E molto importante invece, - scandì lentamente le parole - che tu sappia che io conosco tutto di quanto c'è stato e c'è tra te e mia figlia e che non ti permetterò più di comportarti in modo disonesto con lei ! -
Non ero riuscito ancora ad aprire bocca, ma quando sentii le sue ultime parole mi raddrizzai sulla poltrona ed esclamai risentito.
- Non vorrei, caro generale, che questo colloquio scivolasse sulle offese. Io rispetto la sua famiglia e poi, visto che sa tutto, deve sapere che considero Marisa la mia ragazza e che lei è altrettanto preziosa per me di quanto lo sia per lei! -
- Non posso garantirle,- continuai con voce calma e con tono sincero - che ci sposeremo . Queste sono cose che non si possono programmare. Tuttavia le posso dare la mia parola che i sentimenti che provo per sua figlia sono sinceri ed onesti! -
Il volto del generale esprimeva, contemporaneamente, severità e preoccupazione e, quando replicò, capii cosa lo aveva ferito.
- Non voglio che Marisa soffra per causa tua e poi dimmi, cosa ti costava essere un po’ diplomatico chiedendomi il permesso, che non ti avrei negato, di frequentare questa casa? Non sono un padre menefreghista ed apatico come hai creduto. -
- Ti sembra possibile, - continuò rimproverandomi aspramente - che non ti è passata per la testa, nemmeno lontanamente, l'idea di regalarle un piccolo anello di fidanzamento? -
Quell'uomo aveva ragione. Avevo oltrepassato il limite della buona creanza e dell'educazione formale.
Uscivo con la figlia da anni come se mi appartenesse di diritto e m'ero completamente arrogato la facoltà di fare da padrone in casa d'altri.
Stavo per dirgli tutto ciò quando Marisa apparve in fondo alla sala in una vestaglietta di cotone rosa.
Aveva gli occhi arrossati ma erano più belli che mai perché le lacrime li avevano resi più grandi e più tristi.
Mi alzai di scatto e le corsi incontro. Le presi le mani delicate e le baciai di slancio con passione di fronte al padre.
Lei mi accarezzò il viso mentre un grosso nodo alla gola mi impediva di parlare.
- Papà, - sussurrò guardandomi - amo Guido con tutta me stessa e mi devi permettere di gridare a tutti questo mio amore. Sono tua figlia e ti prego di rispettare i miei sentimenti. -
Il generale si alzò pure lui dalla poltrona, ci abbracciò tutti e due ed esclamò.
- Ragazzi che Dio vi benedica e che vi protegga. -
Poi uscì dalla stanza.











CAPITOLO QUARTO






1

In poco più di sei mesi, senza concedermi che brevissime giornate di riposo, ero riuscito a preparare altri quattro lavori.
La dottoressa Virgili era stata di parola: le avevo proposto di indagare su alcuni rari e gravi disturbi del ritmo cardiaco e lei mi aveva permesso di consultare il materiale elettrocardiografico che il Professore aveva nel suo archivio personale.
Volevo dimostrare l'etiologia reumatica di quelle anomalie e dovevo recarmi ogni giorno ad Anatomia Patologica per leggere i referti delle autopsie di pazienti deceduti per quelle cause e per esaminare i reperti istologici che erano stati praticati su di essi .Una parte di tali malati era sopravvissuta perciò dovevo invitarli, cercando di rintracciarli in ogni parte d'Italia, a tornare per un controllo accurato in Clinica.
Il patto era che ogni pubblicazione avrebbe portato come primo nome dell'autore il mio e come secondo quello della dottoressa Virgili.
Per riordinarle e darle alla stampa ero rimasto tutta la notte in Clinica a lavorare; ero felice per la riuscita di quel grosso sforzo di ricerca ed attesi che la dottoressa Virgili arrivasse alle otto per consegnarle tutto il materiale.
Alle otto e dieci lei entrò nel piccolo studiolo che mi aveva messo a disposizione e salutandomi disse.
- Allora Guido complimenti vivissimi. Hai lavorato ottimamente ed i risultati che hai ottenuto saranno pubblicati anche su riviste internazionali -
Era fresca e riposata e quella mattina si era vestita anche con un certo gusto, cosa non abituale in lei. Mi si avvicinò di più e baciandomi sulla bocca esclamò.
- Questo te lo devo ma ben altro ti dovrò se mi ascolterai! -
La guardai perplesso. Non che non mi aspettassi una uscita di quel genere ma, osservandole gli occhi, scoprii nel suo sguardo qualcosa che non mi risultò chiara.
- Sono qui per ascoltarla, - dissi curioso - quale sarebbe la sua proposta?
- Sentimi bene Guido, -sciorinò velocemente - sei ancora giovanissimo...,basta che tu rifletta su quanti tuoi coetanei ancora non sono laureati ed hai me per amica!-
- Fammi un favore, - proseguì melliflua andando subito al nocciolo - mettiamo il mio nome come principale autrice dei lavori ed io ti faccio lavorare ogni giorno dalle quindici alle diciassette come cardiologo nella clinica privata del Professore. Finalmente guadagnerai bene perché ti farò dare un lauto stipendio! -
La stanchezza che avevo accumulato in quell'ultima settimana non mi fece subito realizzare ciò che mi stava proponendo.
Mi lasciai andare sulla sedia della scrivania e prima di risponderle ebbi il tempo di riflettere.
- Altro che andare a letto con questo sgorbio! E più furba di quanto sospettassi. Certo mi ha preso sul punto più debole. Qualche cosa devo pur guadagnare se voglio andare avanti; non posso continuare a vivere senza il becco di un quattrino.-
Lei mi stava guardando con curiosità e si era seduta, nel frattempo, sull'angolo della scrivania vicino a me.
Attese un paio di minuti in silenzio, poi incalzò.
- Tra sei mesi prendo la libera docenza, se mi aiuti, ed allora vedrai cosa farò per te! -
Avevo quasi voglia di vomitare ma mi controllai ed alzatomi in piedi le feci.
- Dottoressa va bene. Faremo così ma sappia che ho depositato presso un notaio le fotocopie di questi lavori già da una settimana. Mantenga la sua parola ed andremo perfettamente d'accordo! -


Quando entrai per la prima volta nella casa di cura “Villa Eduarda” sulle pendici di Monte Mario, rimasi abbagliato dall'eleganza di tutto ciò che mi circondava. Il lusso prorompeva da ogni ambiente ed ogni particolare dell'arredamento portava sicuramente la firma dei più famosi arredatori della Capitale.
Appena oltrepassato l'ingresso, con porte di cristallo ad apertura automatica, mi sembrò di entrare in un albergo extra lusso.
Alla ricezione trovai una bionda altissima che, dopo aver chiamato al telefono un'altra giovane altrettanto bionda ed altrettanto alta, mi volle accompagnare nel reparto cardiologico.
Mi camminava davanti flessuosa ed elegante come una indossatrice e quando fummo giunti, dopo aver attraversato diversi corridoi tutti coperti da mochets verde, mi presentò all'infermiera addetta alla mia persona dicendomi.
- Questa è la signorina Grazia. Per qualsiasi cosa di cui avrà bisogno si rivolga a lei. Buongiorno. -
Tre quadri d'autori erano appesi alle pareti e la scrivania era quanto di più sofisticato ci potesse essere sul mercato.
Poltroncine di velluto celestino erano sistemate un po’ dovunque e dietro la scrivania troneggiava una favolosa libreria zeppa di volumi rilegati in pelle.
L'infermiera, una brunetta dall'accento tedesco, mi aiutò ad infilarmi un camice immacolato.
- Dottore, - domandò sorridendo - ha bisogno di altro? -
Quella frase gentile mi fece ridere di cuore e non potei fare a meno di esclamare.
- Sì ho bisogno dei pazienti, se ce ne sono...! -
Lei inforcò un paio di occhiali da vista, prese un foglietto dalla tasca del suo camice e lesse i nomi di quattro persone che avevano l'appuntamento. Poi mormorò sottovoce.
- Quando vuole cominciare con le visite me lo comunichi con quel telefono rosso. Io aspetto fuori e mi raccomando ogni visita non deve superare la mezz'ora, compreso il tempo che abbiamo a disposizione per battere a macchina le sue prescrizioni. -
I quattro pazienti che visitai quel primo giorno erano casi di normale amministrazione, anzi pensai che fosse ben augurale non essermi trovato di fronte a situazioni cliniche complesse.
Tuttavia per tutto il mese che seguì, nei cinque giorni alla settimana che mi recavo a “Villa Eduarda”, osservai che più del novanta per cento di coloro che esaminavo erano soggetti praticamente sani e capii che la clinica lavorava soprattutto con gente danarosa che voleva essere tranquillizzata riguardo alle proprie condizioni di salute.
C'erano stati pochi casi importanti ed il mio compito era allora, come mi era stato ordinato di fare dalla dottoressa Virgili, di consigliare il ricovero per ulteriori accertamenti; a quel punto subentrava il Professore che prendeva in mano la situazione.
- Sai Guido, - mi aveva raccomandato la dottoressa - non devi farti eccessivi scrupoli di coscienza. Questa è gente dello spettacolo, attori ed attrici del cinema e della televisione, giornalisti di nome ed altri ancora che non sanno nemmeno a quanto ammonta il loro patrimonio. -
- Con questi,- proseguì assumendo un tono severo - non devi usare il metro della corsia. Un piccolo errore di valutazione ci costerebbe caro perché è gente capacissima di agire legalmente contro di noi, se anche un semplice particolare della loro salute non viene diagnosticato e curato. Pagano profumatamente per questo e noi stiamo al giuoco.-
Ascoltai in silenzio. La cosa non mi era molto simpatica ed, in breve, mi accorsi che quel mondo era molto diverso da quello che fino allora avevo frequentato.
Non faceva differenza se si trattava di uomini o donne. I più erano gente che rincorreva una carriera densa di successi ma anche piena di stress emotivi.
Io che non avevo quasi mai prescritto ansiolitici, divenni un esperto in materia ed era evidente che l'indirizzo terapeutico era esatto dal momento che l'eliminazione dell'ansia comportava benefici effetti su molti di costoro, spaventati dall'idea dell'infarto miocardico o dalle conseguenze che avrebbero avuto per eventuali trombosi o emorragie cerebrali.
Visitavo tutti con grande scrupolo dopo averne raccolto la storia, davo consigli dietetici e norme di vita e prescrivevo pochi farmaci i più essenziali; facevo insomma una seria prevenzione e lo dicevo.
Vidi con piacere che le mie parole convincenti e garbate ed il mio modo di essere medico avevano successo, tanto che dovetti constatare che la clientela aumentava e che la lista di attesa per essere visitati da me si allungava incredibilmente.
Fu la dottoressa Virgili che, un paio di mesi dopo, mi propose di prolungare il mio lavoro nella casa di cura di un'ora al giorno.
Accettai.
Lo stipendio mi fu raddoppiato ma dopo poco mi accorsi che, tra la Clinica Medica e “Villa Eduarda” il tempo diveniva avaro e tiranno e riuscivo a vedere Marisa sempre meno.






2

- Cosa devo fare dottore, - cominciò non appena si fu seduta - con questo mio pazzo cuore ?
Nel farmi questa semplice domanda, la giovane donna si toccò il seno e spalancò gli occhi verdissimi fissandomi.
Mi era capitata davanti in un momento di noia. Era lunedì e la prima visita che avevo fatto a “ Villa Eduarda “ mi aveva profondamente depresso.
Il solito uomo d'affari sanissimo che non aveva fatto altro che esibirmi precedenti elettrocardiogrammi a riposo e da sforzo tutti negativi e che moriva dalla paura di fare la fine dell'amico del circolo del golf stroncato da un infarto.
Inoltre, la domenica pomeriggio, avevo bisticciato con Marisa che mi aveva accusato di trascurarla troppo e di inseguire aleatori successi professionali con gente del tipo di quella che frequentava “Villa Eduarda “.
- Una mia amica, - continuò la giovane dagli occhi di smeraldo - mi ha detto che lei è bravissimo e che ha risolto il suo caso. -
Aveva dei corti capelli castano chiari, quasi biondi ed un naso piccolo e dritto con delle narici stagliate alla perfezione. La bocca era disegnata da un rossetto rosso tenue ed il maquillage delle palpebre e delle sopracciglia era certamente opera di qualche famoso visagista.
- Che disturbi avverte, - domandai dopo aver osservato che portava all'anulare sinistro un grosso brillante di non meno di tre carati - mi dica quando sono cominciati e se ha mai fatto visite specialistiche. -
- Altroché, - rispose con voce suadente e chiara - tutti i migliori cardiologi di Milano mi hanno detto che sono sana ma io sto male e nessuna cura mi ha guarita. -
Per quanto fosse piacevole e bella, pensai che la nuova paziente fosse la solita nevrotica troppo presa dall'esibire la propria avvenenza che un caso clinico interessante, ma dopo averla visitata dovetti ricredermi.
Presentava una tachicardia extra-sistolica imponente pur non essendovi reperti obbiettivi di danni valvolari o miocardici.
Sul lettino avevo notato un corpo stupendo ed il seno era quanto di più deliziosamente femminile avessi mai visto.
Aveva trent'anni, non era sposata, né aveva figli e mi spiegò che quelle palpitazioni risalivano almeno a cinque anni indietro quando aveva cominciato a prendere sonniferi ed a bere qualche whisky di troppo.
- Possibile, esclamai adirato - che nessuno le ha mai detto che tutto dipende da quelli? -
- Mi perdoni dottore, - mormorò sottovoce - non lo ho mai detto ai medici per non fare sapere gli affari miei. Ma con lei è un'altra cosa, molto più semplice e facile, perché mi ha ispirato immediata fiducia. -
- Sospenda immediatamente i sonniferi e l'alcool, e vedrà che tra due settimane starà benissimo. Poi venga a trovarmi e ci faremo quattro risate. -
Con questo ordine perentorio la salutai e lei mi strinse la mano con calore ed accomiatandosi aggiunse.
- Avrà al più presto mie notizie. Le auguro una buona giornata! -


Esattamente due settimane dopo fui svegliato alle sei di mattino dallo squillo del telefono a casa mia.
- Dottore mi riconosce? - chiese una voce femminile che sul momento mi parve assolutamente anonima.
- Sono la paziente dal cuore pazzo, -aggiunse subito dopo - quella dei sonniferi. -
-Certo, - risposi con voce assonnata, dopo essermi ricordato della giovane donna dagli occhi terribilmente verdi - sta’ male? -
- Assolutamente no, - fece ridendo dall'altro capo del filo - anzi mi sento tanto bene che ho pensato di non venire in clinica oggi pomeriggio. -
- Potrebbe venire lei, - aggiunse allegra - a controllarmi con comodo a casa mia questa sera a qualsiasi ora. La prego mi dica di sì e brinderemo insieme alla sua perfetta diagnosi! -
Aveva avuto il potere di svegliarmi contagiandomi la sua fresca spensieratezza ed il suo buonumore, perciò accettai annotandomi l'indirizzo.
Alle nove mezzo di sera parcheggiai la mia nuova Volkswagen davanti al numero 22 di Via delle Montagne Rocciose e suonai al video citofono del portone.
- Si accomodi, - disse una voce con inflessioni dialettali venete - la signora Valeria la sta’ attendendo. -
Non avevo mai visto un attico simile se non al cinema. Sembrava la copia esatta di una casa da miliardari a Manhattan tanto gli arredatori erano stati attenti ai particolari di comodità e di lusso propri degli americani.
Il salone soggiorno era immenso e si affacciava su una terrazza enorme, un vero giardino pensile, con una minuscola piscina di quattro metri per quattro.
Valeria mi venne incontro in abito da sera di velluto nero con al collo una collana di coralli rossi. Allungò verso le mie, entrambe le mani bianche ed affusolate e disse.
- Mi scuso per questa mattina, anche per un medico le sei sono sempre un'ora antelucana, ma non stavo più nella pelle per parlarle e per rivederla. Anzi devo confessarle che non ho assolutamente bisogno di essere visitata e che il mio invito è stato una scusa perché voglio cenare con lei. -
Rimasi leggermente seccato da quel modo di agire, ma un secondo dopo pensai che sarebbe stato gradevole passare la serata con quella strana donna.
- Va bene le scuse sono accettate, -sorrisi - ma almeno si faccia prendere il polso, è una questione di principio! -
Lei allungò il braccio verso di me e ci sedemmo sul grande divano vicino al caminetto.
- Prenda pure il mio polso, - esclamò ridendo - vedrà che orologio svizzero di precisione è diventato! -
Era proprio così: il ritmo e la frequenza erano perfetti ed io sospirando le dissi.
- Fossero tutti così semplici i casi che vedo e così innocentemente benigni.
Purtroppo, con la nostra professione, siamo quasi sempre in contatto con gente molto sofferente. -
Non avevo voluto offenderla con quelle mie parole ma lei capì che erano un rimprovero sereno. Si accostò e mormorò.
- Diamoci del tu e facciamo come se fossimo vecchi amici che hanno deciso di passare insieme una serata lontani dai guai della vita. -
C'era in quella donna qualcosa che mi incuriosiva molto di più del suo fascino femminile . Mi sembrava alla ricerca di una serenità che, pur nel benessere in cui viveva, non aveva mai raggiunto appieno oppure aveva improvvisamente perduto.
Qualche tempo dopo seppi che non avevo sbagliato: era stata fidanzata per anni con un famoso corridore di “Formula Uno” e questo era morto in un incidente in prova. Le aveva lasciato, per testamento, una fortuna pur non avendone bisogno perché lei, figlia di un industriale milanese ricchissimo, viveva con una rendita personale da nababbo.
Quella sera passò in fretta e dovetti promettere che sarei tornato molto presto.


Avevo bisogno di riflettere. L'incontro con Valeria mi aveva messo in una situazione psicologica difficile.
Era strano come, in breve tempo, la mia vita stesse cambiando velocemente mentre per anni era stata monotonamente fissa su un binario preciso ed unidirezionale.
Ero contemporaneamente innamorato del mio lavoro di ricercatore all'Università e di Marisa ma mi sentivo anche calamitato da quel nuovo mondo che avevo toccato con mano e a “Villa Eduarda” e con Valeria.
Pensai di avere una doppia personalità: da un lato quella del bravo ragazzo tutto studio e sentimento, dall'altro quella dell'arrivista spietato e del debole di fronte alla tentazione che Valeria rappresentava come donna sofisticata e come soggetto tutto da scoprire e verificare.
Anche le mie giornate si dividevano incredibilmente come una medaglia dalle due facce opposte.
Mi comportavo con grande umanità in corsia tra i veri malati e con Marisa ero tenero, dolce e affettuoso in quelle poche ore che trascorrevamo insieme.
Divenivo freddo e quasi cinico tra i ricchi snob della casa di cura e volevo una grande avventura con Valeria anche se mi spingeva verso di lei solo la curiosità ed una forte attrazione fisica, mista al demone voluttuoso di quella ricchezza esibita come una cosa assolutamente normale e che mai avevo visto tanto da vicino.
Ritornai da Valeria quel sabato e poi tante altre sere anche se avevo cercato al principio, con ogni mezzo, di rinunciare subito a ciò che inevitabilmente sarebbe nato tra me e lei.
Per Valeria rappresentavo anch'io un mondo nuovo: la gioventù intelligente ed intellettuale, il professionista in erba che aveva bisogno solo di aiuto per sfondare, il bel ragazzo sano e forte non costruito in palestra o con gli anabolizzanti.






4

Fu in occasione del suo compleanno che capii quanto sarebbe stato difficile per me tornare sui miei passi.
- Domani, - mi disse al telefono con una delle sue abituali chiamate all'alba - farò trent'anni ed ho organizzato una festa tra amici nella mia villa al Circeo . Devi liberarti da ogni impegno perché se non vieni anche tu sento che il mio compleanno non mi porterà fortuna! -
Quello del credere alle premonizioni ed alla superstizione era un altro motivo che mi attirava verso Valeria.
L'avevo presa in giro diverse volte quando mi aveva raccontato come ci fosse un nesso fra avvenimenti e persone e come certe situazioni si sarebbero svolte in modo del tutto diverso senza l'influenza negativa di certa gente e come altri fatti avevano avuto, nella sua vita, una svolta positiva e felice per la presenza di alcuni che erano portatori di un fluido personale fortunato.
Quando mi parlava così vedevo accendersi nei suoi occhi, come in quelli di un bambino, una fiammata di paura e di sgomento per la convinzione di essere oggetto facile preda di jellatori. Ne era così convinta che cercava di difendersi in ogni modo con amuleti ma soprattutto circondandosi di persone che, a suo parere, portavano bene.
Era chiaro che il dolore per la perdita del fidanzato l'aveva profondamente traumatizzata e con me stava appena ritrovando un certo equilibrio psichico per cui mi riteneva ormai parte integrante della sua vita.
Così per non angosciarla le promisi subito, senza discutere sulle sue fisime, che sarei stato al Circeo il primo ad arrivare e di conseguenza avrebbe iniziato un anno fortunato e felice.
Avrei chiesto un permesso speciale e all'Università e alla dottoressa Virgili senza spiegarne il motivo ed avrei passato l'intera giornata con Valeria.


Arrivai non più tardi della nove di mattino. Ero già stato in quella grande villa una domenica, mentendo a Marisa alla quale avevo fatto credere di essere impegnato in un meeting di Cardiologia a Napoli.
Valeria era in giardino in pantaloncini corti e bianchi, molto attillati. Le lunghe gambe erano perfettamente abbronzate e la camicetta azzurra faceva da tenue velo al seno nudo e turgido. Mi corse incontro ridendo e mi si buttò tra le braccia.
- Questo è il più bel regalo, - esclamò dopo avermi baciato innumerevoli volte - che mi potevi fare! Sei stato la prima persona che ho visto oggi, a parte la mia cameriera e suo marito e questo, per me, è il massimo che potevo pretendere. -
Non aprì neppure il piccolo pacchetto che le misi in mano. Era un regalino: un piccolo elefantino d'avorio bianco che avevo scelto di proposito perché lei adorava quegli animali come importanti porta fortuna.
- Non vuoi vedere cosa ti ho portato? - chiesi sorpreso -scommetto che ho indovinato un tuo desiderio! -
Valeria allora si sedette sull'erba e lentamente svolse il nastrino e la carta che nascondevano il piccolo dono. Aveva la bocca aperta per la curiosità e quando lo tirò fuori dalla scatola urlò con gioia infantile.
- Guido, ti voglio, non mi importa niente se dovrò dividerti con altre donne ma giurami che non mi lascerai mai! -
Le presi il viso tra le mani e la guardai a lungo nel verde profondo degli occhi.
- Ti sarò vicino, Valeria, - sussurrai accostando la bocca al suo tenero nasino. - non ti preoccupare del domani. Cerchiamo di vivere le nostre giornate serenamente ed io ti aiuterò ogni volta che sarà necessario. -
Lei mi portò subito in casa prendendomi per mano e la giornata passò piacevolmente mentre sentivo la mia coscienza come anestetizzata ed il mio cervello in vacanza.
Tornammo al Circeo anche la domenica successiva, ma quella volta volle godersi il mare.
Valeria rimase con il naso all'insù quando mi vide in cima all'albero maestro della sua barca.
Aveva dormito per almeno un paio d'ore per recuperare le energie perdute dopo aver fatto l'amore con me, come al solito, in maniera selvaggia.
Il rosso bikini che portava era talmente minuscolo che appena la vidi scoppiai a ridere.
- Potevi rimanere nuda, - esclamai non appena le fui vicino - tanto qui non ci vede nessuno! -
Il mare intorno era calmissimo; non una sola increspatura della superficie si vedeva a vista d'occhio fino al Circeo e mancava ancora molto al tramonto quando il marinaio sarebbe ritornato col gommone a motore a riprenderci.
- Facciamoci un bel bagno, - le dissi stringendola alla vita - così ci si snebbierà il cervello e poi il nuotare rilascia e ritempra i muscoli ed anch'io ho bisogno di un idromassaggio! -
Valeria mi sorrise e senza dire nulla si tuffò allontanandosi dalla barca. La raggiunsi immediatamente ed in acqua giocammo a rincorrerci come due ragazzi spensierati quasi fossimo tornati entrambi in un'epoca lontana quando la felicità era tutta nelle piccole cose dal sapore genuino come il pane appena sfornato.











CAPITOLO QUINTO






1

L'uomo allungò la mano e mi afferrò il camice.
Mi ero avvicinato al suo lettino in corsia per vedere come andava. Era il malato più grave in quel momento, una miocardite virale lo stava uccidendo ma io non mi davo per vinto e speravo che reagisse alla nuova terapia.
Era piuttosto giovane, sulla quarantina e l'avevano sistemato in modo che potesse respirare meglio, semiseduto, con l'ossigeno che gli arrivava dall'impianto di distribuzione e con il monitor che ci teneva costantemente informati sulle sue condizioni cardiache.
- Dottore, - mormorò quando accostai le orecchie verso la sua bocca - lo so che sto morendo e so pure che lei e tutti qui dentro avete cercato con ogni mezzo di salvarmi. -
- Non dica così, - lo interruppi bruscamente - lei ha molte possibilità di sopravvivere però deve anche volerlo e non si deve lasciare andare. -
- Grazie, - sussurrò con evidente fatica - ma adesso mi faccia un piacere. Mi chiami il prete perché io voglio approfittare di questo momento di lucidità per confessarmi. -
Sapevo che Don Mario era passato diverse volte e quasi ogni giorno gli aveva chiesto il permesso di essergli utile. La risposta dell'uomo era stata sempre negativa anzi gli aveva detto che, quando capitava in corsia per i malati, sarebbe stato meglio che avesse girato alla larga da lui.
- Non c'è poi tutta questa fretta, - affermai un po’ imbarazzato - Don Mario verrà questo pomeriggio per tutti e glielo potrà chiedere direttamente. -
L'uomo mi guardò negli occhi ed implorò.
- Dottore, lo voglio subito più tardi potrebbe essere inutile. -
Gli passai una mano tra i capelli ed avvicinandomi ancora di più dissi.
- L'accontento subito, però sappia che il fatto stesso che ha deciso così il Signore lo sa già e per questo motivo lei non deve aver timore di non fare a tempo. -
Dopo un secondo chiamai Don Mario al telefono e gli dissi che doveva venire urgentemente.
Sapevo che il mio modo di ragionare non era ortodosso ma anch'io mi comportavo nella stessa maniera. C'erano momenti che mi rivolgevo al Padreterno per farmi perdonare di tante manchevolezze che mi pesavano sulla coscienza ma in chiesa non ci andavo praticamente mai al contrario di Marisa, che soffriva se non assisteva alla messa tutte le domeniche.
Era più di un mese che non mi facevo vivo con lei.
Al principio le avevo dato da bere un sacco di frottole al telefono, poi la mia fantasia aveva subito un deterioramento verticale e non sapendo più cosa raccontarle mi ero attaccato alla cosa più banale che potessi inventare: due pazienti privati che mi portavano via ogni ora libera sia di giorno che di notte.
L'ultima volta che ci eravamo visti le avevo detto.
- Quasi quasi mi fa piacere di non avere nemmeno un minuto per vederci. Ti manca così poco alla tesi che è meglio che non ti distragga e ti dedichi completamente a questo impegno; probabilmente riuscirai a laurearti con un voto più alto! -
- Sai quanto me ne importa della tesi, - aveva ribattuto - piuttosto dimmi, non è che mi stai facendo le corna? -
Marisa quel giorno era ancora più deliziosa del solito con quella nuova acconciatura.
Si era fatta tagliare i capelli ed aveva un ciuffo che le copriva parzialmente la fronte spaziosa. Indossava un vestitino verde tenue molto stretto in vita e portava al collo una collana di perle bianchissime.
Pensai di essere un emerito imbecille: la stavo trascurando e solo a guardarla capivo quanto stavo perdendo.
- Mio bel micetto, - le avevo dichiarato tra il serio e il faceto - non devi dire stupidaggini. Sai bene che non c'è altra donna al mondo all'infuori di te. -


Passarono allora diversi giorni senza che la vedessi o sentissi e quando bussai alla porta, il giorno prima che si laureasse, mi venne ad aprire ed appena fui entrato si piantò a qualche centimetro dal mio viso e urlò.
- Vattene al diavolo e lasciami in pace! -
Gli occhi esprimevano, come dardi infuocati, una rabbia immensa ma la voce aveva qualcosa di vacillante.
- Che vuoi da me? Non ti basta di avermi presa in giro per tanto tempo? -
Mi inginocchiai sul pavimento davanti a lei. Le presi un lembo della gonna e sospirai.
- Mia dolce fanciulla se continui così mi metto a piangere e ti rovino il tappeto. -
Ero riuscito a farla sorridere tra le lacrime, ma pensai che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei fatta calmare con una semplice battuta.
Stavo constatando di aver oltrepassato il limite della sua pazienza e delle due l'una: o riuscivo a riconquistarmela in quel momento, subito o mi conveniva di raccontarle tutto di Valeria e di me!
Scartai subito questa seconda ipotesi e per quel giorno ritornai ad essere il suo Guido, il ragazzo semplice che amava.
Quando si fu tranquillizzata, parlammo per ore ricordando tutto degli anni passati insieme.
Ora anche lei aveva completato gli studi e la speranza di un futuro roseo le fece brillare lo sguardo come se vedesse lontano qualcosa di seducente.
Immaginò la nostra casetta piccola ed accogliente ed un enorme letto matrimoniale morbido e molleggiato e mille altre cose ancora, sempre vicina a me.
Quando ci salutammo, dandoci l'appuntamento per il giorno seguente, la presi fra le braccia e le sussurrai affascinato da ogni cosa che era successa quel giorno.
- Marisa amore mio, se mai un giorno avrò dei figli me li devi fare tu soltanto! -


Avevo comprato a Marisa per la sua laurea, spendendo tutto lo stipendio di un mese, una originale collanina d'oro con un grosso crocifisso firmato Bulgari.
Attesi di rimanere solo con lei e, quando tutti gli amici ed i parenti si furono accomiatati nel ristorante dove il generale aveva voluto festeggiarla, le ordinai di chiudere gli occhi mettendole al collo il mio regalo.
Marisa mi colmò di baci e di carezze e mi disse.
- Guido non ti dimenticare di ieri e di oggi. So già quanto sarà difficile per noi due la vita. Chissà cosa hai speso per questo crocifisso, ma io te ne ringrazio e da domani comincerò a cercare un lavoro. -
- Noi, - sussurrò stringendosi a me - ci aiuteremo così come è stato negli anni passati, e vedrai che il cielo ci darà una mano per percorrere la nostra strada ! -
Mi ero commosso sentendola parlare.
La piccola Marisa era cresciuta, la matricola di lettere era diventata una vera donna e con un grande senso di equilibrio aveva già capito che quel giorno rappresentava per lei l'inizio di un nuovo cammino irto di difficoltà ma che sperava felice.
La sera facemmo all'amore come la prima volta a Fregene senza pudori e con dolcezza e pensai orgogliosamente che Marisa era certamente la donna che il destino mi aveva assegnato.






2

Valeria mi prese sottobraccio e cominciò a farmi un lungo discorso complicato.
Le avevo detto di aver voglia di fare una passeggiata a piedi e lei mi aveva dato appuntamento per le sette di sera sotto il “Fungo” all'Eur.
Era arrivata con dieci minuti di ritardo in taxi e quando si era accorta di me, seduto sul parafango della mia Volkswagen, mi era corsa incontro.
Il sole stava per scomparire e la luce rossastra del tramonto aveva illuminato il suo viso con una sfumatura arancione tingendole di verde cupo, il colore degli occhi. Aveva il viso pulito senza trucco e le labbra erano di un rosa appena sfumato.
Quanto fosse femmina provocante e bellissima non ero riuscito a dirglielo perché non me ne aveva lasciato il tempo.
- E tutto il giorno, - proruppe - che ho una idea per la testa e che non fa’ altro che ronzarmi nel cervello. -
- Dimmi pure, - le feci mentre incominciammo a camminare verso il laghetto - sono qui tutto attento ed ai tuoi ordini. -
- Tu sai, - proseguì assumendo un tono serio e compunto - che io dispongo di un grosso patrimonio ma che finora lo ho investito solo in obbligazioni garantite dallo Stato. Ora voglio che tu mi aiuti a potenziarlo con il tuo lavoro! -
Non ci stavo capendo niente. Valeria non mi aveva mai parlato a quel modo, né si era mai interessata dei miei guadagni anche se sapeva benissimo che disponevo solo di quel tanto che mi permetteva di vivere decorosamente.
- Prosegui, - esclamai incuriosito - e spiegami questo arcano mistero. Come posso, con il mio lavoro, farti diventare più ricca di quanto non sei? -
- Facilmente, - mi rispose dopo essersi fermata per un attimo e dopo avermi scrutato in volto, contenta che non avessi afferrato ciò che mi stava per dire.
- Devi soltanto comprare per mio conto un venti per cento della quota azionaria di Villa Eduarda. Ho saputo da un amico che la vedova del professor Russo, l'ostetrico, si vuole disfare delle azioni in suo possesso. Tu le acquisti e diventi socio di maggioranza, poi divideremo tra noi due i guadagni!-
- Dopo avermi dato quella notizia sorrise felice e soddisfatta, come una bambina che avesse fatto una grande scoperta ma io rimasi di sasso.
- Va bene Valeria, - dissi con espressione contemporaneamente risentita e divertita - che tu pensi a me, ma questo mi sembra un po’ troppo. Vuoi che sfrutti i tuoi soldi come se fossero miei e questo non mi va’ a genio per niente. -
- Ma che dici stupidone, - riprese stringendosi a me - sono io che, caso mai, sfrutterò il tuo lavoro e la cosa mi sembra abbastanza lecita. Tu metti la tua professionalità ed anche il tuo fascino carismatico nella società ed io il solo denaro. -
Pensai.
“Se fossimo stati marito e moglie poteva anche essere un discorso ma così cosa significava tutto quel progetto? Una silenziosa proposta di legarmi a lei oppure un invito a prendere decisioni che non mi passavano nemmeno lontanamente per la testa?”
Rimasi in silenzio per qualche minuto, poi con estrema decisione esclamai.
- Valeria non ti voglio ingannare! Non ha nessuna intenzione di sposarmi. Voglio essere libero e non voglio illuderti. Mi piaci, ti sono molto affezionato e se tu mi lasciassi ne sarei addolorato, ma non voglio nessun legame perché penso ad una carriera diversa da quella che mi si aprirebbe se lasciassi i miei studi. -
Lei mi strinse con forza le mani e mi guardò negli occhi, sospirò profondamente e mormorò sottovoce ma in modo chiaro.
- La mia proposta resta valida ugualmente, caro il mio Guido. Ti ho già detto più di una volta che non mi interessa se devo dividerti con i tuoi studi e con altre donne. Desidero solo che tu mi dia un po’ di bene, di cui ho tanto bisogno e la tua amicizia. Il resto è come il vento che viene e cessa improvvisamente. Accetta quanto ti ho proposto e non darmi subito una risposta. Sarebbe stupido da parte mia pretendere che tu non esamini, con calma e prendendo tutto il tempo che vuoi, il pro ed il contro di questo nostro legame. -
Per quella sera non parlammo più dell'argomento e quando tornammo verso il “Fungo” mi disse.
- Adesso ho fame, andiamo a cenare su al ristorante e poi mi accompagnerai verso casa. -






3

I due puma, la femmina avanti e il maschio dietro, camminavano nervosamente sfiorando le sbarre della gabbia con al centro un tronco d'albero secco. Ripetevano infinite volte lo stesso percorso con quelle zampe vellutate ed elastiche che sembravano solo sfiorare il cemento
Improvvisamente quella si sdraiò nell'angolo più lontano e cominciò a gemere disperatamente mentre il maschio le si accostò con evidente desiderio di coprirla.
Allora la femmina, nel momento che era parsa doma, si rivoltò ruggendo contro il compagno respingendolo violentemente e lui scornato ricominciò a girare intorno la gabbia triste e sconsolato.
Io e Marisa avevamo osservato la scena e non potei fare a meno di esclamare.
- Perdinci hai visto come lo ha cacciato? Certo chi ci ha fatto la figuraccia è proprio lui. Gli ha fatto capire che non era aria e il maschio ha abbozzato. -
Erano anni che non andavo al giardino zoologico ed approfittando della bella giornata, quella mattina di domenica, le avevo proposto di fare una visita agli animali dello zoo. Era una occasione come un'altra per passeggiare all'aria aperta e per chiacchierare del più e del meno.
Queste mie iniziative facevano sempre piacere a Marisa perché aveva l'impressione che quelle cose, di domenica, le facevano solo i fidanzati o i mariti con moglie e figli.
Avevamo girato in lungo e in largo per i vialetti e quando ci fermammo davanti alla gabbia dei puma, erano già un paio d'ore che eravamo lì dentro.
Quella scena aveva innervosito Marisa.
Le aveva dato fastidio l'aggressività dell'animale anche se poi l'episodio era andato, in fondo, a favore della femmina che aveva dimostrato chiaramente come a quei livelli istintivi chi prende gli ordini ed ubbidisce è il cosiddetto sesso forte.
- Allora Guido, - mi disse con aria soddisfatta - hai visto cosa significa essere fuori fase? -
- Bah, - risposi - forse hai ragione ma vorrei vedere cosa farebbe la femmina se quando è disponibile, non ci fosse lui! -
- Ragioni come un maschilista, - fece seria e contrariata - scommetto che potrebbe stare benissimo anche da sola. -
- Non credo, - conclusi ridendo - quella diventerebbe pazza! -
Marisa a quel punto si arrabbiò seriamente e fissandomi mi disse.
- Senti Guido smettila. Succede la stessa cosa a noi donne; se lo decidiamo possiamo fare a meno di voi. Io poi se vengo con te è solo per un fatto di cuore e non di sesso! -
- Bene, - scherzai - allora se tu non avessi il cuore gonfio non verresti con me! -
- Certo, - affermò in tono perentorio - non siamo mica così erotiche come voi maschi che basta che vediate una gonna, con sotto qualcosa di appetitoso, vi ci buttate senza ritegno! -
- Non ce l'avrai con me? - domandai sornione - forse vuoi dire che io vado a caccia di donzelle? Se anche fosse, ciò non intaccherebbe minimamente il bene e l’amore che ti voglio! -
- Allora, - sospirò Marisa guardandomi di sbieco - quello che sospettavo è vero! Tu vai con altre donne! -
Come al solito quando incominciavamo a discutere su un argomento qualsiasi si finiva di parlare sempre di noi. Quello poi mi sembrò un argomento minato dato che avevo subodorato che Marisa sospettasse qualcosa di quanto stava accadendo tra me e Valeria.
- Rispondimi, - mi aggredì alzando la voce - allora tu vai a letto con altre! -
Lo sguardo di Marisa si era improvvisamente acceso ed io mi sentii come un pugile chiuso all'angolo. Cercai subito una scappatoia e le sussurrai in un orecchio.
- Lascia perdere; piuttosto non ti ho detto di una proposta di lavoro che ho avuto. -
Marisa sbuffò un tantino, poi mi disse:
- Ogni volta che ti faccio una domanda precisa cambi discorso. Non importa, sentiamo questa novità! -
Le raccontai di una ricca signora, che avevo conosciuto a Villa Eduarda, la quale voleva investire il suo denaro su me. Se avessi accettato la mia situazione economica si sarebbe capovolta completamente ma nello stesso tempo le nascosi che quella donna era giovane e bella.
Per tutto il tempo che parlai Marisa mi ascoltò in silenzio e molto attentamente, infine esplose.
- Non so chi è questa benefattrice né lo voglio sapere ma tu non ti sarai mica ammattito? In ogni caso devi dirle di no, sia per una questione di dignità ma in particolare perché ti preferisco medico condotto piuttosto che sfruttatore di donne e di malati. -
Rimasi allibito, avevo creduto che quell'argomento l'avrebbe interessata anche personalmente dal momento che, sarebbe stato ovvio, una volta che mi fossi sistemato economicamente avremmo potuto pensare al nostro matrimonio.
Poi continuò.
- Adesso te la faccio io una proposta seria. Resta ancora sei mesi a Villa Eduarda, risparmia fino all'ultimo centesimo e poi apriti uno studio da solo, continuando a studiare ed a rimanere al tuo posto all'Università!
Tra un paio d'anni non solo potrai prendere la libera docenza ma avrai anche una bella clientela! -
Marisa aveva posto il veto ed io mi trovavo per la prima volta davanti ad un dilemma serissimo che avrei dovuto districare da solo anche perché significava una scelta tra Marisa e Valeria.


Sentii squillare il telefono ripetutamente. La radiosveglia segnava le due e un minuto e fuori la pioggia batteva l'asfalto come un torrente impetuoso che volesse lavare ogni cosa.
- Dottore, - ansimò una voce femminile che riconobbi subito per quella della cameriera di Valeria - venga subito è urgente, la signora sta’ molto male. -
Stavo per riacquistare un minimo di lucidità che quella proseguì.
- La prego faccia presto, mio marito la ha trovata semisvenuta in cucina un momento fa e non sappiamo cosa fare. -
- C'era, - continuò quella quasi piangendo - un flaconcino di compresse di sonnifero sul tavolo e mio marito ha detto che ne manca quasi la metà.
- La voce della donna era spaventata ed io feci un enorme sforzo di volontà per sollevarmi a sedere sul letto: Valeria semisvenuta, il flaconcino di medicinali sul tavolo...
Riuscii a dire in modo automatico, professionale.
- Cercate di farla camminare in continuazione e sollecitate il vomito con del caffè amaro. Io sarò lì al massimo tra un quarto d'ora.
Ero riuscito a svegliarmi completamente e in un baleno mi rivestii e mi ritrovai in strada solo, sotto il diluvio, con la paura di non fare a tempo per soccorrere colei che avevo ribattezzato “la fata dagli occhi di smeraldo”.
Gettai dentro la Volkswagen la valigetta di pronto soccorso e cominciai a correre per le strade di Roma deserte mentre solo il rombo del motore spezzava il silenzio che s'era creato non appena la pioggia era cessata.
Avevo lasciato Valeria in salute verso mezzanotte ed ero andato a dormire molto tardi.
Guidavo e pensavo: anche se ha preso una dose eccessiva di sonnifero vedrai che il farmaco, con il vomito, non sarà stato ancora assorbito dalla mucosa gastrica e non avrà raggiunto che in minima parte i centri nervosi.
Era strano, Valeria era rimasta tranquilla e serena per tutta la serata.
Avevamo discusso ancora su quella sua proposta ed io le avevo fatto intendere che difficilmente avrei accettato.
Mi aveva ripetuto che non dovevo farmi scrupoli e che si trattava di una normale operazione finanziaria d'investimento di capitale. Aveva parlato con estrema calma e non aveva dato alcun segno di nervosismo né , quando l'avevo salutata, il suo comportamento m'era parso differente da tante altre volte quando me ne andavo via.
Non sapevo cosa pensare ma intanto avvertivo distintamente l'ansia di esserle vicino e di aiutarla con qualsiasi mezzo possibile.
Entrai nel portone: l'ascensore era fuori sevizio e così corsi per le scale facendo i gradini a due a due.
Me la trovai di fronte pallida e sudata, seduta sul divano del salone e con lo sguardo smorto.
Faceva un enorme fatica a sollevare le palpebre e la bianca camicia da notte era sporca di vomito.
L'avevano tenuta sveglia ed in piedi fino al mio arrivo tanto che appena mi vide riuscì a dirmi con un filo di voce.
- Guido perché sei venuto? Ho preso solo quattro compresse di sonnifero ed ho sbagliato dose. Credevo che bastassero...!
Mi guardò con tanta stanchezza nello sguardo che il mio cuore sussultò di paura ma anche di tenerezza.
I due domestici mi aiutarono a sollevarla dal divano ed a metterla a letto e dopo che ebbi visto che tipo di sonnifero avesse adoperato , le iniettai un analettico potente. Attesi qualche minuto dopo averla visitata e finalmente mi tranquillizzai.
Il vomito era stato provvidenziale e tra poche ore avrebbe riacquistato completamente la propria coscienza.
Ringraziai marito e moglie e li congedai rimanendo solo con lei.
Mi sedetti sul letto e cominciai ad accarezzarle la fronte finché si addormentò.
Rimasi vicino a lei per tutta la notte e continuai a ripensare all'ultima frase che mi aveva detto.
Quel “ credevo che bastassero “ mi avevo impressionato. Cosa aveva voluto dirmi? A dormire o a farla finita?
Eppure non avevo mai pensato che Valeria potesse agire a quel modo. Forse avevo sottovalutato la sua sensibilità e la sua forza d’animo.
Ecco, poteva essere proprio cosi!
Non ero dunque per lei una semplice avventura sentimentale ma qualcosa di molto più serio, di profondamente importante se aveva deciso di non voler più vivere in quelle condizioni di ambiguità in cui involontariamente l'avevo messa.
Verso le nove Valeria si svegliò lentamente e quando aprì gli occhi e mi vide mormorò.
- Voglio morire, Guido. Non voglio più vivere se non mi ami! Aiutami tu a farla finita io sono troppo vile per farlo. Con quattro compresse cosa pretendevo ? -
Avevo visto giusto. La sua aria di donna fatale non era altro che una maschera che si era calata addosso per proteggersi.
Ora era come nuda di fronte a me indifesa e capivo come avesse potuto pensare che il mondo intero le cadesse addosso.
Mi avvicinai ancora di più, la guardai nel verde intenso degli occhi e le baciai dolcemente la bocca ed il collo mille volte.
Poi mi alzai dal letto e prendendola in braccio la portai vicino alla grande finestra aperta.
- Guarda Valeria, - le dissi sussurrando - come è bello il cielo e come sono verdi quegli alberi. Ricordatelo sempre che per nulla al mondo devi rinunciarci! -
Io - aggiunsi stringendomela al petto - ti aiuterò sì, ma a vivere! -






4

- Allora è meglio che ci lasciamo, - esclamò Marisa con le lacrime agli occhi.
- Hai deciso di rovinarti la carriera ed io non ti aiuterò in questo suicidio - riprese sfidandomi con lo sguardo infuocato - e fatti pure i soldi ma senza di me! -
C'eravamo visti da poco più di dieci minuti e lei mi aveva subito chiesto cosa avessi deciso a proposito di quanto le avevo detto una settimana prima allo Zoo.
- Potrò fare tutto, - avevo esclamato euforico - il lavoro di ricerca per arrivare alla libera docenza, il socio a Villa Eduarda e pure lo studio privato in una zona elegante di Roma! -
- Ma bravo,- aveva replicato Marisa - e poi anche il marito e l'amante di quell'altra, è vero?
Aveva sintetizzato tutto in un attimo ma io non potevo lasciare Valeria in quelle condizioni psichiche di fragilità e le dissi che ero padrone di decidere della mia vita come meglio mi andava e che se non se la sentiva più di starmi vicina, ebbene, allora ognuno per la sua strada.
Copiose lacrime le irrigarono il bel volto, un minuscolo fazzolettino non fu in grado di asciugarle.
Non perse nemmeno il tempo per aggiungere qualche altra considerazione: si voltò bruscamente e mi piantò in asso su quella panchina di marmo fredda di Piazza Navona, allontanandosi velocemente tra la folla.











CAPITOLO SESTO





1

Avrei dovuto immaginare una cosa del genere e mi sentivo ridotto come un lottatore al tappeto svuotato di energie. Amaramente dovevo constatare che Marisa mi aveva liquidato.
Parlavo ancora da solo quando entrai in casa di Valeria.
- Stupida di una Marisa, - borbottai - forse credevi che ti avrei supplicato di non andartene! -
Non avevo assolutamente assorbito il colpo né digerito la lezione che mi aveva voluto impartire ed adesso la faccenda mi stava provocando una reazione di rabbia senza che sapessi dove poterla scaricare .
Valeria mi fissò sbalordita.
- Tu qui a questa ora! Che ti è successo? Avevi detto che oggi non saresti venuto ed io come vedi non ti aspettavo affatto tanto che sono completamente in disordine.-
Quel modo di accogliermi piuttosto freddino, dopo che per causa sua avevo rotto con Marisa, mi aveva particolarmente irritato.
Attraversai il salone dirigendomi verso il piccolo bar. Avevo bisogno di bere qualcosa di forte ma vidi solo liquori dolci.
- Vuoi un Cognac? - mi domandò Valeria sorpresa dal fatto che volessi bere dal momento che ero praticamente astemio.
- Lì in basso c'è una bottiglia di Courvoisier. Serviti pure ma dimmi, ti è capitato qualche guaio? -
Rimasi col bicchiere pieno di cognac in mano e mi lasciai andare sulla poltrona.
- Valeria, - dissi con espressione amara - ascoltami bene e trai tu le deduzioni e le conclusioni dei fatti. -
Parlai per più di un'ora raccontandole tutto di Marisa senza reticenze e senza trascurare nessun particolare. Alla fine l'alcool mi aveva reso euforico e sfacciato.
- Ora, - esclamai con voce roca - ho solo te! Che ne diresti se venissi a vivere qui da te? -
Valeria mi si accostò ed avvertii in lei una sensualità nuova. Il pensiero di aver vinto nella gara con Marisa la rendeva peccaminosa.
- Andiamo a letto, - mi sussurrò accattivante - dopo parleremo sul da farsi. -


Valeria comprò una villetta sull'Appia Antica. Venne da me e mi disse.
- Ho fatto un affare! Quella sarà la nostra casa e ci andremo ad abitare subito. Terrò anche questo attico ma lì sarà il nostro nido. -
Un po’ la rimproverai perché ogni volta voleva sorprendermi con le sue iniziative ed un po’ rimasi perplesso giudicandola un tantino matta.
Alcuni giorni prima le avevo detto che se un giorno avessi potuto permettermelo sarei andato a vivere sull'Appia Antica ed ecco lei, detto e fatto, che si precipita per farmi contento.
Così era successo per Villa Eduarda.
Dopo che mi fui ripreso dalla doppia sbornia di Courvoisier e di sesso nel suo letto, le avevo parlato.
- Anche se ho detto a Marisa che accettavo la tua proposta e lei se n'è andata proprio per questo motivo, non voglio diventare socio di quella casa di cura per ricconi nevrotici dove non imparo niente. -
- Se vuoi aiutarmi lo puoi fare ugualmente, - continuai rassegnato e convinto di farle un piacere - aprendomi uno Studio Cardiologico al Centro. Faremo a metà dei miei guadagni se la cosa tirerà, altrimenti potrai dire di aver sbagliato investimento. Valeria ascoltò e fece esattamente così senza che ne sapessi niente.
Un sabato mi portò con sé e mi fece vedere che lo studio, nei pressi di Piazza di Spagna, era una realtà. Elegante e sobrio nell'arredamento era completo di ogni strumento specialistico di avanguardia.
- Ecco il tuo studio, - sorrise - ho voluto farti una sorpresa. -
Scossi il capo ma nello stesso tempo mi domandai, guardandomi intorno, quanto avesse speso.
- Ti è costato un patrimonio, - commentai - scrivi su questo foglio di carta la cifra di cui ti sono debitore prima che mi venga un infarto. -
- Non ce n'è bisogno, - rispose con aria soddisfatta - mi pagherai a percentuale come siamo d’accordo, finché ti dirò io che il tuo debito è saldato. Non voglio nessun contratto ma solo che tu sia felice di agire liberamente come meglio ti pare. -


Così cominciai una nuova vita dividendomi tra l'Università, il mio studio e Valeria.
Devo dire, ad onore del vero che la maggior parte del tempo lo passavo al Policlinico.
Ora che non avevo più bisogno di lavorare a Villa Eduarda vidi che la dottoressa Virgili mi aveva preso in più alta considerazione. Aveva capito, da sottile animale raziocinante, che avevo anch'io le mie protezioni e quindi divenne meno esigente riguardo le pubblicazioni.
Lavoravo ancora in subordine al suo Professore, ma in pratica l'avevo scavalcata e in un paio d'anni mi ritrovai con una tale mole di lavori scientifici pubblicati che un giorno quello mi disse.
- A questo punto deve tentare di prendere la docenza tra sei mesi, non ha bisogno di spinte e sono sicuro che ci riuscirà. -
Quella proposta mi aveva inebriato e quando lo dissi a Valeria lei, sedendosi sulle mie ginocchia e scotendo la testa, commentò.
- Vedi come ho naso negli affari? Quando sarai professore aumenterai gli onorari e io guadagnerò di più. -
Tutto quello che Valeria mi diceva non era assolutamente vero. Faceva finta di intascare il denaro che io puntualmente le passavo a fine mese ma poi lo spendeva tutto per farmi grossi regali.
Fra l'altro, con la scusa che soffriva di lombaggine aveva comprato una splendida GTV duemila, intestandola a mio nome, perché asseriva di non volere stare scomoda quando viaggiavamo.
A Lecco, Valeria aveva una grande villa sul lago; anche quella l'aveva ereditata assieme alla cugina Iolanda che viveva col marito e due figli occupandone una metà.
Quel lago così tranquillo ed al tempo stesso così vivo mi piaceva, ma di più ero contento di vedere i suoi parenti ed in particolare i due bambini Bruna e Felice, di sette e cinque anni, ogni volta che avendo un paio di giorni liberi li andavamo a passare a Lecco.
Stefano, il marito, lavorava come ingegnere elettronico alla Olivetti ed era anche lui una persona simpaticissima, dai modi signorili e dall'aspetto serio e un tantino misterioso come tutti gli ingegneri elettronici che avevo conosciuto, gente che ritenevo di norma dotata di un quoziente molto elevato ma sempre distratta e con la testa nel calcolatore.
Era sempre una gran festa per i due piccoli rivedere Valeria e la mia presenza li eccitava dopo la prima volta che la cugina Iolanda, una giovane sempre allegra, mi aveva presentato come il marito della loro zietta.
Aveva detto davanti a me.
- Bambini lo sapete che questo è il vostro nuovo zio? Si chiama Guido e fa il dottore. Quindi fate i bravi, altrimenti gli dico di farvi le punture di calcio che non riesco mai a finire con grande disappunto del vostro pediatra! -
Bruna le aveva risposto, scotendo i lunghi capelli biondi ed arricciando il nasino.
- Mammina non ci fai paura perché lo zio Guido ha la faccia buona e poi lui ci ha promesso che ci porterà sul lago col motoscafo e che le punture le fa fare all'infermiera perché lui non ne é capace .-
Detto così aveva sorriso e rivolta a me aveva aggiunto sottovoce.
- Non lo dire alla mamma che mi sono inventata tutto! Però è vero che è cosi? -
Quel soldo di cacio aveva un visetto innocente ed era così delicata che mi sembrava una figura dipinta da Renoir, ma contemporaneamente sprizzava intelligenza e furbizia dagli occhi luminosi, di un bel colore azzurro chiaro.
Mi aveva immediatamente conquistato e prendendola in braccio, esclamai rivolgendomi a Iolanda.
- Tutto vero! Io e Valeria abbiamo promesso ai bambini di portarli a fare un giro sul lago in motoscafo e poi con quei bei dentini che hanno, sia Bruna che Felice, non hanno proprio bisogno di iniezioni di calcio, parola di medico!-
Passavamo lunghe ore assieme ai bambini e tra Felice e Bruna era una gara continua per farmi festa e per arrampicarsi sulle mie spalle.
Avevano stabilito che dovevo essere il loro purosangue da corsa ed io li accontentavo volentieri. Non volevo che nessuno dei due si ingelosisse e così li mettevo uno sulla spalla destra e l'altra sulla spalla sinistra e li facevo divertire fino a quando, distrutto, mi buttavo per terra sul prato nitrendo come un vero puledro.
Al contrario di Bruna, Felice era più riservato almeno con le parole, ma quando facevamo la lotta ce la metteva tutta per battermi ed i suoi furbi occhi castani brillavano di felicità non appena gli dicevo che aveva vinto e che chiedevo umilmente la pace.
Valeria rideva nel vedermi diverso dal mio solito e rilassato in quelle brevi giornate, anche perché a Roma passavo lunghi periodi stressanti soprattutto per prepararmi all'esame di docenza, ma anche perché la gente che frequentavamo saltuariamente era assai noiosa .
A Lecco ed a Milano invece s'incontravano un sacco di vecchi amici di Valeria, tutta gente importante e strana ma altrettanto brillante e cordiale.
Tra l'altro conobbi cosa significasse essere contagiati dal gusto degli affari.
Molti erano veramente ricchi che, al confronto, Valeria sembrava una modesta benestante ed io un poveraccio. Parlavano spesso di miliardi come se si trattasse di spiccioli e non bluffavano assolutamente.
- Caro dottore, - mi disse una sera Fabrizio, anche lui imparentato alla lontana con le due cugine, mentre si cenava nella sua villa nei pressi di Monza con un grande parco di pini - chi glielo fa fare di sgobbare tanto per quel miserabile stipendio di Aiuto? Con qualche affare ben studiato lei e Valeria, potreste guadagnare in pochissimo tempo tanti di quei soldi che per metterli insieme, tutti in una volta, le dovrebbero pagare gli stipendi di vent'anni? -
Fabrizio poteva avere circa la mia età e sua moglie era una deliziosa svizzera di Losanna che aveva sposato un paio d'anni prima.
Si interessava esclusivamente di alta finanza ma di suo rischiava quasi zero.
Il problema era quello di avere clienti che avessero bisogno di ingenti quantitativi di denaro liquido e di trovare chi li finanziasse al di fuori del sistema bancario. Egli garantiva presso i creditori e la sua abilità consisteva nel garantirsi a sua volta, su immobili e fabbriche ottimamente attrezzate, per avere in ogni caso utili netti da capogiro.
Vedevo che Valeria era tentata da Fabrizio e che il suo sangue milanese si stava risvegliando.
Così discutendo, in cinque minuti, decise di partecipare ad un finanziamento di un miliardo, che Fabrizio aveva definito modesto, per la quota di un quinto.
Eravamo arrivati dopo cena al caffè e Fabrizio le aveva detto.
- Ti voglio fare un regalo, entra in questo affare che concludo domani e tra tre mesi incasserai cinquanta milioni di utili al netto. -
Quando Valeria, senza battere ciglio, tirò fuori dalla borsetta il libretto degli assegni e scrisse intestandoli a Fabrizio la cifra di duecento milioni ebbi un moto di stizza.
- Getta pure i tuoi quattrini, - mormorai sottovoce adirato - sta a vedere che andrai a chiedere l'elemosina fra qualche anno e poi tutto senza scrivere niente! -
Lei mi guardò sbalordita e un attimo dopo mi rispose.
- Ti farò vedere io fra tre mesi che una stretta di mano vale più di un contratto notarile! -
Tornando a Roma l'indomani aveva ancora il broncio ma quando ci fermammo a Firenze per la colazione il sorriso le era già tornato sulle labbra.
- Guido, - mi disse con aria sbarazzina - ho piena fiducia in Fabrizio e noi milanesi sappiamo investire bene il nostro denaro. -
Lasciai perdere il discorso poiché dei suoi soldi poteva farne quello che voleva ma rimasi stupito ed incredulo di averla conosciuta in una nuova veste, quella della donna di affari. Baciandola commentai.
- Basta che non intacchi il tuo capitale perché desidero che tu non abbia mai problemi economici dal momento che non sai fare nessun lavoro! -
Tre mesi dopo puntualmente, in occasione di una nostra gita a Lecco, Fabrizio le consegnò un assegno di duecentocinquanta milioni e lei soddisfatta mi si buttò fra le braccia ed esclamò.
- Ci siamo fatti i soldi per una favolosa crociera ai Caraibi non appena prenderai la libera docenza! -






2

Il bosco era tutto un profumo di muschio e di resina fresca ed il gran silenzio che regnava tra gli abeti secolari, illuminati tenuamente dal sole che filtrava con fatica dall'alto, era rotto di tanto in tanto dalle grida gioiose di Bruna e dalle risate di Valeria mentre correvano a rincorrersi tra il chiaroscuro dei grandi tronchi.
Mi ero messo a sedere su un gran mucchio di rami secchi e guardavo incuriosito la scena mentre una gran pace colmava di tranquilla serenità il mio cervello e si spandeva come un balsamo in ogni parte del mio corpo.
Bruna ci aveva scritto una letterina un mese prima, informandoci di essere stata promossa alla quarta elementare con un giudizio complessivo ottimo e chiedendoci se avessimo pensato al regalo che le avevamo promesso se fosse stata brava.
Ero stato io a proporre a Valeria di farla venire con noi come premio l'ultima settimana di luglio, a Dobbiaco in Val Pusteria e Valeria mi aveva detto di sì, con molto entusiasmo, pensando che quei primi giorni delle nostre ferie sarebbero stati meravigliosi con la piccola.
Così, mentre cercavo di cacciare dal mio naso alcuni noiosi moscerini, improvvisamente Bruna mi saltò addosso sbucando da dietro un enorme abete ed abbracciandomi stretto le sentii battere il cuoricino per la gran corsa.
- Zio Guido, - bisbigliò ansimando in un orecchio - quanto ti voglio bene! -
La presi in braccio e la baciai sui capelli arruffati.
- Anch'io piccolina, - risposi con tenerezza.
- Sono più di due anni, - continuai cullandola tra le braccia - che siamo amici per la pelle e ti giuro che quando sto a Roma non faccio altro che pensarti. -
Valeria intanto si era seduta stanca, di fronte a noi, sull'erba ancora bagnata di rugiada e rivolta alla piccola la rimproverò.
- Mi hai fatto correre come non correvo da almeno dieci anni. Sei proprio una birba e meno male che io non ho bambini perché altrimenti, se fossero tutti come te, mi prenderei un bel esaurimento! -
Bruna la guardò incredula e con uno sguardo innocentemente candido esclamò.
- Perché non avete bambini? Forse non siete capaci di farli? -
Aveva toccato senza volerlo un tasto delicato e subito dopo continuò.
- Zio Guido, tu che sei un dottore, mi devi spiegare come si fanno i bambini e poi mi devi spiegare cosa significa morire perché io ho paura della morte. -
Rimasi sconcertato. Sul momento pensai di non risponderle ma dopo un po’ capii che era necessario darle una qualsiasi spiegazione accettabile.
Assunsi un atteggiamento serio, quasi professionale e cominciai in tono didattico.
- I bambini si fanno col seme maschile e con l'ovulo femminile che viene fecondato da quello. La morte non è altro che un tranquillo sonno. -
- Ho visto in queste due ultime sere, - continuai - che ti sei addormentata col sorriso sulle labbra senza timore. La stessa cosa avviene con la morte anche se può essere preceduta da sofferenza. Essa viene sempre come un sonno dolce e ci dà pace in attesa che Gesù ci chiami e ci risvegli tutti in un posto meraviglioso da dove siamo partiti, a godere della felicità eterna. -
Avevo fatto un enorme sforzo per dire quelle cose ma Bruna incalzò aggrottando la fronte e socchiudendo gli occhi.
- Allora perché siamo venuti sulla terra e perché si nasce? -
I perché di Bruna mi stavano mettendo in ginocchio ma con un ultimo sforzo risposi.
- Dimmi, è vero che l'ovulo della tua mammina sei tu? Ed è vero che il tuo ovulo sarà un tuo figlio? Allora pensa solo una cosa: tu porti in te tutti gli ovuli e tutti i semi dei tuoi antenati. Nessuno di loro è venuto al mondo per niente, ognuno ha lasciato qualcosa di enormemente importante e tu stessa sei importante perché lascerai una piccolissima parte di te a chi continuerà a vivere fino alla fine del mondo. -
L'avevo ubriacata ma la vidi soddisfatta.
- Zio Guido, - mi disse baciandomi con tenerezza - ti ringrazio delle spiegazioni, sono proprio contenta di avere un medico come parente! -
Un attimo dopo stava correndo di nuovo tra gli abeti e la sua voce argentina chiamava Valeria perché giocasse a nascondino con lei.


Quella sera, a letto, Valeria allungò un piede verso di me. Lo faceva spesso quando, dopo aver spento la luce, voleva che le parlassi al buio in un momento di intime confidenze.
- Che c'è Valeria, - mormorai accostandomi - pensavo che fossi stanca e che desiderassi addormentarti subito. -
- C'è - rispose lei mettendomi la mano sinistra sul petto ed accarezzandomi - che oggi ti ho sentito dire tutte quelle cose a Bruna ed ho pensato che non ho saputo darti un figlio. -
- Non te ne fare un cruccio, - dissi sottovoce riflettendo che Valeria, mentre all'inizio temeva di rimanere incinta, aveva scoperto in seguito di non poter aver figli a causa di una anomalia congenita delle trombe uterine - non è poi così importante dal momento che ho già una bambina da accudire e quella sei tu . -
-Sei molto bravo, - sospirò Valeria - come mio medico personale; non vuoi che io me ne faccia una ragione di avvilimento ma non sei sincero perché so quanto ami i bambini e quanto desideri un figlio. -
- Abbiamo fatto bene, - continuò balbettando con voce rotta di pianto - a non sposarci. Un giorno forse un'altra donna ti darà dei figli e così il tuo seme rimarrà immortale. -
Solo Valeria riusciva a scavare così profondamente nei miei sentimenti più reconditi ed era capace di dirmi semplicemente, senza drammatizzare, quanto mi amasse di un amore che, in fondo, sentiva senza speranza.
In lei dietro la sua aria felice, aleggiava sempre un'ombra di tristezza che con grande tatto cercava di nascondere per non crearmi la benché minima ansia.
Le volevo bene ma lei sapeva perfettamente che non avrei potuto essere felice completamente senza un figlio mio. Era inutile nasconderlo, se Marisa non mi avesse piantato, ora in quel letto ci sarebbe stata lei e probabilmente nella stanza accanto avrebbero dormito i nostri figli.
Strinsi Valeria con grande senso di protezione e la sentii rilasciarsi tra le mie braccia, in un sonno liberatore dopo quella intensa giornata di strane coincidenze.
Rimasi a lungo sveglio nel buio accanto a Valeria che ora riposava tranquilla.
- Chissà, - mi domandai - che viso avrebbero i miei figli? -
Forse assomiglierebbero a Marisa, anzi certamente avrei voluto che somigliassero a lei, ma non solo nel viso e nello sguardo così ardente ed insieme dolce ma pure nel carattere schietto e pulito.
Toccavo sul cuscino, sciolti tra le mie dita, i capelli chiari e morbidi di Valeria e sentivo struggente il bisogno di accarezzare i riccioli neri di quella creatura che non solo non riuscivo a dimenticare ma che ancora amavo istintivamente.
Non potevo addormentarmi e nel silenzio della notte provavo una vera sofferenza ed un grande rimorso.
Stavo impietosamente analizzandomi ancora, tra la realtà di Valeria ed il sogno di riabbracciare Marisa, quando l'alba filtrò attraverso la finestra della camera, tenue e timida vestita di bianco.
Mi alzai senza far rumore e guardai fuori l'incanto della Croda Rossa dipingersi della nuova giornata che nasceva.
Eterne quelle rocce stavano di fronte a me inviolabili e quasi sacre: erano di una bellezza che mi emozionava, lontane e inarrivabili.
Pensai al Creatore di quella meraviglia e pregai.
- Signore mio Dio, proteggi Marisa dovunque sia. Fa che tutto quello che le hai donato di bello e di candido rimanga inattaccabile come la splendida realtà della Croda Rossa! -


Nel pomeriggio Bruna mi prese per mano e mi disse.
- Zio Guido ti devo far vedere una cosa-
A piccoli passi mi portò dietro l'albergo e mettendosi un dito davanti alla bocca per invitarmi al silenzio, mi portò in un angolo del giardino mostrandomi, sotto un mucchio di legna accatastata, tre gattini di non più di venti giorni.
- Guarda, - mormorò sottovoce - quanto sono bellini. Mamma gatta si è allontanata da un oretta ed io sono rimasta a fare la guardia perché ho paura che qualcuno faccia loro del male. -
Osservai contemporaneamente quei tre piccoli gomitolini bianchi che ancora non si reggevano bene sulle zampine e Bruna che era diventata tutta rossa in viso con gli occhioni spalancati per il desiderio che la stava divorando di toccarli.
- Chi vuoi che faccia del male a questi micetti! - esclamai sorpreso dall'interesse che la bambina dimostrava.
- Ho sentito una volta a Lecco,- rispose con vocina tremula - la mamma parlare con una contadina che le raccontava come ne avesse affogati nel lago quattro, nati nella sua casa, perché non avrebbe potuto mantenerli.-
Si fermò un attimo e poi riprese.
- Zio Guido non è giusto che facciano così anche con questi, io non ci voglio nemmeno pensare. Anche loro hanno diritto a vivere, non è vero? -
Bruna si era nel frattempo seduta incrociando le gambe a poco meno di un metro dalla nidiata ed aveva assunto un atteggiamento materno e di tenera ammirazione guardandoli.
- Cosa posso fare io? - le domandai vedendola così turbata.
- Un grande regalo, - esclamò rivolgendomi uno sguardo implorante - anzi, se mi fai questo regalo, ti prometto che il prossimo anno sarò la prima della classe. Devi dire al padrone dell'albergo che i gattini li portiamo con noi quando andiamo via da qui e che nel frattempo lo ritieni responsabile di qualsiasi cosa possa loro accadere. -
Capii che qualsiasi ragionamento di comodo sarebbe stato del tutto inutile poiché, intelligente com'era, avrebbe capito che li abbandonavo al loro destino. Inoltre anche a me dava fastidio il pensiero che potessero ucciderli così piccoli.
Le promisi tutto ciò che mi aveva chiesto e dichiarai.
- Giuro solennemente che uno ce lo portiamo a Roma io e Valeria mentre gli altri due li tirerai su, tu ed il tuo fratellino. Quanto al padrone, dovrà fare i conti con me se non ce li consegnerà perfettamente integri ed in buona salute. -
Quello che non potei immaginare fu la felicità di Valeria quando le raccontai il fatto, sicuro che mi avrebbe rimproverato per la mia decisione di portare a Roma un gatto di pochi giorni.
A lei invece brillarono gli occhi e mi disse.
- E’ il minimo che potevi fare e non per accontentare la bambina ma per te stesso. Sono convinta che non avresti dormito tranquillamente se li avessero soppressi. -
Valeria stabilì che la femmina l'avremmo tenuta noi ed i due maschi Bruna, ciò avrebbe evitato che la casa di Lecco si trasformasse nel tempo in una pensione per gatti.
Promisi a Bruna che avrei avvisato la sua mamma con una telefonata in modo che si preparasse ai nuovi ospiti e contemporaneamente le avrei detto che l'idea era stata tutta mia, per evitarle il più piccolo rimprovero.
La piccola mi ascoltò attentamente e la congiura che avevo architettato le piacque tanto che mi saltò addosso baciandomi e dicendomi.
- Quando sarò grande mi sposerò soltanto con uno come te! -






3

Riportammo Bruna a Lecco.
Iolanda e suo marito si erano raccomandati di essere puntuali per il 31 luglio perché l'indomani sarebbero partiti tutti e quattro per Lido di Camaiore.
- Un mese al mare d'estate, - mi aveva detto - non lo facciamo mai mancare ai bambini. Hanno tanto bisogno di sole per rifarsi dell'umidità di tutto l'anno e poi anch'io al mare mi trovo molto bene specialmente quando viene con noi il capo famiglia.
-Agosto, - aveva proseguito indicando Stefano - è l'unico mese che stiamo tutti insieme ventiquattro ore su ventiquattro e lui riesce a disintossicarsi dall'elettronica ridiventando un semplice marito e padre. -
Le avevamo promesso che saremmo stati puntuali anche perché noi avevamo prenotato due settimane a St.Moritz dal primo agosto e così arrivammo nel pomeriggio con Bruna, sul sedile posteriore dell'auto, che aveva armeggiato per tutto il viaggio con la cesta dove avevamo sistemato i gattini.
Iolanda fece buon viso ai nuovi intrusi e disse a Bruna.
- Li affidiamo tutti e tre per il momento alla tua maestra di francese. La vecchietta mi ha già detto che li terrà volentieri per il periodo che noi staremo al mare e poi quando la zia Valeria passerà per Lecco, al ritorno dalla Svizzera, si porterà via la femmina e la farà diventare una signora gatta nella sua casa sull'Appia.-
La bambina ci fece promettere ancora che l'avremmo tenuta e felice esclamò rivolta ai genitori e al fratellino.
- Poi vi racconterò quante cose mi ha insegnato lo zio Guido in così pochi giorni, però adesso voglio vedere cosa mi avete messo nella valigia e spero che non vi siate dimenticati le mie bambole! -
Tagliò corto e corse sopra a controllare. Quando tornò da noi il suo visino splendeva.
- Oh mamma che bello, - gridò tutto d'un fiato - hai voluto farmi una sorpresa con quell'orsacchiotto che mi hai comprato! -
- Lo chiamerò, - continuò seria - col nome dello zio e così mi ricorderò di lui ogni giorno. -
Ridemmo tutti ed io pensai che ero sfortunato a non avere una figlia specialmente se fosse stata come Bruna.
L'avrei voluta portare in Svizzera, ma non presi nemmeno in considerazione la possibilità di chiederlo tanto era chiaro che questo piacere non avrebbero potuto concedermelo.
Quando il giorno dopo, verso le nove, le nostre auto presero una la direzione nord e l'altra quella della Toscana, Bruna ci salutò tirandoci baci con la manina ed io e Valeria rimanemmo di nuovo soli e rattristati per la mancanza di quella bimbetta che sentivamo di amare e che ci aveva riempito di sé per una settimana.


St. Moritz era come al solito splendida e per quattro giorni ci riposammo alternando passeggiate e grande dormite.
Stavo incominciando ad annoiarmi quando la quinta notte Valeria si svegliò di soprassalto in piena notte agitatissima.
- Guido ho fatto un sogno orribile . Dimmelo tu che non devo credere ai sogni perché altrimenti io telefono subito a Iolanda e le dico di non fare uscire domani Brunetta dall'albergo.-
Ero abituato a quelle improvvise uscite notturne di Valeria che periodicamente faceva dei sogni angosciosi e che la mettevano in uno strano stato di agitazione assolutamente irrazionale
- Che sogno hai fatto questa volta? - chiesi non appena riuscii ad aprire gli occhi appiccicati dal sonno.
- Tremendo, Guido, tremendo, - disse accendendo la luce e mettendosi a sedere sul letto - ho visto Bruna annegata semisommersa al largo e nessuno che riuscisse a recuperarne il corpo! -
Per fortuna le premonizioni di Valeria erano sempre fuori dalla realtà ma, appena sentii che c'era di mezzo Bruna, saltai giù dal letto impressionato e spaventato come mi succedeva assai raramente.
- Lo sai che ti dico sempre che se sogni la morte di una persona viva, gli allunghi la vita. Ma come mai hai sognato proprio di Bruna? -
- Facciamo una cosa, - aggiunsi preoccupato, credendo invece che la mia voce avesse un timbro sereno e calmo - domani paghiamo il conto e torniamo in Italia. Finiamo le nostre vacanze al Circeo e cosi passeremo per Lido di Camaiore dove potrai riabbracciare la tua Bruna! -
Valeria mi osservò attentamente mentre concludevo e disse.
- Sono le tre, alle quattro partiamo ed alle dieci e mezza siamo da Bruna. La voglio vedere, Guido, la voglio toccare e voglio stare tutto il giorno con lei. -
Appassionatamente mi baciò e prima che dicessi qualcosa era già in bagno a prepararsi.
Feci finta di brontolare ma anch'io in pochi minuti fui pronto, rendendomi conto solo quando fummo in macchina che mi ero comportato come un bambino spaventato.
Mi feci forte dall'alibi che mi forniva Valeria per guidare la GTV a velocità folle: dicevo che la volevo tranquillizzare ma in realtà volevo tranquillizzare me stesso.
Quando verso le dieci arrivammo e vidi Bruna correrci incontro, finalmente riuscii a sorridere e pensai che la gattina bianca sarebbe rimasta a Lecco per sempre, nonostante le mie promesse, e Bruna avrebbe continuato a proteggere i gattini che da quella sarebbero nati
Avevo contribuito al trapianto di una nuova generazione di gatti bianchi dalla Val Pusteria alla Lombardia e questo mi riempì di soddisfazione quasi avessi ottenuto un premio speciale dall'associazione degli amici degli animali.


A dicembre ci fu la neve a Roma.
Aveva nevicato tutta la notte ed il mattino seguente, aprendo una delle finestre della sala, vidi tutto intorno quel manto immacolato come se fosse un sogno.
Due passeri saltellavano proprio sotto di me e non si spaventarono per il rumore che avevo fatto. C'era un silenzio irreale intorno e i piccoli abeti del nostro giardino avevano i rami così carichi che si piegavano per il peso. Non un alito di vento faceva muovere l'aria ed anche il cielo tutto grigio era affascinante e statico.
Solo quei due passeri alla ricerca di cibo, sembravano dirmi che fuori la vita continuava e che nulla era mutato dalla sera precedente.
Presi in cucina dal pane e lo gettai a piccole briciole verso di loro vedendoli poi sparire, uno dopo l'altro, con quelle preziose molliche nel becco.
Di là dormiva, apparentemente serena, Valeria e l'atmosfera particolare di quel mattino mi fece sentire ancora più solo di quanto non fossi. Era come se quella donna, a qualche metro da me, non mi appartenesse più. Tutto era stato come un gioco fra noi e come un gioco che duri troppo, avesse preso la strada della noia.
Quante speranze non realizzate avevo scritto, come un elenco minuzioso, nella mia memoria!
Assurdamente tutto era stato roseo per me nella mia professione e la fortuna era sembrata darmi con la destra ciò che mi aveva tolto con l'altra mano.
Mi accorsi di essere spaventosamente ingrato nei riguardi di Valeria perché lei aveva fatto tutto senza mai recriminare.
Nemmeno aveva tentato di persuadermi, in tutti quegli anni che mi era stata vicina con amorevole dolcezza, sul punto nel quale anche una donna non tradizionalista, né legata per convenzione alle regole della società, avrebbe potuto essere intransigente.
Aveva sì sperato che le proponessi di sposarla ma orgogliosamente ci aveva rinunciato ed io sapevo il perché: non mi aveva dato quel figlio che desideravo e si era autopunita rinunciando ad un matrimonio cui, in ogni caso, avrei acconsentito solo se vi fossi stato costretto per il bene di una nuova vita che Valeria mi avesse donato.
La mia fantasia si era esaltata alla vista di quei due passeri sulla neve.
Li immaginai mentre portavano quei pezzettini di pane ai loro piccoli ed un freddo vuoto mi assalì pensando che io non avevo da dare nulla a qualche essere indifeso al di fuori dei miei malati.
Eravamo una coppia ma non una famiglia mentre sentivamo che intorno a noi anche gli amici più cari ci escludevano quando si riunivano con i lori figli.
Tutta la tristezza che mi stava assalendo fu d'un tratto squarciata come una nebbia da un filo di sole perché avevo deciso che non avrei più continuato a chiedermi, come sempre più mi accadeva negli ultimi tempi, dove fosse Marisa e cosa facesse. Avrei agito ed avrei fatto qualcosa per rivederla almeno una volta, per parlarle. Non potevo più aspettare e rimandare al giorno dopo quel desiderio assoluto e quel bisogno.
La neve, quella cosa quasi dimenticata da me, era stata ciò che mi aveva svegliato dal mio torpore e giurai che avrei cercato Marisa anche in capo al mondo. Forse la sua nuova vita mi avrebbe deluso e forse mi avrebbe allontanato ma almeno non avrei continuato a sognarla ad occhi aperti.
Guardai l'ora, erano solo le sette. Un impulso irrefrenabile mi portò accanto al telefono. Le avrei parlato subito in quel momento e le avrei dato il buongiorno.
Feci lentamente il numero che ricordavo indelebile ed attesi palpitando una risposta. - Desidera? - rispose una voce d'uomo.
- La famiglia del generale Riccardi? - chiesi ansioso.
- Mi dispiace, - fece quello seccato - sono tre anni che hanno cambiato casa e credo che si siano trasferiti in Toscana, dove non so. -.
Rimasi avvilito con quella cornetta telefonica in mano e sentii dall'altro capo chiudersi l'apparecchio.
Allora i genitori non sono più a Roma ma lei Marisa dov'è?-
Riflettei -Non rinuncerò così facilmente a cercarla e darò l'incarico ad una agenzia di investigazioni ma non oggi con la neve, forse domani. -











CAPITOLO SETTIMO






1

Marisa entrò in camera mentre mi vestivo. Ero alla ricerca di una cravatta che intonasse con il maglione avana che la sera prima m'aveva regalato per il mio compleanno.
- Lascia che te la scelga io, - disse subito.
Mi voltai chiedendomi se fosse vero che lei era vicina a me, premurosa e radiosa nella pienezza della propria salute, dopo quei lunghi mesi di ansia e preoccupazione per la sua vista.
- Fai pure, - sorrisi mentre cercava nel mucchio di tutte quelle cravatte appese nell'armadio - ma non darmene una di quelle dodici che mi regalasti per la mia laurea; le ho quasi consumate a furia di metterle in questi anni, cercando qualcosa che mi tenesse legato a te! -
Marisa rise di gusto e porgendomene una verde a quadratini rossi ed azzurri mi si buttò tra le braccia.
- Allora ti ho sempre tenuto al guinzaglio e pensare che non lo sapevo! -
La spinsi sul letto e cadendo le si scoprirono le gambe nude tra la vestaglia apertasi davanti. La presi per i polsi e mi inginocchiai sul letto.
- Hai un grosso debito nei miei riguardi, - le sussurrai mentre mi guardava spalancando i grandi occhi neri - dobbiamo ricuperare il tempo perduto e dovrai chiedermi pietà se vorrai dormire una sola notte senza che ti tocchi! -
Marisa alzò le sopracciglia con aria di finta rassegnazione .
- Va bene, sarò la tua schiava finché lo vorrai e finché ce la farai... io ho riserve incredibili e intatte! -
Allentai la presa dopo averla baciata a lungo ed alzatomi dissi in tono serio.
- Tra un mese saremo marito e moglie ed il prete ci dirà: nel bene e nel male, per sempre! -
Non commentò e distrattamente si mise a spianare la coperta volgendomi le spalle. Mi avvicinai di nuovo e dolcemente la girai per riguardarla in viso.
Gli occhi le si erano riempiti di lacrime che le bagnavano le lunghe ciglia ricurve. Mi guardò attraverso quel velo di pianto ed appoggiate le braccia sulle mie spalle domandò.
- Sei sicuro Guido di quello che fai oppure esisterà sempre fra te e me l'ombra di Valeria ? -
Non la feci continuare e risposi.
- Amore mio, né Valeria né nessuna altra donna esisterà più per me fatta eccezione per una moretta che tu conosci bene! -


Sei mesi prima avevo ricevuto una lunga lettera di Valeria.
“Caro Guido, devi sapere che non te ne voglio per quanto è accaduto, sarebbe stato incredibile se ti fossi comportato in modo diverso.
Siamo stati felici insieme per sette lunghi anni ed abbiamo vissuto tutto quel tempo con un'unica regola sovrana: la sincerità.
Io non ti ho mai nascosto nulla di me e tu hai agito nello stesso modo. Qualsiasi pensiero, qualsiasi sentimento, ogni turbamento ed ogni gioia ce li siamo scambiati reciprocamente con infinita tenerezza ed amore. Ora capisco appieno cosa significa amare: è tutto quanto mi hai insegnato!
Ero una bambina capricciosa ed insicura quando hai voluto rimanere vicino a me nel momento più critico della mia vita, per farmi crescere e proteggermi dalla mia immaturità.
Sei stato generoso con me e mi hai ricostruita, nel profondo, meglio del miglior psicologo del mondo. Mi hai fatto capire ed assimilare che la vita distribuisce a piene mani incertezze ed insulti e mi hai resa forte e sicura, una vera donna coraggiosa.
Mi hai dato contemporaneamente affetto e carattere, quasi fossi stato un padre e dire che tu sei anche più giovane di quanto lo sia io e nello stesso tempo sei stato un uomo caldo ed un amante meraviglioso.
Mi hai guarito completamente e non nel fisico, perché come sappiamo madre natura mi ha fatto sanissima, ma nel carattere che è stato sempre fragile e delicato.
Quando mi raccontavi che non avevi avuto altre donne all'infuori di me e di Marisa all'inizio credevo che mentissi, ma poi, non appena ti ho conosciuto fino nelle minime sfumature , ti ho creduto.
Ti farei un grande torto ora se ti dicessi che ti sei sacrificato per me e questo significherebbe che non ho imparato niente. Lo so che non è stato così, mi hai amata e credo che ancora mi ami nel modo che andava bene per me sempre con schiettezza e sincerità.
Hai amato ed ami Marisa nel modo più congeniale per te perché è stato il tuo primo grande amore, colei che ti è stata disinteressatamente vicina fin da quando eri un modesto studente..
Forse tutto sarebbe rimasto così; anche se stentavo a credere che la fragile Valeria avesse conquistato una simile fortuna.
Avresti continuato ad amarmi ed avresti continuato ad amare il ricordo di Marisa se il destino(quello è l'unico punto sul quale non sei riuscito a farmi cambiare idea) non ci avesse messo lo zampino con quell'incontro casuale che avrebbe potuto costare la vita a te ed a Marisa.
Sai quanto ho sofferto per la morte di lui in corsa, sai anche che solo tu sei stato capace di rimarginare quell'enorme ferita. Cosa sarebbe accaduto se nella mia vita anche tu fossi finito nella stessa maniera?
Hai curato Marisa, povera figliola, ed hai fatto in modo che guarisse dalle conseguenze delle lesioni al nervo ottico, nello stesso modo e con la stessa passionale abnegazione che hai usato con me e come al solito non mi hai nascosto nulla spiegandomi e dicendomi ogni cosa.
Rimani pure con lei, dalle tutto il tuo amore: ha già perduto per causa mia sette anni incredibilmente meravigliosi!
Io andrò in giro per il mondo, ora, con altre prospettive.
Dedicherò la mia vita ai bambini abbandonati ed orfani: sento che lo devo fare proprio per me, dal momento che il destino ha voluto che non potessi avere un figlio tuo!
Amami ancora nei ricordi, tua per sempre. Valeria.”
Avevo letto e riletto con commozione ogni parola che Valeria mi aveva scritto ricordando lo spavento dei suoi incredibili occhi verdi quando mi era venuta a trovare non appena aveva saputo dell'incidente mentre giacevo immobilizzato, nel lettino della clinica ortopedica dell'ospedale di Catania.
Mi era stata vicina per due settimane ed era stata a trovare anche Marisa ricoverata nella clinica oculistica.
L'incidente era stato spaventoso: la Mercedes non aveva rispettato lo Stop ed aveva preso in pieno lo sportello dell'Alfetta, dal lato dove era seduta Marisa. Lei aveva battuto la tempia destra sullo spigolo del montante vicino al parabrezza, l'Alfetta si era rovesciata sul fianco sinistro e se eravamo rimasti vivi lo dovevamo alle cinture di sicurezza che Marisa mi aveva obbligato ad agganciare.
Solo quando le fratture cominciarono a consolidarsi Valeria mi aveva detto:
- Guido ora devi occuparti di Marisa; non badare a spese e falla visitare e controllare dai migliori oculisti europei. Deve guarire perfettamente, è una donna a cui devi tanto ed è unica come mi raccontavi. Io passerò un paio di mesi a Lecco; ho bisogno di rimanere sola per un bel po’! -
L'avevo stretta al petto, accarezzandole il collo dietro le orecchie come a lei piaceva tanto e le avevo baciato dolcemente la fronte.
- Ti farò sapere ogni giorno mie notizie ed anche tutto sulla salute di Marisa. Sei un vero angelo e ti voglio tranquilla e serena. -
All'aeroporto avevo visto sfrecciare verso il mare il DC9 che la portava a Milano.





2

La mia vita era improvvisamente cambiata in Sicilia quando meno me lo sarei aspettato.
A Taormina non c'ero mai stato e tutta quella folla che andava avanti e indietro nella Hall dell'albergo stava incominciando a darmi sui nervi perché non ero lì per divertirmi.
Il Congresso di cardiologia aveva sede in un altro albergo a cinquecento metri di distanza ma io avevo preferito avere una camera singola in quello più vicino al mare, perché speravo di farmi qualche nuotata di mattina presto e lunghe dormite di notte. La stagione turistica era in pieno svolgimento e Valeria aveva preferito rimanere a Roma dandole fastidio il seguirmi quando c'era di mezzo la mia professione, tanto più che a fine luglio avevamo progettato una breve vacanza in Tunisia.
Prima che partissi mi aveva detto.
- Cinque giorni passano in un lampo e voglio mettere in ordine la libreria del tuo studio. C'è una confusione spaventosa e i libri sono dappertutto meno che negli scaffali! -
Avevo sorriso.
- Basta che non ti metta a leggere qualche trattato e non sii troppo diligente, nella confusione riesco a trovare tutto mentre la cosa diventa problematica quando tu metti in ordine. -
Valeria si era accostata a me, aveva dato uno sguardo al mio vestito di lino azzurro ed aveva atteggiato la bocca in una smorfia di disapprovazione.
- Perché non ti sei messo quello avana, - mi aveva chiesto con aria da intenditrice - quello ti sta’ a pennello e poi ti dona di più. -
-Non devo fare conquiste, - avevo risposto baciandole la guancia - tuttavia ti informo che ce l'ho in valigia e cosi appena arrivo, con questo caldo, me lo trovo fresco e perfettamente stirato! -
L'indice di Valeria si era appoggiato sul mio pomo d'Adamo.
- Malandrino sei, -aveva cercato di imitare il dialetto siculo - ma bada Turiddu che Santuzza ti uccide con u cutieddu! -
Tutti e due avevamo riso ed io l'avevo pregata di non accompagnarmi a Fiumicino.
Ogni volta che dovevo partire preferivo uscire di casa come se andassi al Policlinico per il mio normale lavoro di Aiuto, anziché salutarla come se non dovessi tornare alla sera.
- Quando sarò di nuovo a casa, -avevo esclamato scompigliandole i capelli - fatti trovare bellissima perché alla fine della prossima settimana dobbiamo far faville in Tunisia! -
Mi aveva accompagnato fino al cancello della villetta, mi aveva baciato appassionatamente e salutandomi divertita aveva scherzato .
- Stai tranquillo quando torni non mi riconoscerai più, mi tingo i capelli in rosa pallido... e cosi dovrai dire in giro che hai ai tuoi ordini una fata! -


Chiesi alla Reception la chiave della mia stanza, ero stanchissimo.
- Altro che nuotate mattutine, - pensai - questo è un congresso micidiale; si lavora ininterrottamente dalle otto di mattina alle otto di sera tranne quel piccolo intervallo di un'ora per pranzare. -
Guardai l'orologio da polso mentre il portiere stava porgendomi la chiave; erano già le nove di sera ed eravamo appena alla terza giornata.
Il sorriso di Valeria mi venne in mente improvvisamente quando misi la chiave in tasca e mi incamminai verso l'ascensore.
- E un tour de force peggio di una maratona e pensare che lo hanno definito “vacanza di lavoro”. Scommetto che se le telefono non ci crede! -
Spinsi il bottone che indicava la salita ed attesi che l'ascensore scendesse dal quarto piano come indicava l'indice luminoso verde.
Mentre stavo riflettendo che avevo tanto sonno da non avere nemmeno pensato di cenare, la porta automatica si spalancò e mi trovai di fronte, avvolta in un grande scialle bianchissimo ricamato a mano, Marisa.
Per un lungo secondo rimanemmo immobili, poi la porta automatica si chiuse e poi ancora si riaprì.
Tesi la mano istintivamente e le afferrai un braccio tirandola fuori dall'ascensore e ci trovammo vicini senza che nemmeno una sillaba uscisse dalle nostre labbra.
Solo gli occhi parlavano un linguaggio muto ma incredibilmente chiaro; i nostri sguardi si erano incrociati, pupille nelle pupille.
Lei fissandomi con quei carboni ardenti che non avevo mai dimenticato ed io cercandovi dentro una scintilla di qualcosa che mi dicesse cosa avesse provato vedendomi.
La mia mano rimase chiusa sul suo braccio nudo ma nemmeno il contatto con la sua pelle mi illuminò, in quell'ansia che avevo di leggerle nel cuore.
Come svegliandomi da una subitanea anestesia, mi arrivò dal cervello un messaggio che mi fece aprire la bocca.
- Marisa, tu qui! -
Ero riuscito a formulare solo tre parole ma bastarono per sciogliere quel ghiaccio che in tanti anni era diventato tra noi più inattaccabile del granito.
- Come stai Guido, - bisbigliò con un sorriso appena accennato che tuttavia mise in luce tutto la bellezza immutata del suo viso - che sorpresa è stata rivederti dopo tanto tempo! -
Di colpo mi sentii rinfrancato. Avevo temuto per un attimo che Marisa mi avrebbe potuto liquidare con qualche frase fredda e distaccata.
- Senti Marisa, - le dissi prendendola sottobraccio e cominciando a camminare verso l'uscita della hall - io non ho mangiato niente. Che ne dici, se non hai altri impegni improrogabili, di cenare insieme a me. Sono le nove e penso che anche tu abbia un discreto appetito! -
- Non mi dispiace, - rispose con un lieve tremore sulle labbra - però devo avvisare i miei amici che mi stanno aspettando fuori sulla terrazza. Resta un attimo qui, ritornerò tra un minuto, anche se il primo impulso è stato quello di fuggire. -
La seguii con lo sguardo mentre si allontanava e scrutai il profilo dei suoi fianchi flessuosi. Era elegantissima in quel vestito di seta giallo pallido e per nulla cambiata fisicamente.
- Oh mio Dio, - domandai a me stesso, - e se non tornasse più? -
Ero certamente pallido quando la rividi avvicinarsi. Socchiusi gli occhi mentre una cocente gelosia si stava impadronendo di me nella certezza di averla ormai perduta per sempre e un impulso assurdo, passionale stava per vincere ogni logico ragionamento.
- Eccomi di nuovo a te, - esclamò con voce tranquilla - dove mi vuoi portare? Spero che ti ricordi che sono golosa di pesce! -
- A costo di girare per Taormina fino a mezzanotte, - le risposi controllando l'emozione che provavo - troverò un ristorante dove preparano solo specialità marine! -
Ogni stanchezza era svanita, mi sentivo quasi drogato dalla sua presenza: la mia Marisa vicino a me! Quante cose dovevo dirle, quanti interrogativi porle cui non avevo mai potuto dare una risposta!
E lei, sempre così semplice e bella, cosa sapeva di me e cosa poteva pensare ora? Mille domande senza risposte perché non avevo il coraggio di dirle quanto ancora l'amassi.
Camminammo lentamente ma non chiese nulla, né allora né poi durante la cena. Ogni mia parola riusciva vuota e priva del tutto di ciò che mi stava più a cuore e che mi bruciava sulla lingua.
Ma parlavo, parlavo e lentamente le raccontai quasi in una cronaca, come avevo vissuto in quegli anni.
Quanta amarezza e dispetto avessi provato nei primi tempi e quanto vivo avessi tenuto il suo ricordo, pur nella apparente pace che Valeria era riuscita a crearmi intorno, non sapevo confidarle.
Era troppo difficile ricominciare là dove il nostro discorso si era interrotto, ma alla frutta, dopo che le avevo detto del motivo per cui mi trovavo a Taormina, le afferrai d'impulso le mani ed implorai.
- Mi stai facendo morire lentamente, Marisa, come fai a non accorgerti che mi sto distruggendo di gelosia perché non so nemmeno se sei sposata o hai un altro uomo! -
- Ti prego, - supplicai ancora - dimmi qualcosa! Io non resisto più!
Una profonda tenerezza le illuminò lo sguardo e dopo aver stretto le mani a sua volta sulle mie, cominciò.
- Ti ho sempre nel cuore e ti ho ascoltato finora pur sapendo già tutto di te e di Valeria. Non te ne sei accorto ma, per più di un anno, ho spiato ogni cosa che ti riguardava ed ho sperato, tanto sperato, che tu tornassi da me.-
- Non ho potuto dimenticarti e dal momento che non ho mai cessato di amarti, non ho voluto altri uomini nella mia vita. Non ho mai fatto niente per incontrarti, anche se l'unica cosa che mi importasse era di vederti ancora. Mi conosci troppo bene per sapere che sono tremendamente fedele ai miei sentimenti. -
- Voglio sapere finalmente da te, - aggiunse dopo una lunga pausa fissandomi negli occhi - se non mi ami più! Nessun altro può dirmelo e solo tu puoi spingermi nelle braccia di un altro quando saprò che ho sbagliato ad aspettarti! -
Mi alzai dalla sedia di fronte e mi misi a sedere vicino a lei accarezzandole le mani bianche e gentili che tante volte mi avevano dato brividi di piacere.
- Marisa, - sussurrai commosso - tu sei più dell'amore, ti ho sempre desiderata e sono come un folle, geloso. Quello che ho fatto è stata una cattiveria stupida e maligna. Avrei dovuto correrti dietro quel giorno a Piazza Navona e supplicarti di rimanere con me, ma bruciavo solo di orgoglio e non ero capace di ragionare.
- Voglio bene anche a Valeria che mi ha dato tanto per ripagarmi di quanto le ho fatto per reinserirla nella vita che odiava e di cui aveva paura. Solo ora posso dirti che se ti ho fatto soffrire, se ho meritato di essere dimenticato da te è perché ciò doveva succedere inevitabilmente. Responsabile è stato questo mio carattere strano, attento solo al contingente ed accecato dalla bramosia di arrivare subito ed ad ogni costo.-
- Amo te e provo tenerezza per Valeria, ma una cosa ho imparato a mie spese: non ti posso perdere più! Valeria ora è guarita e dovrà capire. -
Marisa piegò la testa appoggiandola sulla mia spalla, senza parlare, le mani nelle mani in quell'angolo del ristorante ormai vuoto.
Sembravamo , agli occhi incuriositi del cameriere che ci portò il conto scusandosi perché dovevano chiudere, due ragazzi che tubavano silenziosamente.
Era subentrata in noi una pace così profonda che uscendo dal locale mi sorpresi a pensare che ancora non ci eravamo scambiati nemmeno un bacio.
La luna all'orizzonte pigramente stava cullandosi nell'ultimo tuffo verso il mare per scomparire ed ogni stella luccicava in cielo pulsando sopra di noi come fiammella ardente. La sabbia della spiaggia era ancora morbida e calda quando ci sdraiammo vicino alla risacca che scandiva lentamente il tempo.
Ogni pausa del nostro agitarsi nella danza eterna dell'amore sembrava celestiale e solo quando all'alba sentii il corpo di Marisa rabbrividire, per il primo freddo del mattino, capii che eravamo rimasti tutta la notte uniti come in un solo corpo.


Il giorno dopo non andai al congresso. Verso mezzogiorno ero dietro la porta della sua camera e la sentii cantare una canzone allegra in inglese.
Bussai contemporaneamente forte e discretamente e quando mi disse di entrare, che la porta era aperta, la vidi uscire dal bagno con indosso solo un paio di bianche mutandine.
Mi si buttò tra le braccia ed io la sollevai dal pavimento stringendole la vita sottile . Non aveva un chilo in più rispetto alla corpo prerfetto di anni prima e mi sembrò leggera e morbida come una piuma. Facemmo un paio di piroette e quando cademmo ridendo sul letto, io sotto e lei sopra e le mie labbra accese ed ebre cercarono con bramosia i suoi verginei capezzoli , saltò in piedi esclamando.
- No Guido! Questa notte abbiamo esagerato, ora aspetta che mi vesta perché desidero che mi porti in giro; ho ancora tante cose da chiederti e da dirti.-
Convenni che non era il momento di ricominciare ed al telefono ordinai che mi facessero trovare pronta una Alfetta, a noleggio.
Scendemmo una mezz'ora dopo ed io le proposi.
- Vogliamo andare a vedere l'Etna?-
Gli occhi di Marisa brillarono.
- Anche in capo al mondo, - sorrise - ma con te! -
Misi in moto la mia auto preferita.
Il cielo era di un azzurro intenso pulito come in quel momento mi sentivo io, pulito e liberato da ogni apprensione e da qualsiasi malinconico rimpianto.
Il godimento di starle di nuovo vicino, era più forte della passione che mi aveva ubriacato tanti anni prima quando l'avevo conosciuta. Era come se la pienezza della mia condizione di uomo fosse adesso completata dalla sua presenza e solo da quella. Sentivo che non avrei potuto più farne a meno e mentre l'Etna si avvicinava maestosa ed antica, un colpo di ariete colpì a destra la macchina e mi ritrovai incastrato tra lo sportello e il volante della vettura.


Il trauma alla regione temporo-parietale destra era stato violento e quando Marisa si svegliò dallo stato di commozione cerebrale, in cui era precipitata, mi vide chino su di lei.
Non avevo voluto lasciarla in quelle lunghe ore di paura benché i medici mi avessero intimato di sottopormi ad esami radiografici per constatare l'estensione delle fratture alle costole che avevo riportato.
Non me ne importava niente di ciò che mi era capitato nell'incidente e del dolore che non mi lasciava nemmeno respirare. In quel momento solo Marisa era importante, la mia Marisa piombata nel buio di una notte senza luce dal giorno sfavillante di sole che stava vivendo.
Mi resi conto che mi aveva riconosciuto ma capii che non vedeva bene con l'occhio destro. Non riusciva a parlare che con fatica.
- Guido, - bisbigliò stordita - meno male che siamo vivi! -
Le dissi di non preoccuparsi che tutto era a posto ma lei continuò.
- Non vedo bene con l'occhio destro, mi sembra di avere un velo grigiastro che mi è calato davanti. -
- Non è niente, - le mormorai avvicinandomi ancora di più,- probabilmente è l'ematoma palpebrale che ti dà fastidio. -
Mentivo perché sospettavamo una lesione retinica, e così non appena uscii dalla sua cameretta, quasi piegato in due per il dolore lancinante al torace, volli parlare immediatamente con il primario del reparto.
- Faccia tutti gli accertamenti possibili, caro collega - implorai - e se ne vedesse la necessità e se lo ritenesse opportuno, vorrei che me lo dicesse sinceramente. Se sarà necessario provvederò a trasportarla in un centro più attrezzato. -
Mi confermò che non esisteva nessun sospetto di lesioni cerebrali e contemporaneamente mi disse che dovevo pensare anche a me, perché solo se mi fossi trovato in buone condizioni avrei potuto aiutare in modo fattivo la mia giovane compagna.
- Ora non può fare proprio niente per lei - concluse stringendomi la mano - la lasci riposare e si ricoveri pure lei per favore! -
Ritornai ancora per qualche minuto vicino a Marisa e solo quando la vidi tranquilla le dissi che dovevo sottopormi anch'io a controlli medici ma che in pochi giorni saremmo usciti tutti e due guariti.
- Verrò ogni giorno a trovarti tanto il reparto ortopedico sta’ a cento metri da qui, anche se mi proibissero di alzarmi dal letto. Non ti lascerò sola. -
Con una carezza la salutai ma il timore che per Marisa il danno fosse serio mi assillò per mesi.
Non potevo crederci, la teoria di Valeria sulle sventure umane legate a certe persone sembrava reale. Ma cosa mai mi veniva in mente! No, non era possibile che il mio amore portasse male a colei che rappresentava l'unica cosa veramente irrinunciabile per me oltre al mio lavoro.
Più probabilmente, l'obbligo di curarla con ogni mezzo possibile e di assisterla con completa dedizione, ero lo scotto che avrei dovuto pagare per essere felice.






3

Almeno avevo la consolazione che Marisa non stesse soffrendo quel caldo spaventoso il più atroce da quando c'eravamo sposati.
Lei non voleva ma io mi ero imposto per farle passare le due ultime settimane di gravidanza nella clinica provvista di un razionale reparto ostetrico diretto dal mio collega responsabile della Cattedra di Clinica Ginecologica dell'Università.
Si trattava di una clinica privata, a qualche chilometro dalla nostra casa, posta su di una collinetta piena di alti pini.
Non era di lusso eppure ogni camera aveva l'aria condizionata, inoltre da quando c'eravamo trasferiti da Roma avevamo potuto risparmiare parecchio perché in quella cittadina di provincia, il cui unico vanto era l'Università e l'Ospedale, si spendeva veramente poco.
Avevo vinto la cattedra di Patologia Medica ed era appena finito il mio primo anno accademico di lezioni tanto che quel mattino di fine giugno, dovevo iniziare il secondo appello d'esame.
Ero stato a trovare Marisa alle sette di mattino, il giorno dopo che l'avevo fatta ricoverare e l'avevo trovata già sveglia e sorridente con il grosso pancione che sollevava il lenzuolo e la camicia da notte tutta rosa, comprata la settimana precedente in attesa del lieto evento. Non aveva voluto sapere, e nemmeno io, il sesso del nascituro ed era stata sufficiente la garanzia del mio collega che l’ecografie risultavano perfette.
- Se vuoi una femminuccia - le avevo detto - te ne prendo una rosa altrimenti azzurra. -
Mi aveva baciato ed aveva sospirato .
- Rosa se non ti dispiace, preferisco una femminuccia come primogenita, poi avremo tanto tempo per fare almeno un paio di maschiacci. -
- Lo sai, - aveva aggiunto sorridendo- come si dice dalle mie parti? Nelle case per bene entra per prima una femmina e noi siamo persone perbene! -
Ero più in ansia io che lei anche se il mio collega ostetrico, che l'aveva seguita per tutta la gravidanza, mi aveva ripetuto infinite volte che non c'era alcun problema. L'unica cosa che aveva consigliato era stata di farla entrare in clinica un paio di settimane prima del termine, in previsione di un parto anticipato di qualche giorno e così avevo fatto.


Era stato un periodo durissimo quello che avevamo passato negli ultimi tre anni da quando Marisa era rientrata nella mia vita.
In pratica non avevo più lavorato privatamente e si viveva solo con il mio stipendio di Aiuto.
Poi la grande occasione della Cattedra di Patologia Medica, in quella cittadina, mi aveva moltiplicato energie e volontà ed avevo passato intere nottate a studiare in vista del concorso.
Risultai il primo e per i lavori presentati e per l'esame vero e proprio e così i miei nuovi studenti avevano un professore giovanissimo che tuttavia avevano battezzato “la Belva”.
Da cosa fosse nato quel soprannome non riuscivo a capirlo.
Erano state forse le mie continue sollecitazioni alla perseveranza, nella frequenza delle lezioni e delle esercitazioni, in cui esigevo la firma di ognuno di loro, che aveva impressionato.
Poi la voce che ero arrivato a quel posto di prestigio solo per meriti personali aveva fatto il resto.
Sentivo il bisogno di impartire loro, subito, una forte disciplina e chiedevo un grande sacrificio di applicazione perché, non mi stancavo di ripetere, senza la profonda conoscenza della fisio-patologia non avrebbero potuto impadronirsi della materia.
Al primo appello avevo fatto un breve fervorino consigliandoli di non presentarsi se non ritenevano di avere la coscienza a posto. Benché avessi cercato di essere piuttosto di manica larga, essendo quelli i primi esami che facevo nella veste di Direttore di Cattedra, avevo bocciato il cinquanta per cento degli esaminandi.
Almeno tre volte al giorno andavo a trovare Marisa. Ma il giorno prima che iniziasse il secondo appello, avevo anticipato a mezzogiorno la mia seconda visita per portarle un gran mazzo di rose rosse e per dirle che l'indomani sarei tornato solo di primo mattino ed alla sera a causa degli esami.
Entrai nella sua camera ma non vidi nessuno, il letto era vuoto.
Uscii di corsa dalla stanza e chiesi alla prima infermiera capitatami davanti cosa fosse accaduto.
- La signora ha iniziato il travaglio due ore fa ed ora è in sala parto.-
Rimasi di stucco con il grosso mazzo di rose nelle mani e mi ritrovai a passeggiare su e giù per il corridoio.
Avrei potuto entrare da lei ma me ne mancava il cuore. La mia Marisa stava per avere un bambino, un figlio tutto nostro ed io non l'avrei potuto aiutare.
Rivolsi un pensiero al cielo, come un marito qualsiasi, pregando che tutto andasse per il meglio e dieci minuti dopo vidi uscire un collega ostetrico rilasciato e sorridente.
- Complimenti,- esclamò sorridendo e soddisfatto - è una femmina e tua moglie sta’ benissimo. -
Rimasi senza parole e seppi solo stringergli la mano.
Non vedevo l'ora di rivedere Marisa, la mia donna, colei che aveva tanto sofferto per me e che mi aveva ripagato di quelle pene regalandomi un figlio.
L'emozione che sentivo era immensa; mi pareva di toccare i vertici della felicità ed appena lei uscì, pallida e stremata sulla lettiga, le corsi incontro baciandole le guance diafane. Sollevò il braccio libero dalla fleboclisi e mi accarezzò il viso sussurrando.
- Hai visto, ce lo ho fatta e senza il tuo aiuto questa volta! Dimmi che sei felice amor mio, lo voglio sentire! -
- Sto impazzendo di gioia, - le mormorai piegandomi su di lei e accarezzandole il volto - ti amo tanto mia piccola selvaggia, sei bella come un angelo! -
Guardai poi quell'essere piccolo che avevano messo nel nido, tutto avvolto di panni bianchi, attraverso la vetrata di cristallo e vidi per la prima volta mia figlia con i capelli neri come la madre e con gli occhietti chiusi dalle ciglia lunghe e folte e piansi lacrime di contentezza. Era il ventinove giugno ed ero diventato padre per la prima volta: la mia più grande speranza si era realizzata e la mia strada iniziava da quel giorno un cammino in ascesa sicuramente splendido come il sole che fuori illuminava ogni cosa intorno.


Il giorno dopo entrai nell'Aula di Patologia Medica raggiante e tutti gli studenti mi vennero incontro per felicitarsi. Ringraziai ognuno e mi sedetti al tavolo di esame.
Guardai i libretti accumulati alla mia destra; erano una vera pila perché tutti volevano essere interrogati quel giorno. Non dissi niente e presi il primo.
- Parlami del quadro clinico e delle alterazioni ematologiche ed istologiche proprie del Morbo di Hodgkin. -
La giovane mi guardò spaventata mentre io girai lo sguardo scrutando il cielo al di là della grande finestra e pensai se nel pomeriggio il tempo sarebbe rimasto così stupendo e se avessi trovato Marisa già seduta sulla poltrona.
Non avevo nemmeno notato che tipo fosse quella ragazza che ancora non rispondeva alla mia domanda, né aprii il suo libretto per guardare che voti avesse ottenuto negli esami precedenti.
Lei continuava a spostare lo sguardo da me al libretto come per sollecitare la mia curiosità.
L'avevo fatto anch'io ai miei tempi data la mia alta media e qualche volta ero riuscito a spuntare, al di là dei miei meriti, un voto più alto proprio per l'impressione positiva che l'esaminatore aveva ricevuto da quella costellazione di trenta che riempivano il mio libretto.
- Allora, - sollecitai la studentessa - conosci i linfogranoloma maligno o no? -
Questa volta la guardai dritta negli occhi. Era terrorizzata per il tono della mia domanda più che per la sostanza. Era come se uno spesso sipario le fosse calato sulla memoria e capii che pensava che la nascita di mia figlia non poteva avermi ammorbidito.
- Professore mi scusi, - mormorò - non mi sento bene . L'argomento lo conosco ma mi è successo qualcosa per cui è meglio che ritorni un'altra volta. -
Sperava che non scrivessi: “respinta” e che accettassi quella dichiarazione per permetterle di ripresentarsi, senza rovinarla, con una bocciatura.
- Cara signorina, - sorrisi benevolmente- come preferisce. Se si alza da quella sedia si scava la fossa con le sue mani, se invece mi fa capire che conosce la malattia che le ho chiesto forse possiamo andare avanti. -
La biondina dagli occhi castani si fece forza e cominciò ad illustrarmi l'Hodgkin esattamente con riferimenti precisi alle alterazioni istologiche dei linfonodi e degli altri organi interessati. Quando ebbe finito esclamai.
- Ha visto che sta andando bene? -
Mi risponda ancora ad un paio di domande e la mando via con un ventisette!
Rispose esattamente ed io mantenni la promessa.
La ragazza si alzò con gli occhi lucidi.
- Professore sapevo che con lei bisognava sudare e le dico che per me è un vero maestro, capace di scindere la vita privata da quella professionale. Qui tutti credevamo che l'esame oggi si sarebbe risolto facilmente con qualche battuta. Ci ha richiamati al nostro dovere e la mia interrogazione ne fa testo. Personalmente la ringrazio, non per il voto, ma per la lezione di vita che mi ha dato. -
Riflettei a come fosse uguale e diversa quella generazione alla mia. Chi avrebbe avuto il coraggio di parlare così, davanti a tutti, quando io ero studente. Quella che avevo davanti era la generazione che non aveva visto la guerra e che era stata nutrita a bistecche e a vitamine. Apparentemente timida ma coraggiosa e intelligente e soprattutto sincera e senza peli sulla lingua.
Con un sorriso congedai la giovane studentessa. e mentre un altro prendeva il suo posto davanti a me, pensai a quella neonata che aveva visto la luce poche ore prima e che era mia figlia e mi domandai quali sorprese mi avrebbe riservato quella pupetta che nel duemila non avrebbe avuto ancora trent'anni.













CAPITOLO OTTAVO





1

Pér dare il nome alla piccola, Marisa ci pensò per più di una settimana; all'ultimo prese tre foglietti di carta li piegò accuratamente e mi disse.
- E' troppo arduo per me, devi aiutarmi nella scelta. Prendine uno a caso e mentre io chiudo gli occhi dimmi il nome di nostra figlia. -
Sorrisi senza commentare.
Per Marisa era di estrema importanza come chiamarla così piccola ed indifesa che ogni volta che piangeva pareva chiedere aiuto.
Il nome avrebbe dovuto accompagnarla per sempre, a casa, a scuola e poi nella vita ,come qualcosa di assolutamente indelebile ed immutabile, quasi una definizione.
Doveva essere femminile, non troppo comune e nemmeno raro; doveva essere non troppo breve né troppo lungo e non doveva far ricordare personaggi importanti.
Avvicinai la mano sul tavolo, presi il foglietto di mezzo e lessi ad alta voce: Debora.
Così la battezzammo con una gran festa di parenti ed amici e quando la sera rimanemmo soli chiamai Marisa, che aveva appena messo nella culla la bimba e le domandai.
- Mi devi dire perché tra i tre nomi hai messo quello di Debora? -
- Era quello che più mi piaceva, - disse illuminandosi di gioia - ma anche gli altri due non erano mica male. -
- Erano belli? - chiesi incuriosito dal momento che non avevo aperto gli altri due biglietti. -
- Ora non ha più importanza, - rispose baciandomi - ora c'è solo Debora che esiste, unicamente Debora che devi amare oltre a me! -
Marisa e Debora le mie donne!
Due nomi e due legami viscerali e non avrei più sentito dire da tutti “Professore quando arriva la cicogna, non le sembra che un figlio completerebbe la sua famiglia?”
Ormai viaggiavo verso i quaranta. Ero ancora giovane ma i calcoli erano semplici. Quando avrei avuto cinquant'anni Debora avrebbe festeggiato il decimo compleanno e quando sarei arrivato ai sessant'anni, il ventesimo.
Se volevamo avere altri figli, io e Marisa avremmo dovuto affrettarci altrimenti sarebbe stato meglio rimanere solo con Debora.
Guardai Marisa negli occhi.
- Lo sai tesoro, - esclamai contento - cosa pensavo giorni fa? -
- No dimmelo, - fece lei incuriosita.
Le raccontai delle mie riflessioni sulle nuove generazioni a venire alle quali apparteneva Debora.
- Non ti fare venire il mal di testa per questo - mi interruppe dopo un po’ - i giovani sono sempre giovani e l'uomo è sempre lo stesso! -
- Vedrai che Debora, - proseguì - sarà simile a me ed alle centinaia di ragazze che sono state le tue e le mie compagne. Che differenza vuoi che ci sia dal momento che è del tutto uguale ad una bambina nata cento anni fa’? -
Il vagito di Debora ci distolse da quella discussione ed entrambi corremmo nella sua stanza a guardarla increduli di avere in casa qualcuno che avesse bisogno di noi.


Debora smise di accarezzare il cucciolo e alzò la testa. Era molto pallida, il morbillo l'aveva stremata in quella forma violenta con cui si era manifestato e con quella febbre altissima, durata più di una settimana.
- Papà, - chiese a bassa voce tenendo il braccino steso fuori dal letto e la mano ferma sulla testa del pastore tedesco che le avevo regalato un mese prima, in occasione del suo quinto compleanno - perché non sei venuto oggi a casa come mi avevi promesso? Ti ho aspettato tutto il giorno insieme a Cin-Cin che non si è mosso da qui. -
Avevo avuto da fare in clinica. Come al solito problemi assillanti e improvvisi mi avevano tenuto occupato tutto il giorno ma al mattino, baciandola per salutarla, le avevo giurato che sarei stato il pomeriggio con lei a raccontarle favole ed a giocare. Mi avvicinai al lettino cercando di farmi perdonare e sedendole vicino le accarezzai i folti capelli neri raccolti di dietro in due trecce minuscole e curiose.
- Sai bene, tesoro mio, che la professione del papà è piena di impegni pressanti e sai anche che non li posso scansare. Fammi un bel sorriso e considerami assolto per l'appuntamento mancato. -
Debora rimase ancora imbronciata e socchiudendo gli splendidi occhi incorniciati da ciglia fittissime e ricurve, quasi fosse una bambola, disse aggrottando la fronte.
- Anch'io sono malata ed era tuo dovere di medico venirmi a visitare. Ho pensato che mi vuole più bene Cin-Cin di quanto me ne voglia tu. -
Non era la prima volta che mi rimproverava aspramente e per me era motivo di grande dolore sentirla parlare in quel modo. Sapevo di essere in torto per le numerose promesse non mantenute anche in altre occasioni, ma vedevo che la bambina, estremamente sensibile, non riusciva a perdonarmi facilmente pur conoscendo che tipo di vita disordinata conducessi a causa del mio lavoro.
- Fammi vedere la gola, - sussurrai baciandola sulla fronte e cercando di cambiare argomento di conversazione - e vediamo quando potrai uscire in giardino a prendere un po’ d'aria. -
- Hai un visino, - aggiunsi scuotendo la testa, - sei sciupata, ed io invece ti voglio vedere colorita e al solito sbarazzina e vivace. -
Debora fece un cenno di dissenso e si sforzò di non piangere, poi con voce rotta dai singhiozzi esclamò.
- Non ti faccio vedere niente e poi la gola me la ha già vista la mamma almeno tre volte oggi. Tu arrivi sempre in ritardo ma per fortuna c'è la mamma che mi sta sempre vicina .-
Così, rivolgendo dall'altra parte il visino , ammutolì e mi fece sentire impotente ed umiliato nel mio orgoglio di padre.
Il primo impulso fu di darle uno schiaffo sul culetto ma non l'avrei mai potuto fare anche se mi avesse detto di peggio.
Debora mi dominava e mi condizionava psicologicamente e la sua estrema sincerità, priva di ogni calcolo, mi ricordava quella di Marisa. Era, secondo un ragionamento che spesso mi ero fatto, frutto di coraggio e personalità e quindi un pregio che avrei dovuto solo ammirare.
Stesi una mano verso quelle trecce impertinenti, tirandole delicatamente per farle girare il viso dalla mia parte. Poi le sussurrai con tono di dolce rimprovero.
- Va bene, lasciamo perdere per questa sera, ne riparleremo domani. Adesso scendo e ti mando la mamma per la preghiera. Buonanotte, angelo mio, ti do un grosso bacio e ti auguro di fare sogni d'oro. -
Sperai ancora, per qualche istante, che la piccola si buttasse fra le mie braccia per farsi coccolare. Sentii da basso Marisa che mi chiamava per la cena ed uscii da quella cameretta, che avevo voluto piena di giocattoli e tutta rosa, abbattuto.


Un vestitino bianco, a fiori gialli e rosso, nuovissimo attendeva di essere indossato mentre Debora, in piedi sul letto, continuava a saltare ridendo degli inviti di Marisa di sbrigarsi.
Seduto sulla poltroncina, accanto al piccolo scrittoio osservavo mia figlia con attenta ammirazione.
Il corpicino snello si era trasformato velocemente in quello di una signorina; fianchi e seno si stavano disegnando prepotentemente e le gambe tornite avevano nelle caviglie snelle e sottili il completamento della perfezione.
- Fa’ la brava, - urlò Marisa spazientita - ormai hai tredici anni e non è possibile che non passi giorno che non mi fai arrabbiare! -
L'esuberanza di Debora era contagiosa, così come il suo continuo provocare Marisa mi faceva sorridere.
- Mi vesto, - esclamò continuando a saltellare sul letto - solo se me lo dice papà. Quel vestito è orribile e tu non hai gusto nel comprare perché sei antiquata mentre papà conosce bene la moda giovanile. -
Marisa le afferrò una gamba e Debora cadde a sedere sul letto.
- Come sarebbe, - replicò Marisa adirata - sta’ a vedere che tuo padre è diventato improvvisamente un intenditore di moda femminile! -
- Non proprio, - sospirò Debora incrociando le gambe e facendo il verso alla madre - ma almeno lui capisce la gioventù perché sta a contatto di gomito con gli studenti mentre tu, da qualche anno, sembri proprio una pensionata: mi fai da balia, mi insegni un po’ d'italiano e d'inglese ed anche a suonare il pianoforte..., ma in fondo sei quasi fuori dal mondo.-
Marisa la guardò meravigliata negli occhi impertinenti e subito dopo rivolgendosi a me esclamò.
- Hai sentito Guido? Questo è il suo modo di ringraziarmi per tutto quello che le faccio, sono proprio una stupida! Altro che rinunciare all'insegnamento per darle, con il mio affetto, una educazione corretta in ogni minuto della giornata! Non mi sembra che ne è valsa la pena con questi risultati. -
Vedevo con chiarezza che Debora lo faceva apposta ad essere insolente ed il motivo che la spingeva a quelle intemperanze verbali era solo quello di fare dispetto a Marisa per farsi bella con me.
Più di una volta mi aveva sussurrato, senza farsi vedere dalla madre, che non usciva volentieri di domenica perché la Messa le sembrava barbosa e con Marisa, si annoiava a morte dal momento che se non si andava in Chiesa erano guai.
- Studio tutta la settimana, - mi aveva detto un'infinità di volte facendomi gli occhi dolci - e sarebbe il caso che tu mi portassi a fare qualche bella gita mentre la mamma va ad ascoltare quel cretino del prete. -
- Mi piacerebbe, - aveva continuato - che la gente ci guardasse e dicesse “guarda che bella coppia sembrano quasi fidanzati”. -
Perché avesse una così profonda gelosia verso la madre non riuscivo a capirlo anche se spesso ci aveva visti tubare come due colombi davanti a lei ed anche se, ogni volta che tornavo a casa, il mio primo pensiero era sia per Marisa e sia per Debora..
Prima che le cose precipitassero e giungessero ad un punto critico intervenni di autorità.
- Mi sembra, cara la mia Debora, che stai dimenticando il tuo ruolo; non ti permettere più di parlare alla mamma in questi termini se no va a finire che ti mando in un bel collegio di suore. -
- Ok..., mi vesto ed ubbidisco. Dove mi portate oggi cari genitori? -
Sentenziò Debora improvvisamente seria, - e quale splendido programma avete deciso? -
Avessi avuto due figli forse le cose sarebbero andate meglio.
Marisa viziava Debora ed io non le ero secondo. Non le facevo desiderare niente ed appena accennava a qualsiasi cosa era immediatamente accontentata.
Debora faceva una gran fatica a ringraziare e nelle sue parole sentivo sempre una sottile ironia ed anzi sembrava che lo facesse apposta a pretendere sempre di più, ridendo sonoramente quando non riuscivo a trovarle ciò che desiderava.
Il suo era un modo come un altro per mettermi alla prova.
Quella ragazzina mi voleva solo per sé e trascurava anche le sue coetanee per starmi vicino. Mi amava quasi morbosamente ed io non sapevo come agire temendo che un giorno quell'amore si sarebbe trasformato in un odio profondo nei miei riguardi.
Anche in quel momento ogni altra riflessione svanì dalla mia mente e rimasi con lo sguardo assente e lontano che inseguiva Debora e la sua adolescenza già colma di problemi esistenziali.






2

Quella donna, dal modesto vestito scuro e dagli occhi infossati e rossi di pianto con qualche filo bianco nei capelli castani lisci, mi fermò appena ebbi finito il giro delle visite in corsia.
- Professore, - sussurrò balbettando - come stanno i miei figli? -
La guardai attentamente . Il pallore del suo viso era quasi livore mortale e le labbra sottili e screpolate avevano un sottile tremito di paura.
- Lei è la mamma, - domandai appoggiandole una mano su un braccio - di quei due fratelli ricoverati da cinque giorni per overdose? -
La donna piegò il capo in senso affermativo e subito dopo implorò.
- C'è qualche speranza professore? Non mi sono mai mossa da qui in questi giorni ma nessuno mi ha voluto dire niente. La prego, mi dica la verità e lo faccia per una madre che non ha più lacrime da versare! -
Uno dei due ragazzi era gravissimo.
L'organismo, defedato da anni di eroina e senza difese, era in preda ad una grave setticemia complicata da bronco polmonite e miocardite; anche la funzionalità epatorenale era estremamente compromessa e prevedevo un exitus a breve scadenza a causa di tutte quelle complicanze dell’AIDS conclamato ed ormai in fase terminale.
L'altro, anche lui sieropositivo, presentava un quadro di encefalopatia subacuta da toxoplasma, altrettanto grave, ma con qualche possibilità di sopravvivere.
Erano stati ricoverati praticamente morti per una doppia overdose di eroina ma la terapia di urgenza era stata efficace per salvarli momentaneamente.
- Signora, - dissi con calma - si faccia coraggio. Faremo di tutto per salvarli ma lei vada a casa a riposarsi, la prego. Non vede che è distrutta dalla stanchezza?-
La donna mi prese la mano ed emise un gemito di dolore, poi disse.
- Che il Signore abbia pietà e li perdoni per tutto il male che si sono fatti e che mi hanno procurato. Io li ho cresciuti sani e forti e per loro mi sono levata anche il pane di bocca. Ho venduto tutto per cercare di disintossicarli e per ridargli la vita una seconda volta; ora posso solo pregare e nemmeno più piangere. -
Non ebbi il coraggio di replicare e quando andò via barcollando, tornai indietro per raccomandare al mio Aiuto la massima assistenza per quei due disgraziati.
In quegli ultimi due anni avevo visto molti casi simili a quelli dei due fratelli ed ero preoccupato per la diffusione della droga tra i giovani di quella cittadina. Ne avevo parlato anche a Marisa sostenendo la tesi della non recuperabilità quando il vizio avesse superato i sei mesi.
Lei aveva sospirato ed insieme avevamo ricordato i nostri tempi quando non esisteva il problema. Subito dopo aveva aggiunto.
-Lo sai Guido cosa penso? Ci devono essere delle motivazioni sociali in quello che sta’ accadendo ora. Non mi spiego perché l’eroina circoli soprattutto tra i diseredati e più uno è povero e disperato e più ne fa’ uso. -
Non volli contraddirla anche se pensavo che quanto diceva Marisa non fosse vero e che i motivi più profondi fossero di ordine psicologico e caratteriale dal momento che molti si drogavano anche se appartenenti a classi abbienti.
Ero comunque preoccupato e le ricordai di continuare ad essere sempre presente e vicina a Debora dal momento che non poteva contare su di me, purtroppo latitante, in fatto di vigilanza e sempre distratto riguardo alle sottili decisioni quotidiane che riguardavano nostra figlia.
Dovevo tentare di vincere una Cattedra in un grande centro universitario e così oltre al lavoro continuavo a studiare ed a pubblicare incessantemente.
Il tempo che mi rimaneva per la famiglia era diventato solo teorico e riuscivo a permettermi solo un po’ di riposo di tanto in tanto, e nemmeno quello tranquillo per le continue telefonate che mi perseguitavano anche a casa.
Marisa non si lamentava mai della vita grama che le facevo condurre e delle pochissime volte che uscivamo la sera per cenare fuori con qualche amico. Per lei ero sempre il suo Guido ambizioso ed ogni mio successo era il più grande regalo che le potessi fare.


Da circa un mese Debora mi teneva il broncio, da quando aveva cominciato l’ultimo quadrimestre del quinto ginnasio i nostri rapporti si erano piuttosto raffreddati. Lei faceva la sostenuta non parlandomi mai delle sue piccole cose e dei suoi studi. Io intendevo lasciarla libera di pensare da sola e non volevo influenzare né le sue scelte nel campo delle amicizie, né volevo spingerla ad emergere a scuola se non ne sentisse il desiderio.
Avevo poi un grande bisogno di starmene un po’ appartato con Marisa nelle poche ore che mi rimanevano libere dai miei impegni professionali e solo quando mi accorsi che mia figlia si chiudeva spesso a chiave in camera sua per piangere, decisi di affrontarla e di parlarle.
L'occasione arrivò un sabato dopo il pranzo mentre Marisa si era assopita su una poltroncina in salotto. Debora era seduta in giardino con il mento appoggiato sui pugni e guardava lontano davanti a sé con espressione assorta.
- E lo studio che ti preoccupa? -cominciai sorridendole ed accarezzandole i capelli.
- Non si tratta di questo, - rispose asciutta -non avrai mica intenzione di farmi il terzo grado! -
- Ma che dici Debora, - mormorai suadente- vorrei solo che mi confidassi una buona volta le tue pene. -
- Non posso,- disse girando la testa verso di me - perché quando parlo fai sempre finta di ascoltarmi ma non mi senti nemmeno. -
- E quando è successo? . chiesi incuriosito.
- Tre giorni fa, - esclamò risentita - quando ti stavo parlando della mia compagna Sonia, quella zoppa. -
- Guarda che mi ricordo perfettamente tutto quanto hai detto di Sonia e me ne dispiace tanto che soffra per quel difetto fisico, - replicai serio.
- Vedi che non mi hai sentita. - mi interruppe.
- Ti ho parlato di quanto soffre perché è sola e perché nessuno le vuole bene ed anche i suoi genitori si vergognano di avere una figlia storpia. -
- Nessun genitore, - dichiarai solennemente - può essere cosi malvagio come dici. Piuttosto penso che non me la racconti giusta e senza fare il ficcanaso, forse si tratta di amoretti giovanili? -
Sorrisi ed attesi una risposta.
- Non mi farò mai toccare nemmeno con un dito da nessun ragazzo, se è questo che vuoi dire, tu intanto fuggi come tutti i padri alle tue responsabilità ed ai tuoi doveri nei miei riguardi . Anche io potrei soffrire come Sonia ma tu nemmeno te ne accorgeresti con tutto il tuo daffare. Se mi vuoi bene devi dirmelo sempre, altrimenti devi avere il coraggio di non far finta di interessarti di me. -
- Per fortuna, - continuò autoritaria - io non sono zoppa ed ho gambe lunghe per camminare da sola e dove più mi aggrada, con la tua benedizione! -
Non replicai più nulla e pensai che aveva ragione Marisa quando mi diceva che nostra figlia stava attraversando un periodo tale che sarebbe stato meglio, per il momento, lasciarla cucinare nel suo brodo.


Maledizione, - imprecò la mia segretaria quando mi vide entrare nello studio alle tre mezzo di pomeriggio - questa mattina il telefono è impazzito. Ci sono state più di venti persone che volevano un appuntamento con lei ed ho dovuto dire a tutti che per agosto non c'era niente da fare dato che lo studio rimane chiuso per le sue vacanze. -
Veronica, la mia segretaria, l'aveva scelta Marisa qualche anno prima. Era una donna sulla cinquantina molto svelta ma piuttosto bruttina tanto che avevo pensato che quella fosse la dote che più avesse interessato mia moglie.
- E allora, - domandai ridendo - che bisogno c'è di smoccolare? -
- C'è, - rispose - che sono nervosa per un altro motivo. Tra le tante telefonate una mi ha messo in agitazione. -
- Davvero, - chiesi incuriosito - di che si tratta? -
- Una cretina che non ha detto il nome, - disse tutto di un fiato - mi ha dato l'incarico di riferirle una malignità che riguarda Debora. -
Il sorriso che avevo avuto sulle labbra, nel sentirla con tutta quella elettricità in corpo, mi si gelò in faccia. Guardai gli occhi di Veronica attraverso gli spessi occhiali da vista e li vidi terrorizzati .
- Mi dica subito quello che le hanno detto, - ordinai in tono perentorio - nessuno può permettersi di fare delle malignità su mia figlia! -
- Professore, - implorò quella pentita di essersi lasciata andare a quello sfogo - non so se devo. -
- Certamente, - risposi sempre più autoritario - non tralasci una parola di quanto le hanno detto . -
Veronica si sedette sulla sedia accanto alla macchina da scrivere.
- Non credo una parola ma quella donna ha detto che Debora si droga. -
Come se fossi stato toccato da una scarica ad alta tensione saltai in piedi dalla poltroncina davanti alla scrivania e mi avventai su di lei.
- Cosa ha detto quella infame di una sgualdrina! Se riesco a sapere chi è stata la strozzo con le mie mani! -
La lingua era rimasta improvvisamente senza saliva e mi sentivo la gola bruciare tanto avevo urlato.
La mia Debora che aveva appena superato brillantemente il quinto ginnasio e che era stata tra le più brave, la mia piccola bambina drogata!
Strinsi i pugni e sbattendo la porta uscii in strada e mi ritrovai a correre a casa come un allucinato .


- Dove sta Debora? - gridai a Marisa che armeggiava in giardino con la grossa forbice per sfoltire l'alta siepe di rose.
- Dove vuoi che sia, - esclamò sorpresa di vedermi tutto sudato e trafelato - credo da Sonia perché appena pranzato è uscita dicendomi che sarebbe tornata per cena. Ma tu piuttosto che fai qui a quest'ora? -
Gli occhi di Marisa continuavano ad esprimere stupore ed avvicinandosi mi chiese con malcelata ansia.
- Cosa è successo Guido? Ti credevo allo studio e invece sei davanti a me con questa faccia spaventata . Perché mi hai chiesto di Debora? -
Con un grande sforzo cercai di dominarmi. Marisa si accostò ancora di più e attese una qualche spiegazione.
- Quella figliola, - dissi serio - va e viene quando e come vuole e non dice più niente. Sono venti giorni che è finita la scuola e sono venti giorni che non la vedo quasi mai. -
Mi asciugai il sudore che mi imperlava la fronte e domandai.
- Marisa credi di aver notato qualcosa in Debora nell'ultimo periodo? -
- Mai niente di anormale, - mi rispose con espressione sempre più ansiosa - forse un po’ di nervosismo in più e un po’ d'insonnia dal momento che la ho vista un paio di volta in piedi all'alba in giardino. Ho pensato che volesse godersi l'aria del mattino ed il nascere del sole visto che è in vacanza e non ha problemi di orario. -
- Allora hai intravisto del nervosismo in nostra figlia, - ricominciai quasi urlando - perché non me ne hai accennato? -
- Non ho dato importanza alla cosa, - proruppe Marisa - anzi ho pensato che fosse felice per la promozione. -
Rimanemmo in silenzio guardandoci negli occhi, poi prendendole le mani raccontai quanto mi era stato riferito da Veronica.
Gli occhi di Marisa si riempirono di lacrime silenziose che cominciarono a rigarle le guance scendendo giù fino al mento.
- Non è possibile Guido, - singhiozzò finalmente - non la nostra bambina che ha ancora la bocca profumata di latte! -
- Aspettami qui, - riprese frenando il pianto - io vado a casa di Sonia immediatamente. Voglio vederla subito, voglio sentirla e parlarle. Non posso rimanere nemmeno un minuto in più in questo stato. -
- No, - gridai scotendola per le spalle - vado io! Se Debora fosse drogata la colpa sarebbe solo la mia e sono io che devo curarla e farla guarire subito prima che sia troppo tardi. Tu amore mio hai fatto la vera mamma ma io..., che padre sono stato se non ho trovato nemmeno il tempo per starle vicino il giorno del suo compleanno? -
Intanto avevo riportato Marisa in casa mentre lei continuava a singhiozzare violentemente .
Era diventata pallidissima e mi sembrò che stesse per svenire.
- Marisa, Marisa, - implorai inginocchiandomi davanti, mentre stesa sul divano era piombata in un silenzio cupo interrotto solo da rari singulti - non fare così, ti prego non devi soffrire in questo modo. -
Le mie mani si erano appoggiate sul suo seno e nello stordimento che mi stava stringendo il cervello in una morsa glaciale, ebbi la sensazione che il cuore di mia moglie stesse per scoppiare, tanto i battiti erano diventati violenti e tutte le sue membra sembravano abbandonate in un languore mortale.
Corsi in cucina e riuscii a versare in un bicchiere trenta gocce di valeriana che teneva nell'angolo dell'armadietto per Debora, quando aveva i dolori mestruali.
Riuscii a versarle tra le labbra fredde il contenuto e le massaggiai il collo e le mani gelide . Passò un'eternità prima che si riprendesse ed allora bisbigliò.
- Corri Guido, corri da Debora e portamela a casa in qualsiasi condizione la dovessi trovare. Non devi sgridarla, non devi picchiarla, sii dolce con lei e dille che la sua mamma la sta aspettandola per stringerla forte come quando le davo il mio latte. -
- Guardai ancora una volta Marisa distesa sul divano e dissi.
- Te la porto subito , stai tranquilla che Debora correrà da te qualsiasi cosa abbia fatto! -
Il sole fuori dardeggiava sull'asfalto ed io correndo mi precipitai da Sonia a più di mezzo chilometro da casa nostra.


Se ci fosse stato il demonio accanto a me gli avrei proposto uno scambio.
Tutto ciò per cui avevo lottato nella mia vita, per farmi strada nella professione di medico, contro Debora restituita a Marisa nel candore della sua innocenza di bambina.
A che era servita ogni ora passata sui libri ed a curare migliaia di malati con abnegazione e sacrificio, se mia figlia, colei che era tutto il mio patrimonio genetico e che amavo forse più di Marisa, fosse stata presa nella trappola mortale dell'eroina.
La gente diceva di me che ero un luminare, uno di quelli che sarebbe arrivato ancora più in alto, ma io non ero che un povero padre stretto nell'angoscia della paura, solo e miserabilmente indifeso in quella strada assolata di quel maledetto luglio infuocato.
Sì, una malattia inguaribile e fatale sarebbe stato una tragedia, ma quel mostro insinuante, quel serpente insaziabile ed avido che l'avrebbe resa schiava e ne avrebbe distrutto dal di dentro perfino l'anima, non avrei potuto accettarlo.
Non correvo più avvicinandomi alla casa di Sonia e i miei passi stavano diventando pesanti e faticosi. Avrei voluto che quell'edificio si fosse trovato all'altro capo del mondo per ritardare la verità, ormai certezza nel mio cuore e nella mia mente.
Sperai per un attimo di morire per uno di quell'infarti acuti che tante volte avevo visto colpire anche gente giovane. Forse solo la morte improvvisa mi avrebbe risparmiato un così grande dolore e forse soltanto la morte del suo papà avrebbe potuto far guarire la mia Debora.
Mi appoggiai stanco e sfinito al muro vicino al portone di Sonia.
Il pulsante del citofono era lì inerte che aspettava di essere premuto.
Guardai di nuovo la strada che avevo percorso. Era quasi deserta, con qualche raro passante che camminava chissà per dove. Nessuno avrebbe potuto darmi una mano o una parola di conforto e di speranza mentre mi sentivo completamente perduto.
Chiusi gli occhi e senza volerlo pregai come nemmeno avevo fatto da bambino.
“Dio abbi pietà di me anche se io non sono degno di chiederti nulla, ma dì una sola parola e mi salverai. No Signore, non salvarmi ma salva Debora e la sua giovinezza.”
Un refolo improvviso e caldo giunse sul mio volto, aprii gli occhi e vidi corrermi incontro mia figlia.
- Papà che bella sorpresa, - sorrise tra il furbo ed il malizioso - come mai non stai lavorando ? -
La guardai intensamente negli occhi, erano limpidi come l'acqua di fonte.
- Ho capito, - sorrise ancora Debora - ti sei spaventato per quello scherzo che quella stupida di Sonia ti ha fatto stamattina! Aveva scommesso con me un biglietto per il cinema che non avresti lasciato il lavoro per correre da me. Ho vinto io, paparino bello! -
La bocca di Debora si appoggiò sulla mia guancia, morbida e fresca come i petali di una rosa.
- Mio bel papà, - disse scotendo la nera chioma come un puledro contento di correre sui prati - hai deciso dove andremo in vacanza ad agosto? -

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VETRINA