ARMANDO ASCATIGNO

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RISCHIO ESPONENZIALE (Romanzo)

RISCHIO ESPONENZIALE
(C) 2001 ARMANDO ASCATIGNO
TUTTI I DIRITTI RISERVATI



CAPITOLO PRIMO


1

   Il turno iniziava alle sei meno un quarto e Carlo scendendo le scale dell' enorme palazzone dell'Istituto Case Popolari all'estrema periferia nord-ovest della città dopo una notte insonne ed agitata, pensò che dallo stipendio, forse, sarebbero avanzate poco più di centomila lire.
La vecchia Panda era parcheggiata all'angolo della strada e l'umidità della notte ne aveva appannato tutti i vetri. Il freddo pungeva ed il vecchio impermeabile, dal colore indefinibile, gli si gelò addosso mentre la sigaretta accesa in bocca non gli procurava il minimo tepore.
Carlo cominciò a pulire i vetri ed a tossire violentemente.
Si guardò intorno: non c'era un cane sul marciapiede. Si appoggiò al muretto ricoperto di marmo verde sporco, unico ornamento intorno al caseggiato e vomitò il caffè che aveva preso mezzora prima a casa.
Oramai era da novembre che tutto ciò si susseguiva in un succedersi quasi meccanico, da quando circa quattro mesi prima gli era stato affidato il primo turno di mattina; forse le sigarette, l'umidità ed il nervoso gli piazzavano il primo fuori combattimento della giornata.
Mentre guidava, per raggiungere il deposito degli autobus, la sua mente rimase fissa al milione e mezzo che quel bastardo di Piero gli aveva dato esattamente un mese prima, facendogli firmare un assegno di un milione e ottocentomila post-datato.
Lo avrebbe messo all'incasso l'indomani, senza chiedergli se lo avesse coperto e dunque non c'era tempo da perdere.
Finito il turno di lavoro, incassata la paga, sarebbe corso a fare il versamento sul proprio conto corrente.
Nell’Azienda, Carlo era benvoluto e stimato da tutti. Da quindici anni non si era mai tirato indietro nell'accettare turni scomodi, non aveva mai avuto incidenti e non si era mai assentato per malattie vere o presunte. Tutti lo consideravano un grande sgobbone e nessuno avrebbe potuto immaginare in quale situazione ambigua si fosse cacciato.
Alle dodici e quaranta in punto incassò lo stipendio. e gli straordinari.
Mario, il vecchio cassiere vicino al pensionamento, l'aveva guardato e come accadeva ogni mese aveva esclamato sorridendogli ironicamente.
- Oggi grosse bistecche e famiglia al cinema, vero?! -
Carlo annuì tristemente.
“Un milione novecentottantacinquemila lire”, lesse sulla busta senza controllarne il contenuto. La infilò nella tasca interna della giacca e scese le scale dell'Ufficio Cassa.
In quel momento il tempo era discreto, il cielo era coperto ma né pioveva né faceva freddo.
Carlo prese la Panda e si diresse verso la periferia in direzione dell'Agenzia della Banca dove aveva il proprio conto.
Guidava veloce deciso di fare in fretta, in una frazione di secondo ebbe un attimo di esitazione e pensò che in banca sarebbe andato più tardi, alle quindici e trenta.
Intanto, improvvisamente, cambiò direzione e si diresse a via San Carlo.
Parcheggiò l'auto nell'unico posto libero davanti al bar dopo aver fatto due giri dell'isolato e sperò che la fortuna lo avesse indirizzato in quel posto. Anche in quel momento la molla che lo spingeva era di tentare di capovolgere la propria situazione.






2

La macchinetta centrale, nella sala dei VIDEO-POKER con puntate da ottomila lire, avrebbe potuto sputare una scala reale massima da quattro milioni. Non era mai accaduto e Carlo lo sapeva bene ma, con tutti i soldi che quella si era inghiottita, forse poteva essere giunto il momento buono.
L'uomo prima di varcare la soglia della bisca rimase un attimo a ragionare.
- Ho centottantamila lire che avanzano dallo stipendio. Con questa cifra non campiamo nemmeno una settimana, quindi faccio finta di trovarmi già a secco. Mi faccio una ventina di puntate, caricando il massimo; se esce un punto alto me lo raddoppio almeno quattro volte e se va bene ho risolto il problema economico per questo mese. -
Ogni volta che Carlo entrava là dentro era sicuro di sé e faceva sempre lo stesso calcolo. Si sarebbe anche accontentato di una piccola vincita, una vincita modesta, ma quando poi ne usciva sembrava immancabilmente un cane bastonato.
La bisca era come un negozio a vetri opachi. Una volta entrati nella saletta sorvegliata da un ragazzotto sui venti, seduto ad un tavolino, si potevano vedere tutto intorno sei o sette macchinette elettroniche di video giochi accese e qualche giovincello intento a giocare. Sul retro, un tavolo tondo con quattro sedie ed il cesso piccolo e sporco.
Quando Carlo fece il suo ingresso, il ragazzotto lo salutò con un grugnito e lo fece scendere per una scaletta di ferro che immetteva, attraverso una porta blindata, nella bisca vera e propria. Il fumo delle sigarette appestava l'ambiente, intorno cinque macchine da video-poker ed a destra una macchina elettronica per la roulette ed il bingo.
Il primo che vide, seduto davanti alla numero quattro, fu l'ingegnere ma non si salutarono benché si conoscessero da parecchio.
Si sistemò davanti al piccolo video poker centrale (quello dalle puntate fino ad ottomila lire) alla sinistra dell'ingegnere ed il ragazzotto incassato un biglietto da cinquantamila gli caricò la macchina.
La presenza dell'ingegnere procurò a Carlo un notevole imbarazzo perché rappresentava l'espressione più avvilente di un uomo distrutto dal vizio del gioco.
Non ne conosceva il nome ma una sera il gestore della bisca, un profugo iraniano in vena di confidenze, gli aveva raccontato la sua storia, strana e altrettanto triste.
Era nato a Praga da madre italiana e padre ceco ed era riuscito a laurearsi in ingegneria perché il regime lo aveva classificato “eccellente” e degno di servire il Partito nel campo elettronico.
Il padre, un operaio che aveva fatto la Resistenza contro i tedeschi, gli aveva impartito una educazione dura, quasi spartana, abituandolo alle privazioni che egli stesso aveva sofferto durante la guerra.
Non gli aveva permesso che qualche partita a pallone con la squadra di calcio dell'Istituto Tecnico nel quale era andato avanti a forza di borse di studio ed anche durante il periodo universitario, continuando a vivere in famiglia, lo aveva tenuto sotto pressione intralciandogli qualsiasi relazione femminile.
Il giorno della laurea gli aveva parlato.
- Adesso sei ingegnere ed io ho finito il mio compito di educatore. Fatti strada e comportati da buon comunista! -
Gli avevano dato immediatamente un posto in una grossa industria come ricercatore nel campo, allora ai primordi, della microelettronica ed un alloggio di Stato, fortuna questa che capitava a pochi privilegiati.
Pochi mesi dopo aveva incontrato una giovane impiegata di un grande magazzino di cristalli di Boemia che lavorava per il novanta per cento per l'esportazione. Era una bionda ben tornita totalmente disinibita sessualmente.
Questa in poco tempo lo aveva fatto diventare un esperto amatore, lui, che quando l'aveva conosciuta era ancora vergine e tremendamente timido.
Poi un bel giorno improvvisamente gli aveva detto.
- O mi organizzi una fuga in Occidente, o tu con me hai chiuso per sempre. Non ho intenzione di diventare vecchia guadagnando questo stipendio di fame e vivendo in un appartamentino di due camere con nonna, madre, padre e tre fratelli, con un bagno in comune con altre tre famiglie, in quella casa di mattoni grezzi assegnata a mio padre dopo vent'anni di duro lavoro in miniera, né del resto ho voglia di sposarmi almeno per ora.-
Non la poteva perdere. Era diventata più necessaria del pane e più importante della carriera che gli si prospettava veloce verso posti dirigenziali.
In grande segreto, approfittando della relativa libertà che gli concedeva il Partito come fedelissimo, era riuscito a fuggire con la giovane prima in Austria e poi in Italia.
Una volta a Milano, quella lo aveva piantato subito diventando l'amante fissa di un piccolo industriale della Brianza ed egli si era trasferito a Roma per sfuggire ad eventuali vendette della Polizia Segreta del partito comunista cecoslovacco.
Per la sua preparazione scientifica, egli aveva trovato facilmente lavoro nella Capitale e poi era riuscito a laurearsi di nuovo, ottenendo subito un incarico molto selettivo in una industria elettronica con uno stipendio di tre milioni al mese.
Con le donne però la sfortuna aveva continuato a perseguitarlo tanto che, una volta sposatosi, era stato lasciato dalla moglie dopo sei mesi con la fama di gran cornuto.
Da allora aveva cominciato a giocare ed il gioco gli era entrato nel sangue diventando una droga senza la quale non avrebbe più potuto vivere. Aveva perduto decine di milioni alle macchinette dei video-poker ed alla fine aveva firmato una cambiale ad un mese di sette milioni che fu regolarmente protestata. In seguito era stato anche condannato con la condizionale ad un milione di multa ed a tre mesi di arresto, per emissione di assegni a vuoto e con la interdizione ad usare conti bancari per due anni.
Carlo, mentre ricordava, lo sbirciò e sbirciò il video-poker davanti all'ingegnere.
Giocava cento lire alla volta, lui, che mai aveva puntato meno di duemila lire.
Poteva avere non più di cinquantacinque anni, la sigaretta incollata alla bocca ed un impermeabile cadente e sporco. Il profilo era di un uomo certamente intelligente ma lo sguardo appariva assente, allucinato, fisso allo schermo del video-poker che manovrava con le dita sulla tastiera in modo del tutto automatico.
La nevrosi e forse la psicosi che gli bruciava il cervello era evidente: quell'uomo di bell'aspetto aveva un tremito continuo al labbro inferiore ed il naso aquilino emetteva, a mo’ di stantuffo, getti d'aria rumorosa.
Carlo se lo guardò ancora per un istante e pensò per una frazione di secondo di andarsene via di corsa.
Non ne ebbe la volontà e rimase come ipnotizzato fissando il video-poker, cercando di trovare la concentrazione necessaria per iniziare. Dopo aver meditato sulla sequenza dei primi tre raddoppi che avrebbe tentato: “alta-bassa-bassa”, d'un tratto delle grida alla sua destra frammiste a vere e proprie urla lo disturbarono e distrassero.
Girò il capo, rimanendo col dito teso e fermo sul tasto che caricava il video-poker fino alla puntata voluta e vide Flavio, un macellaio della zona attorniato da quattro o cinque giovanotti che facevano un tifo d'inferno, alzarsi in piedi dal seggiolino e con gesti imperiosi ordinare a quelli scalmanati il silenzio più assoluto.
- Ragazzi, come avete visto ho portato questo colore a quota duecentodiecimila con quattro raddoppi. Ora sparo altre due botte e siamo a ottocentoquarantamila e mando la macchina in tilt. Rientro della perdita e guadagno pure quarantamila lire. -
Flavio era considerato il “re” del raddoppio di quella bisca; non c'era punto alto o basso che fosse, che quello non raddoppiasse tre, quattro od anche sei volte di seguito.
Era un uomo frustrato, piccolo e brutto per quella gobba che gli sporgeva a destra sulla schiena; non era sposato e non aveva alcun interesse nella vita al di fuori di quella bisca. Il negozio lo mandava avanti un garzone e lui rimaneva intere giornate lì dentro a giocarsi l'incasso del giorno, al lordo del guadagno, tanto che girava la voce che stesse per fallire.
Ma in quel posto si sentiva come un eroe antico: la sua spada era il raddoppio ed il suo destriero era quel seggiolino di ferro lucido che lo portava a combattere contro la macchina elettronica, baldanzosamente.
Quando non era presente, i ragazzi della bisca lo compiangevano come un vero e proprio disgraziato, ma in sua presenza, sapendo che gli faceva piacere, tifavano per lui perché se qualche rara volta vinceva distribuiva fra tutti centomila lire di regalie.
- Silenzio, - ripeté perentoriamente - fate attenzione: una bassa ed una alta ed il gioco è fatto. -
Nel dire così Flavio premette il tasto con la parola “Less” e sul video apparve un “quattro”, mentre il moltiplicatore segnò 4200.
Il quinto raddoppio era stato preso ed i ragazzi continuarono a rimanere in silenzio assoluto. Flavio premette allora nuovamente il tasto del raddoppio e sul video comparve una carta coperta, poi mise leggermente un dito sul tasto con la parola “Big”.
Intorno non volava una mosca, solo il rumore del ventilatore d'aria e l'ingegnere sembravano non accorgersi della grande tenzone.
Flavio sorrise, con espressione di sfida, e senza ulteriori indugi schiacciò il pulsante “Big”.
Un “sette” apparve sullo schermo colorato: aveva perduto tutto!
I video-poker erano così congegnati che raddoppiando, se compariva il “sette”, tutta la vincita andava alla macchina.
Una serie di bestemmie interruppe il silenzio che si era fatto; Flavio era diventato paonazzo. Con questa ultima fregatura stava sotto di ottocentomila lire. Sul video si vedeva che gli erano rimaste ancora sette puntate a venti, cioè da duemila lire.
Carlo fissò lo schermo di Flavio finché il contatore fu azzerato.
Quello si alzò allora dallo sgabello e chiamato il ragazzo parlottò con lui animatamente. Era evidente che non aveva più una lira e quando passò al ragazzo l'orologio d'oro, che si era sfilato furtivamente dal polso, questi finalmente gli caricò ancora un centomila. Passarono quattro minuti e Flavio fu di nuovo a secco. Il giovane inserviente sogghignava ed ad una nuova supplica di Flavio, lo mandò a quel paese ed urlando gli disse sul muso.
- Prima portami i soldi e poi giochi! -






3

A differenza degli altri Carlo non era un giocatore, addirittura odiava le carte, le scommesse, le corse dei cavalli o dei cani.
Un giorno, circa un anno prima, gli era capitato di entrare con un amico in quella bisca e giocando poche migliaia di lire ne era uscito con duecentomila. Dopo un minuto, gli era entrata una scala reale minima.
Aveva pensato che con quel sistema, di tanto in tanto, avrebbe potuto arrotondare lo stipendio che non bastava mai fra bollette del telefono, della luce, figli da mantenere a scuola, libri e mangiare.
In realtà quel giorno era stato il principio della fine.
Per quanto egli cercasse di giocare piccole cifre, era sempre in perdita ed al massimo gli poteva capitare di vincere cinquantamila lire o uscire alla pari una volta ogni venti.
Spesso aveva deciso di non entrare più in quella maledetta bisca mangiasoldi, ma i buoni propositi della sera svanivano il giorno dopo.
Per quanto non fosse un giocatore nel senso comune della parola, amava nel proprio inconscio l'incognita, e più questa era grossa, più ne godeva.
Inoltre era testardo, quasi cocciuto e la molla era la solita vana speranza: ti faccio una scala reale massima da quattro milioni ed in questo puzzolente posto non mi vedono più! -
Intanto di milioni gliene aveva lasciati parecchi. Prima i sudati risparmi, poi gli stipendi, poi ancora i soldi raggranellati con le polizze al “Monte” ed infine mettendosi nelle mani di qualche lurido usuraio. Ora poteva tranquillamente vantarsi di aver toccato il fondo e sentiva di scivolare, sempre più, in un baratro profondo dove la ragione ed il buon senso diventano progressivamente latitanti.
La moglie di Carlo era una brava donna, tutta casa e figli e fiduciosa del marito. Lo aveva conosciuto a diciotto anni e si erano innamorati.
Il primo incontro era avvenuto per caso, una domenica ad Ostia nello stabilimento “La Vecchia Pineta”. Lei e quattro amiche avevano conseguito pochi giorni prima il diploma alle magistrali e la gita al mare era stata un premio per tutte e cinque le ragazze .
Quando Carlo l'aveva vista sdraiata sulla sabbia nera del litorale, il cappello di paglia calato sul viso, aveva osservato per prima cosa i suoi fianchi niente male e dopo averla intenzionalmente urtata aveva esclamato.
- Signorina, non le sembra di essere troppo provocante con questo minuscolo due pezzi! -
Aveva riso e continuato sullo slancio.
- Ora vado a chiamare la polizia stradale oppure quella portuale per denunciare che qui c’è una ragazza che intralcia il traffico. -
Luisa aveva sollevato il largo cappello e mettendosi in ginocchio aveva osservato il bell'imbusto davanti a lei.
Carlo si era chinato e prendendole una mano, aveva baciato quella delicatamente sul dorso mentre lo sguardo ne aveva scrutato il seno ben disegnato e provocante.
- Non le sembra, - aveva mormorato lei sorridendo - che sta correndo un po’ troppo signor... “Impiccione”? Ma se proprio insiste le dirò che le mie amiche, al momento assenti perché stanno facendo il bagno, sono meglio di me ed allora per loro dovrà chiamare la “buon costume”! -
Carlo era scoppiato a ridere e tenendola per mano l'aveva aiutata a mettersi in piedi dopo averle tolto, confidenzialmente, il cappello di paglia che si era messo di sbieco.
- Mi dia un piccolo bacio, - le aveva detto avvicinando le labbra alla sua bocca - me lo merito. Oggi scoppio di felicità. Mi hanno assunto ieri all'Azienda Comunale di Trasporto Urbano come autista e per quanto abbia quasi la licenza dello scientifico, dico quasi perché mi hanno bocciato all'esame di maturità, questo posto è stato una vera fortuna sia perché è fisso sia perché si guadagna bene. -
Luisa aveva guardato a lungo Carlo negli occhi e lo aveva baciato dolcemente sul mento.
Quel giovanotto alto, di venticinque anni le era simpatico e poi quegli occhi grigi, un po’ melanconici, le piacevano perché cambiavano di colore al riverbero del sole e la bocca, quando rideva, faceva vedere dei denti splendidamente bianchi.
Nei sei mesi che erano seguiti, i due si erano visti quasi ogni giorno.
Carlo non le aveva mai detto “Ti amo” ma il suo modo di essere sempre premuroso e quei piccoli regali che spesso le portava l'avevano definitivamente conquistata. Carlo non era assolutamente loquace, come invece le era sembrato la prima volta, ma i suoi silenzi erano intensi momenti romantici e non spazi di tempo vuoti. Egli le sapeva trasmettere, anche con un semplice gesto, una carica emotiva profonda e perciò difficile da dimenticare.
Una sera al tramonto, tra gli alti pini di Villa Borghese, l'aveva presa per la vita sottile e le aveva detto.
- Luisa basta scherzare. Tra due mesi ci sposiamo. Tu mi vai bene e sarai una mogliettina perfetta. Hai forse qualche obiezione? -
Lei, dopo averlo guardato negli occhi alla luce tenue del sole che stava tramontando, aveva risposto.
- Mi fido di te e non credo che cambierai in peggio né che mi darai delle grosse sorprese e poi non mi va di cercarmi un altro ragazzo, adesso che ti ho conosciuto, perderei troppo tempo...! -
Poi sospirando gli aveva preso la mano e gli aveva fatto sentire i battiti concitati del suo cuore.
Erano ormai passati quindici anni da quella sera e con Luisa aveva avuto due figli: Debora di quattordici anni e Simone di dieci.
Andavano dalle suore rispettivamente alla scuola media ed alle elementari, perché Carlo ci teneva all'educazione dei figli in un ambiente che presumeva selezionato.
Luisa si era accorta che il marito faceva spesso ritardi notevoli quando staccava dal lavoro ma, un po’ per ingenuità un po’ perché Carlo trovava sempre una scusa plausibile, non aveva del tutto realizzato in che situazione il marito si trovasse.
Quel giorno Carlo pensò alla moglie ed ai figli, sentendo che li stava tradendo ancora una volta, mentre puntava le prime ottomila lire al video-poker.
Il desiderio di rimettere in ordine la propria situazione economica lo attanagliava.
Quella maledetta macchinetta non sputava un punto passabile ed intanto senza nemmeno accorgersene stava giocandosi tutto lo stipendio.
Quando fu completamente al verde un senso di freddo e di vuoto lo avvolse. Pensò all'assegno non coperto che l'indomani Piero avrebbe messo in pagamento.
Abulico, completamente distrutto, uscì dalla bisca: erano le cinque di pomeriggio.





CAPITOLO SECONDO






1

C'erano solo due persone anziane, due donne, nella sala d'attesa dello studio del dottor Rossi quando Carlo si sedette sulla poltroncina vicino alla finestra, sotto una riproduzione splendida di Modigliani.
Aveva girovagato per circa un'ora, prima in macchina e poi a piedi, senza sapere cosa fare né dove andare. Un violento mal di testa ed una nausea micidiale lo avevano portato come un automa sotto lo studio del suo medico.
Carlo non aveva nessuna voglia di farsi visitare.
Conosceva il dottor Rossi da più di dieci anni ed in quel momento aveva un estremo bisogno di parlare con una persona con cui confidarsi e che stimava immensamente, sia come professionista che come uomo.
Era strano come Carlo Micoli non avesse mai avuto un vero amico.
Nei momenti in cui la vita gli era apparsa durissima, una gelida cosa, non aveva mai avuto nessuno cui confidarsi. Ciò era già successo e sempre aveva incassato ogni colpo da solo.
Una volta soltanto, quando aveva appena vent'anni e si era trovato come in quel momento completamente a terra, incapace a reggere psicologicamente ciò che gli capitava, era ricorso a suo padre.
Aveva messo incinta una ragazza bionda e belloccia nella borgata dove viveva a quei tempi “il Labaro”, a nord di Roma e quella gli aveva chiesto ottocentomila lire per disfarsi del bambino.
Il fatto lo aveva depresso.
Prima non gli sarebbe mai passato per la mente che una ragazza, di quella età, avrebbe preferito abortire piuttosto che sposarsi ed avere un figlio, come lui invece le aveva proposto subito.
Non che fosse un idealista tradizionalista, ma a quell'epoca credeva ancora al valore della vita umana. Aveva pianto di nascosto e si era sentito un verme: doveva dare dei soldi a quella per uccidere un bambino!
Non aveva buoni rapporti col padre che, rimasto vedovo da alcuni anni, viveva ormai da solo in un'altra zona di Roma a Monteverde. Tuttavia in quella occasione aveva pensato di fare uno strappo alla regola e di andarlo a trovare pe parlare con lui.
Pareva un uomo più vecchio di quanto non fosse in realtà, soprattutto da quando stava in pensione dopo aver lavorato una vita alle Ferrovie. Era diventato quasi completamente calvo e la schiena piegata e curva era come se non reggesse più al peso di quell'esistenza solitaria, che dalla morte della moglie amatissima si era obbligato a fare, quasi una espiazione per esserle sopravvissuto.
- Cosa fai qui, - aveva sospirato con amarezza quando aveva visto il figlio sull'uscio della porta di casa.
- Papà, - aveva mormorato Carlo mestamente - sono venuto per raccontarti di un guaio che mi è capitato. Del resto, se non lo dico a te, - aveva aggiunto - a chi lo devo dire? -
- Se sono guai, - aveva affermato il vecchio - potevi anche fare a meno di venire. - Non vedi, - aveva quasi imprecato - come vivo e come i miei giorni non sono altro che un continuo strazio? -
Carlo lo aveva guardato mentre stavano seduti l'uno di fronte all'altro nella piccola cucina ed uno strano malessere lo aveva trafitto dalla testa ai piedi.
Suo padre non voleva sapere nulla della sua vita ed anzi aveva l'impressione che non volesse proprio parlargli.
C'era stato un lungo silenzio, poi il giovane si era alzato dalla sedia ed aveva fatto l'atto di andarsene.
Era stato allora che il padre, stringendolo a sé, lo aveva abbracciato con calore.
- Scusami, - aveva mormorato con le lacrime agli occhi, - se ti ho trattato male, ma non vedo mai nessuno e sono diventato un vecchio orso -
Carlo aveva sentito il malessere precedente sciogliersi e trasformarsi in commozione. Un uomo, e per di più suo padre, gli avrebbe dato un consiglio qualsiasi, ma in definitiva un consiglio.
Gli aveva raccontato della ragazza ed il vecchio ferroviere lo aveva consolato come se fosse stato ancora un bambino.
- Non puoi fare nulla purtroppo, - aveva concluso alla fine - se quella non vuole un figlio significa che non vuole nemmeno te. Devi darle i soldi e che Dio ti perdoni. -
Lo aveva abbracciato di nuovo con affetto e gli aveva infilato in tasca tre biglietti da centomila lire. Non aveva risolto niente ma quella era stata l'unica volta che, avendo reso partecipe delle proprie amarezze un'altra persona, ne aveva tratto un qualche beneficio e non certo per il denaro ottenuto.
Quando si trovò di fronte al proprio medico costui, seduto dietro un'imponente scrivania e con alle spalle sulla parete non meno di sei diplomi allineati in bella mostra in cornici di legno scuro, lo fece accomodare di fronte e pacatamente gli disse.
- Che brutta cera. Scommetto che sei venuto da me, più che per visitarti, per parlarmi di qualche tuo problema -
Il dottor Rossi si era ricordato certamente di quando, alcuni anni prima, Carlo era andato da lui per parlargli di una sua certa angoscia in relazione ad una presunta frigidità della moglie. Quella volta il medico era stato molto veloce, sbrigativo nella diagnosi e nella terapia, facendo scomparire del tutto i timori di Carlo. Gli aveva spiegato che era improbabile che Luisa fosse frigida e gli aveva dato un consiglio.
- Trattala dolcemente e teneramente prima di ogni rapporto sessuale, così ti accorgerai come le cose funzioneranno magnificamente. -
Il dottor Rossi era un uomo sui cinquanta con una bella chioma in parte argentata e con due occhi scuri penetranti e profondi. Era un internista, ma la sua vera arte era la parola da ottimo psicologo qual era. Aveva due mani forti, calde e morbide, che da sole davano un gran senso di sicurezza.
Si alzò dalla sua poltrona e si avvicinò a Carlo posandogli entrambe le mani sul dorso delle sue, abbandonate sulla scrivania.
Carlo si accorse di avere le mani congelate e preda di un lieve tremito. Nello stesso tempo ebbe la sensazione che il gesto del suo medico era più salutare di dieci medicine prese insieme.
Improvvisamente ruppe in un pianto dirotto e gli raccontò, un po’ balbettando, quanto gli era accaduto negli ultimi anni.
Il dottor Rossi lo fece sfogare poi, passandogli la mano sulla spalla destra e sul collo umidiccio di sudore, ritornò sui suoi passi e sedutosi alla scrivania prese di tasca un libretto di assegni e ne staccò un foglietto intestandoglielo per la cifra di un milione e ottocentomila lire. Pose l'assegno di fronte a Carlo e senza fare nessun commento disse.
- Mi restituirai l'importo a centottantamila lire al mese, non ti preoccupare, smettila di piangere e sorridi. -
Carlo si trovò in una confusione mentale completa: non aveva chiesto nulla eppure quell'uomo aveva avuto fiducia in lui. Si alzò quasi barcollando ed intascato l'assegno, lo abbracciò in uno slancio fraterno e senza parlare si ritrovò sul pianerottolo felice e commosso.
Quando giunse in strada era raggiante, benché ancora sotto shock. Camminò svelto lungo il marciapiede per raggiungere la sua Panda . Il suo passo era di novo elastico, veloce ed aveva riacquistato di colpo la sua statura ragguardevole, mentre il sangue gli circolava a pieno ritmo nelle membra, tanto che mani e piedi erano ridiventati caldi ed asciutti.
Lanciò un ultimo sguardo alla finestra illuminata del medico e si infilò nella vecchia auto. Pensò che l'indomani avrebbe avuto una giornata felice: ogni problema si sarebbe risolto d'incanto e soprattutto non ci sarebbero stati strascichi penali poiché senza dubbio Piero avrebbe messo all'incasso il suo assegno.
Guardò l'orologio, un Omega che la moglie ed i figli gli avevano regalato per l'ultimo compleanno ed osservò che le lancette segnavano le 18.30 in punto.






2

A circa trecento metri da casa c'era un piccolo Bar.
Carlo si fermò, spense il motore e sentendosi ancora un po’ scosso decise di non rientrare subito in famiglia. Aveva bisogno di riacquistare completamente una parvenza di serenità e di tranquillità.
Entrò nel bar, infilò un gettone nel telefono appeso vicino alla cassa e fece il numero di casa.
- Senti Luisa, - cominciò- non ho potuto telefonarti prima perché oggi mi hanno fatto fare un mucchio di straordinari. Ora faccio un salto da Luigi, il mio amico, quello malato. Devo portargli le analisi che ho ritirato per lui, stasera. -
Luisa era adirata; tutto il giorno non si era fatto sentire e con voce aspra e dura commentò.
- Bada, sono stufa di tutte le tue bugie e se insisti nel tirare la corda ancora un po’, vedrai che mi perdi per sempre. -
La frase della moglie raggelò Carlo che in fondo era innamorato di Luisa, non tanto per la minaccia a cui non credeva, quanto perché riteneva possibile che lei avrebbe mangiato la foglia su come passava il tempo fuori casa.
- Ti prego, - la interruppe Carlo, - non dire così! Scusami ancora se non ti ho telefonato prima. Stasera ti spiegherò -
Luisa gli riattaccò il telefono sul muso. Carlo rimase sconcertato ma non cambiò idea.
Al bancone si fece fare un caffè macchiato; non aveva mangiato niente tutto il giorno e prese anche una pasta alla crema. Si sedette vicino al juke-box che alcuni ragazzi facevano funzionare in continuazione. La musica gli faceva bene, lo distendeva, gli snebbiava la mente dalle tossine della giornata.
Era lì da circa dieci minuti quando entrò un tipo grasso ed elegante che tutti nel quartiere conoscevano come persona danarosa. Carlo non aveva mai saputo come quello si facesse i soldi, ma la voce popolare diceva che la grana gli arrivava per mille rivoli diversi.
Forse ricettava ma era soprattutto interessato al gioco d'azzardo. In ogni caso era l'ultima persona al mondo che Carlo avrebbe voluto incontrare quella sera.
Lo chiamavano Paolone e tutti lo salutarono calorosamente, mentre quello guardandosi attorno ed avvicinandosi a Carlo proruppe sogghignando.
- Evviva l'azienda degli autobus! Mi hanno riferito che tra un paio di giorni farete sciopero! -
- Mi ha visto solo un paio di volte ma sa esattamente il mio mestiere, - rifletté Carlo.
L'uomo si piazzò davanti a Carlo e divenne improvvisamente serio. Subito dopo offrendogli una sigaretta esclamò.
- Che brutta faccia oggi: scommetto che ha preso lo stipendio, quel vostro favoloso stipendio... -
Carlo annuì , più per evitare chiacchiere che per altro. Ma l'altro sorridendo incalzò.
- Venga con me per una sera a distrarsi un'oretta da amici, ci faremo un whisky e così tornerà in perfetta forma! -
Carlo guardò negli occhi Paolone; in fondo quell'uomo aveva uno sguardo bonario ed anche se godeva di cattiva fama in un certo senso gli era simpatico. Non sembrava che lo volesse fregare, anzi pareva che gli volesse dare una mano.
A Carlo non interessava come Paolone si facesse i soldi, anche se il fatto che dicessero di lui che fosse pure un pappone gli provocava una sensazione di disagio e quasi di schifo. Gli aveva dimostrato interesse forse perché, come giocatore professionista, aveva capito che era un perdente nato e questo gli bastava.
Accettò l'invito e di lì a poco si ritrovarono in un appartamento distante poco meno di quattro chilometri dal Bar dove si erano incontrati. Tutti salutarono Paolone con entusiasmo e lui presentò Carlo come un suo vecchio amico.
C'erano tra gli altri tre o quattro belle ragazze giovanissime, tutte con vestiti alla moda, con gambe slanciate e ginocchia scoperte perfette. Carlo ammirò il modo composto di come stavano sedute nel grande salone pieno di poltrone e divani.
Era un ammiratore della bellezza femminile; non c'era femmina graziosa che non osservasse con interesse prettamente maschile. Era più forte di lui sentirsi attratto da un bel corpicino, ma non era di gusti facili perché dalle donne esigeva contemporaneamente bellezza ed intelligenza.
Gli era capitato diverse volte, anche passeggiando con Luisa nelle rare volte che uscivano insieme, di girarsi per guardare a fondo una bella passante e questo suo difetto faceva imbestialire la moglie.
Egli si giustificava dicendo.
- Luisa non ti dare pensiero, io le donne le guardo come un artista osserva quanto di bello c'è nella natura. Le ammiro e basta, e poi chi vuoi che prenda sul serio un uomo sposato e con figli, quasi povero? -
Luisa brontolava, ma infine si era abituata a quel vizio antipatico del marito ed a quegli sguardi che distribuiva a destra e a manca.
Per Carlo non c'erano particolari preferenze, ma le ragazze giovani lo attraevano in maniera più decisa, forse perché voleva la conferma di non essere ancora tanto invecchiato da non interessare.
Vera era la più giovane in quel salotto.
Poteva avere poco più di vent'anni. La chioma nera le cadeva sulle spalle scoperte e lei la faceva ondeggiare con un movimento del capo, con civetteria. Aveva una magnifica bocca carnosa ed un nasino all'insù alla francese.
Lo sguardo, che sprigionava da due occhi a mandorla di colore verde castano, era intelligente e nello stesso tempo provocante ed ingenuo.
Badò poco agli uomini che Paolone gli aveva presentato e sedette vicino a Vera.
Nel salone c'era un gran brusio di voci e molto fumo di sigarette.
Carlo sorrise, era il primo sorriso che faceva nell'ultimo mese.
Offrì a Vera un cognac che aveva preso da un vassoio d'argento sul tavolino di fronte al divano e la guardò diritto negli occhi.
Carlo in effetti era un bell'uomo: asciutto, alto. Gli occhi grigi, la bocca morbida ed un naso dritto lo facevano assomigliare ad un manager, anche se il vestito che indossava era piuttosto dozzinale.
- Non lo ho mai vista da queste parti! - Esclamò ridendo Vera, mentre lo osservava con grande interesse scrutandolo.
- Lei se non mi sbaglio si chiama Carlo, - aggiunse mentre centellinava il cognac.
Carlo fece un gesto di assenso e le offrì una sigaretta.
Non c'era dubbio che Vera lo aveva preso per uno del giro di Paolone ed era sicuro che pensava che egli fosse un soggetto danaroso come del resto sembravano tutti gli uomini lì dentro.
Si sentì improvvisamente importante e resse il gioco.
Aveva provato fin dal primo momento una forte attrazione per quella bella figliola e senza esitare le posò una mano sulla spalla bisbigliandole all'orecchio.
- Tra poco dovrò andare via, dove le posso telefonare domani? -
Con sua grande sorpresa Vera sorrise e gli disse un numero che lui trascrisse immediatamente nella memoria.
Era quasi mezzanotte. Carlo ormai sfinito dalla giornata ed ubriaco di sonno, ma disteso psicologicamente, inventò una scusa con Paolone per potersene andare. Quello non insistette per trattenerlo e gli diede un ammirevole pacca sulle spalle. Salutati gli altri, ed in particolare Vera, Carlo uscì all'aperto mentre era cominciato a piovere.






3

- Mi devi dare un consiglio, - esordì Vera dopo essersi seduta e dopo aver incrociate le gambe e mosso in su e in giù il piedino minuscolo, inguainato in una soffice scarpa di camoscio scuro, - sono venti giorni ormai che vado in giro per i negozi del centro ed ancora non ho trovato quello che cerco. -
Nel dire così si appoggiò allo schienale della sedia a dondolo, che abbelliva il piccolo salottino riservato della sua sarta ed amica Lucia e cominciò a dondolarsi pigramente.
- Insomma, da quello che ho capito, - fece stando in piedi Lucia, una signora di trent’anni pallida con dei capelli di un biondo castano, tagliati corti con una frangetta che copriva metà dell'ampia e spaziosa fronte, - vuoi che io ti crei un modello personalizzato per questo tuo benedetto tailleur. -
Così dicendo prese da un piccolo scrittoio alla sua sinistra un grosso pennarello e cominciò a disegnare, in piedi davanti a Vera, il foglio di carta che era disteso sul cavalletto sistemato alla sua destra.
In pochi tratti venne fuori un originale tailleur e Vera esclamò ridendo e tutta felice, alzandosi di scatto.
- Come hai fatto, Lucia mia, ad indovinare quello che desideravo! Questo sì che mi piace, sei proprio una vera artista! -
- Lo credo, - rispose quella puntandole contro il pennarello - ti conosco come le mie tasche e non dimenticarti che sono stata io a farti il tuo primo vestitino quando sei diventata signorina. -
Vera si accostò all'amica e la baciò con trasporto sulle guance e, dopo averle detto, avviandosi verso la porta:“la stoffa la scegli tu, basta che sia sul verde; le misure sono sempre le stesse, telefonami quando è pronto. ”, uscì quasi di corsa e scese le scale rapidamente giungendo trafelata al posteggio dei taxi.
Si infilò dentro al primo della fila, guardò l'orologio che segnava le tre di pomeriggio e disse all'autista.
- Faccia più presto che può. Devo andare al cimitero di Prima Porta, ma al massimo alle quattro e mezzo devo essere di ritorno. Lei mi attenderà mentre farò visita alla tomba di mio padre. -
Vera non era andata il due novembre, nel giorno della ricorrenza dei defunti, a portare un fiore al suo papà, ma quel sabato fin dal mattino aveva deciso di fare una corsa nel primo pomeriggio al cimitero.
Alle quindici e trenta il taxi si fermò nel posto indicato e lei, che aveva comprato un gran mazzo di rose rosse all'ingresso del campo santo, fece cenno all'autista di attendere e fatti pochi metri si inginocchiò davanti alla grande croce che segnava, nel campo numero venti, il luogo dove era seppellito il padre.
Si raccolse un attimo in preghiera e poi cominciò a bisbigliare.
- Mio caro papà, tu che certamente mi guardi e mi proteggi dal Paradiso, fa che io non rovini la mia esistenza con la testolina che mi trovo addosso. Non permettere mai che superi il limite di guardia che già adesso sto vivendo. Riposa in pace. Amen. -
Depose il mazzo di rose vicino alla fotografia incorniciata del padre e tornò indietro risalendo sul taxi.
Vera aveva vent'anni e mezzo e da circa un anno, dopo che il padre era stato fatto fuori da un infarto a soli quarantun anni, viveva da sola in un monolocale sulla Nomentana.
Aveva preso il diploma di Ragioneria a soli diciassette anni, con il massimo dei voti e subito aveva trovato lavoro in una banca.
Era stato un colpo di fortuna; la banca aveva deciso di assumere cinque elementi giovanissimi. La sua votazione, una raccomandazione politica che le aveva procurato il padre e la sua avvenenza avevano fatto il resto.
Era diventata subito indipendente economicamente e quando il padre morì se ne andò di casa perché con la madre non andava d'accordo.
Sua mamma era una donna gretta sebbene molto carina e lavorava da bidella in una scuola media.
Vera sapeva che aveva tradito il marito da sempre, approfittando del fatto che quello faceva l'autotrasportatore.
Aveva adorato suo padre; lo aveva visto poco, ma ogni volta che potevano stare insieme, padre e figlia, erano inseparabili. Non aveva né fratelli né sorelle e proprio per fare un regalo al padre aveva sempre studiato con il massimo profitto.
Il giorno che aveva preso il diploma, al suo papà erano spuntate lacrime di gioia e, sollevandola come un fuscello, l'aveva cullata tra le sue forti e possenti braccia trasmettendole una inebriante sensazione di tenerezza che ancora, nei momenti dei ricordi, riprovava.






4

Il monolocale era accogliente ed abbastanza spazioso. Un salottino minuscolo era separato da una porta a soffietto dal tinello-cucina: bastava spalancare la porta e sembrava di essere in una vera sala con una grande finestra sulla destra che dava tanta luce. In fondo, un arco in legno ed una tenda elegante immettevano nella zona letto.
Per Vera il letto era tutto e già da bambina lo aveva sognato grande e spazioso, alla francese, comodo morbido e profumato.
Sarà stato che da piccola aveva odiato quel brutto lettino di legno dove si era fatta il morbillo, la varicella e gli orecchioni, oppure che a letto aveva riflettuto tanto da giovanetta e meditato sulla vita, fatto era che a tutto avrebbe rinunciato meno che a quello. Ora lo aveva e ne era felice, quasi, orgogliosa.
La settimana era passata velocemente e Vera attendeva per il pomeriggio inoltrato Carlo.

Le aveva telefonato l'indomani del loro incontro verso le otto di sera; era stato gentile e carino, non invadente e le aveva chiesto quando avessero potuto incontrarsi di nuovo. Lei era curiosa di conoscere a fondo quel tipo, che poi avrebbe potuto essere benissimo suo padre e lo aveva invitato.
Non le capitava spesso di invitare uomini a casa sua, ma per Carlo aveva fatto un'eccezione. Si capiva al volo che Carlo era sposato, anche se non l'aveva detto, ma era diverso rispetto agli uomini che lei frequentava. Ne aveva intravista una desolante tristezza e quasi calamitata da questa, il senso della vita aveva riacquistato in Vera, in pochi giorni, una dimensione molto più reale di quanto lo fosse stato nell'ultimo periodo.
Era da poco passato un anno da quando aveva iniziato un secondo lavoro.
In fondo in banca non si stancava assolutamente e poi aveva una grande frenesia di vivere.
Da amici aveva incontrato Paolone che era un'importante cliente della banca e questo, dopo averne sondate le ambizioni, le aveva proposto di lavorare saltuariamente per lui in un circolo privato dove andava tanta bella gente piena di quattrini a passare le serate allegramente, ai tavoli della roulette o del baccarà od a quelli del black jack.
Il suo compito sarebbe stato quello di essere carina vestendosi in maniera splendida:e la sua bellezza acerba sarebbe stata molto utile.
Doveva giocare ai vari tavoli con i gettoni che la Casa le avrebbe fornito. I croupier l'avrebbero fatta vincere o perdere: l'importante era che attirasse vicino a sé i vari signori che avrebbero puntato per simpatia ai tavoli dove lei si fosse accostata. C'era un guadagno di duecentocinquantamila lire a sera e non le si chiedevano altre prestazioni.
La cosa le era piaciuta. Spezzava la monotonia della sua vita ed avrebbe conosciuto un sacco di gente con conti in banca favolosi, ma soprattutto diversa da quella comune.
L'unico problema che Vera aveva chiarito subito con Paolone era stato che nessuno avrebbe potuto permettersi di mancarle di rispetto.
L’omone l'aveva tranquillizzata su questo punto ed in effetti, poi, aveva visto che tutto filava liscio e tranquillo.
Era capitato che qualche bell'imbusto le avesse infilato un paio di biglietti da centomila nella scollatura del vestito. Vera era diventata di fuoco ed i suoi occhi avevano sprizzato scintille di disprezzo e di odio. Era sì una ragazza spregiudicata, ma il suo corpo lo riteneva sacro.
Aveva imparato facilmente la tecnica dell'aggancio del cliente più importante ed aveva visto parecchie persone perdere cifre da capogiro.
Lei iniziava con puntate piccole da diecimila lire e il croupier la faceva vincere.
Era una perfetta attrice; gridolini di gioia per ogni vincita, muso lungo e qualche lacrima quando perdeva.
La sua funzione era di una perfetta calamita capace di attrarre, come una prelibata esca , gli invitati danarosi della sala privata.
Chi la incontrava seduta ora al tavolo del baccarà ora a quello dello chemin de fer ora in piedi ai tavoli della roulette, la prendeva per una di quelle solite figlie di papà che non sapevano cosa fare per non annoiarsi.
Per questo Paolone la faceva lavorare periodicamente con soste talvolta piuttosto lunghe.
Quando non c'era Vera, il suo posto veniva preso da altre ragazze carine quanto lei e tutte stipendiate dall'Organizzazione.
Ogni tanto gli ordini erano di servire “un piatto tutto d'oro” a qualche giocatore di quelli che contavano. La pubblicità al locale, se ce ne fosse stato bisogno, era fatta proprio da costoro che raccontavano in giro delle loro favolose vincite.






5

Carlo suonò alla porta dell'appartamentino di Vera che erano da poco passate le diciannove. Lei andò ad aprire avvolta da una splendida vestaglia di seta gialla che metteva ancor più in risalto la chioma corvina, gli splendidi occhi ed i bei fianchi.
Le aveva portato una scatola di cioccolatini che pose sul minuscolo tavolino di fronte al divano. Piuttosto impacciato, dopo che sorridendole si fu seduto mentre lei era rimasta in piedi, accese una sigaretta.
Carlo era elegante e distinto in un completo grigio a quadretti e visibilmente emozionato, ma poi quando Vera gli si sedette accanto, cominciò a parlare e nell'atmosfera quasi surreale di quel monolocale, raccontò alla giovane dei suoi sogni non realizzati e della sua vita stolta e doppia.
Il perché si stesse confidando con quella ventenne risultava strano ed assurdo allo stesso Carlo. Generalmente aveva la capacità di analizzarsi istantaneamente e quando arrivò a raccontarle ciò che nemmeno Luisa sapeva di lui pensò.
- Ma guarda che ti sto combinando; la sto trascinando dalla mia parte facendomi vedere come un debole bisognoso di protezione ed incapace di autocontrollo. Mi sto facendo quasi schifo perché tutto ciò in realtà è assolutamente falso. Io debole... non diciamo eresie! La verità è che le sto ordendo una trama dove lei come un uccellino tra i rami di un albero in fiore non saprà come districarsi. -
Infatti stava accadendo proprio così.
Vera lo stava ascoltando con la bocca socchiusa e il suo sguardo dimostrava ora meraviglia e dispiacere, ora tenerezza e ribellione per le frasi che sapientemente Carlo le scodellava sottintendendo che tutta la sua vita era stata soltanto un gran bisogno d'amore mai pienamente realizzato.
Un gigantesco fuoco romantico avvolse Vera e dandogli per la prima volta del tu gli disse.
- Non rattristarti anch'io ho sofferto tanto perché non ho mai avuto un vero amore oltre a quello del mio povero papà. Vedi, oggi per me è un gran giorno; sarò io che ti aiuterò a cancellare dal cuore quella tristezza che ti ho letto negli occhi fin dal primo momento che ti ho visto. -
Nel dirgli così accostò la bocca alle labbra di lui accarezzandogli il viso. Il caldo e la morbidezza del suo bacio fecero fremere Carlo di desiderio, ma si dominò. Non voleva sciupare tutto quanto di bello aveva avuto la fortuna di avere quel giorno.
Si sussurrarono dolci parole d'amore.
Vera era stupenda, dolcissima e calda, Carlo aveva il cuore in tumulto.
Fecero all'amore come due ragazzi con semplicità e purezza.
Quando la notte divenne piena, dopo essersi baciati teneramente per l'ultima volta, si salutarono e si dissero arrivederci.










CAPITOLO TERZO






1

Il telefono suonò insistentemente sull'enorme scrivania dell'ufficio, arredato con ricercatezza, dell' autosalone di compravendita di auto usate che Paolone aveva impiantato da circa cinque anni all'angolo fra via Conca d'Oro e via Val Maggia, nel quartiere Nuovo Salario.
Erano le undici di mattina e in piedi, vestito con un completo grigio antracite estremamente sobrio, Paolone stava esaminando un mucchio di carte disordinatamente sparse sul piano della scrivania in olmo autentico.
Sollevò la cornetta del telefono, scocciato.
Nervosamente, ascoltò con molta attenzione.
Quella mattina piovosa sembrava fatta apposta per complicazioni e nuovi problemi. Oltre a tutti quei “pagherò”, disseminati fra i vari fogli che rappresentavano una cifra di oltre cento milioni, c'era da decidere su alcuni assegni non coperti e come agire per recuperarne gli importi.
Le cambiali provenivano in gran parte dall'attività dell'autosalone, mentre tra gli assegni c'erano le solite, rare fregature che provenivano dal gioco d'azzardo.
Una voce che Paolone riconobbe immediatamente bisbigliò al telefono.
- Stia attento, ci sono ordini di controlli e di perquisizione su tutte le bische del quartiere -
Era la voce del funzionario di zona che egli teneva sul libro paga ad un milione al mese.
L'Organizzazione era ferrea, piramidale. In cima c'erano Gianni Radice ed il cognato Luca Segni, proprietari di alcune migliaia di video-poker e di sette circoli privati ad alto livello. Essi provvedevano ad affittare le macchine a tutte le bische di Roma ed intascavano il quarantacinque per cento del guadagno lordo; ai gestori rimaneva il cinquantacinque per cento diminuito delle spese di affitto, corrente elettrica e personale.
Inoltre i gestori avevano al loro servizio un pensionato prestanome, intestatario dei circoli, a cui passavano un tanto al mese. Se avveniva un'irruzione della polizia, la denuncia arrivava al pensionato che poi se la cavava in Pretura praticamente senza danno.
I gestori avevano ciascuno dai sette ai due locali e dovevano avere la protezione di quartiere. Guardie municipali, agenti, ecc..., collaboravano ed avvisavano se c'era qualche pericolo di sorprese e di sequestro delle macchine da gioco.
Era ovvio che ad un livello più alto di protezione pensavano direttamente Gianni ed il cognato Luca e ciò avveniva con esborsi di grosse somme che tuttavia limavano solo un cinque per cento del loro personale guadagno. Gianni e Luca avevano assegnato i sette circoli privati ad alto livello, dove il gioco d'azzardo era organizzato scientificamente, ai loro sette migliori gestori gente fidata e senza scrupoli, tra cui Paolone che era considerato un uomo del tutto idoneo ai grandi compiti che un Casinò illegale comportava. Egli però aveva anche quattro bische con video-poker, roulette elettroniche e slot-machines.
Carlo, per puro caso, era uno dei clienti più affezionati di Paolone perché giocava in una delle bische di questo. Naturalmente Paolone non vi ci si recava mai ed al loro funzionamento pensavano alcuni uomini di sua fiducia. Quelli, alla sera, avevano il compito di fare i conti degli incassi e di cambiare i programmi nelle macchine per far sì che ad eventuali perdite su un video-poker corrispondessero guadagni sostanziosissimi sugli altri, tarati a percentuali del cinque per cento. Ciò in pratica significava che per pagare, ad esempio, ottantamila lire la macchina ne doveva incassare almeno un milione e seicentomila. Raramente veniva introdotto, in una delle macchine da video-poker, un programma favorevole per il giocatore. Ciò doveva essere fatto in modo che i giocatori pensassero che le loro perdite fossero frutto di pura iella.
Era capitata anche a Carlo, qualche volta, la macchina buona e lo stupore di fare punti a ripetizione contagiava come un virus maligno gli altri giocatori.
Nell'ambiente tutti conoscevano la storia di “Sergio il bello”.
Questo era il soprannome che quelli di Via San Carlo avevano affibbiato ad un giovane iraniano di ventisette anni, da quando aveva cominciato a bazzicare quella strada nella speranza di trovare un qualche lavoro che gli permettesse di tirare avanti.
Alcuni amici gli avevano detto.
- Va a vedere nella bisca, al numero 38, se ti assumono. Ci sono un paio di tuoi compatrioti che già ci lavorano a turni e guadagnano cinquantamila lire al giorno. -
“Sergio il bello” era un tipo alto e distinto. Aveva lineamenti regolari ed una bocca stupenda che affascinava ogni donna che incontrava. Con il suo fare elegante e disinvolto sapeva ben valutare il proprio fascino sfruttando le cotte che seminava a destra ed a manca fra le pollastrelle del rione.
Si trovava a Roma da un anno ed aveva precedentemente frequentato a Perugia, all'Università per Stranieri, il corso di laurea in Medicina e Chirurgia bloccandosi però allo scoglio biennale di Anatomia.
Era figlio di una turca, bellissima donna, e di un ricco iraniano che era dovuto sfuggire alla caccia che i seguaci di Komeini gli avevano fatto non appena l'Ayatollah era rientrato in patria dopo l'esilio a Parigi.
Il padre lo aveva raggiunto in Italia. Era riuscito a portarsi dietro ventimila dollari e la moglie ed aveva proseguito per gli Stati Uniti dove già viveva a San Francisco un altro figlio. Gli aveva raccontato della situazione creatasi in Iran e dell'impossibilità di ritornarvi.
- Prendi questi duemila dollari, - gli aveva detto mettendogli in mano il denaro, -e vedi cosa puoi fare qui. Se la situazione dovesse non esserti favorevole, raggiungimi a San Francisco. -
“Sergio il bello” era riuscito a barcamenarsi con quei soldi fino alla settimana precedente poi, completamente al verde, aveva ascoltato i consigli dei suoi amici tentando di trovare lavoro nella bisca.
Il direttore di quella era un altro profugo iraniano dai connotati completamente diversi da quelli di Sergio.
Basso e tarchiato, aveva una barba dura e nera che gli dava un aspetto di sordida sporcizia anche quando si radeva due volte al giorno. Un paio di baffi nerissimi peggioravano non poco la sua faccia che, completata da due piccoli occhi furbi e castani, aveva le caratteristiche di quella di un ebreo levantino. Due mani tozze, con dita grosse e nodose, spuntavano fuori dalle maniche della giacca in un continuo gesticolare nervoso.
Si chiamava Tauski e proveniva da una famiglia contadina del nord dell'Iran. Aveva sempre lavorato nelle case da gioco di vari paesi, ma da quando era capitato a Roma era riuscito a prendere la direzione di quella bisca con uno stipendio fisso di tre milioni al mese.
Parlarono a lungo sul marciapiede appoggiati ad una macchina in sosta. Sergio gli spiegò la situazione in cui si trovava e lui gli propose quarantamila lire al giorno perché diecimila gliele doveva come tangente.
“Sergio il bello”, che il giorno prima aveva pagato con le ultime duecento mila lire l'affitto dell'appartamento dove abitava, accettò l'offerta di Tauski e pensò.
- Che gran figlio di puttana; meno male che siamo connazionali. Ha il coraggio di fottermi un pezzo di pane, questo furbastro, perché ha capito che ho fame. -
Si fece pagare la giornata in anticipo e preparò il suo piano di vendetta che aveva architettato in un attimo.
Rimase tutto il giorno ad osservare la gente che giocava ai video-poker. Tutte le macchine non avevano fatto altro che incassare il cento per cento delle puntate e tutti avevano perduto. A sera inoltrata in cassa c'erano oltre nove milioni e mezzo in contanti. Tauski sarebbe venuto alle ventidue ad incassare ed a fare i conti.
Verso le venti e trenta mandò via dalla bisca gli ultimi due giocatori e si chiuse dentro. Un video-poker aveva incassato da solo circa sei milioni e mezzo. “Sergio il bello” lo caricò e cominciò a far puntate di duemila lire alla volta. Dopo cinque minuti cominciarono ad apparire sul video punti alti e dopo un quarto d'ora la macchina sparò due poker serviti uno dietro l'altro. Egli guardò il contatore che segnava l'equivalente di trecento ottanta mila lire. Calcolò che quella era la percentuale programmata di perdita della macchina rispetto all'incasso e smise di giocare.
Aveva guadagnato trecentoventi mila lire e spente le macchine attese l'arrivo di Tauski.
I conti quadrarono alla lira e così il nuovo arrivato continuò per un paio di mesi nei giorni che rimaneva solo alla chiusura.
Non gli andava sempre così bene ma alla fine dei due mesi aveva guadagnato extra almeno quattro milioni. Si era vendicato di Tauski e quella era la sua massima soddisfazione.
Nel frattempo “Sergio il bello” si era trovato un secondo lavoro all'Hilton. Parlava perfettamente cinque lingue e quelli della direzione lo assunsero come cameriere in uno dei night dell'albergo.
Le ricche donne che frequentavano di notte quel locale se lo contendevano a colpi di biglietti da cento dollari. Lui sapeva scopare che era una meraviglia ed ad ognuna delle sue clienti lasciava ricordi meravigliosi.
Quando le cose gli parvero andare a gonfie vele, Tauski capì il trucco del suo dipendente e gli occhi gli si iniettarono di sangue quando ebbe la certezza che quello gli schiumava una piccola percentuale degli incassi.
La sera dopo piombò con altri due nella bisca ed entrò servendosi di un secondo paio di chiavi.
I tre lo sorpresero che giocava e come al solito in vincita, gli tapparono la bocca e dopo che gli ebbero tolti i bluejeans prima lo sodomizzarono e poi lo pestarono a sangue sui testicoli.






2

Dopo l'avviso del funzionario, Paolone fece in successione quattro numeri telefonici alle sue quattro bische ed ordinò di trasportare, fino a nuovo ordine, tutte le macchine elettroniche proibite nel deposito che i ragazzi conoscevano.
Le bische dovevano però rimanere aperte con i video giochi funzionanti al piano superiore.
Paolone accese una Marlboro ed aspirò ripetutamente. Era soddisfatto di come funzionava l'Organizzazione ma seccato per quel contrattempo che, tradotto in cifre, significava una perdita secca di almeno cinquanta milioni per quella settimana. Mentre meditava di spingere un po’ più per quei sette giorni il gioco nel suo privè dove lavorava Vera, quella gli telefonò per chiedergli di essere lasciata libera per una decina di giorni.
Vera desiderava vedersi con Carlo per un po’ di sere assiduamente, andare a cena con lui e fare lunghe passeggiate. Aveva preso una sbandata per quello strano individuo apparentemente così fragile ma in realtà così profondamente uomo ed aveva deciso di aiutarlo a passare nel migliore dei modi quel brutto momento che attraversava.
- Non posso darti nessun permesso di libera uscita, - urlò Paolone nella cornetta del telefono.
- Anzi..., per dieci giorni devi essere a mia disposizione tutte le sere, - concluse perentoriamente.
Vera era rimasta di stucco. Era la prima volta che Paolone si comportava così duramente con lei anche se le aveva promesso il doppio, per ogni serata che avrebbe passato ai tavoli da gioco.
Paolone non dava mai spiegazioni del proprio comportamento, ma Vera intuì che non avrebbe potuto mettersi in quel momento contro il boss e con voce suadente gli fece allora una strana richiesta.
- Mi dia almeno il permesso di farmi accompagnare al circolo ogni sera dal nostro comune amico Carlo -
Paolone in pochi istanti si ricordò di quel tizio che aveva presentato a Vera due settimane prima e ritenendolo un essere inoffensivo diede il permesso alla ragazza aggiungendo.
- In ogni caso la considero completamente responsabile di come il nostro amico agirà. -
Vera lo tranquillizzò e riattaccò il telefono dopo avergli augurato una buona giornata.
Paolone si rilasciò stendendosi nella poltrona a destra della scrivania. Si mise le mani incrociate sulla fronte e dondolò lievemente il capo avanti ed indietro in un gesto abituale. Pensò a quanti miliardi aveva accumulato negli ultimi sette anni e si ricordò di quando non aveva da ragazzo nemmeno i soldi per le sigarette. Era soddisfatto ma non completamente felice.
Sapeva che tutta quella fortuna era stata una rapina abilmente consumata ed era tremendamente superstizioso. Egli aveva un suo modo personale per combattere la iella: ogni tanto faceva una grossa elargizione a qualche sua vittima, incrociava le dita ed era sicuro così che guai e sfortuna avrebbero girato l'angolo.
Si alzò dalla poltrona, prese un'agenda, lesse un numero telefonico ed all'uomo che gli rispose disse.
- Senta, la direzione ha deciso di annullarle il debito che lei ha con noi. Ho qui davanti il suo assegno post-datato di dieci milioni, lo strappo e buona giornata. -






3

La macchinetta centrale del video-poker, quella più piccola, fu presa da un sussulto frenetico, da un fremito selvaggio quando sul video apparve una scala reale massima di picche ed il contatore cominciò a salire vertiginosamente per raggiungere quota quarantamila, corrispondente ad una puntata massima di ottanta.
Carlo, all'entrata dell'asso di picche in posizione centrale, rimase come paralizzato sul seggiolino. Il contatore era scattato automaticamente per impedire qualsiasi raddoppio.
Era quella la vincita più alta che mai si era verificata nella bisca, il sogno di tutti quei giocatori allucinati dallo schermo a colori e che vi si erano avvicendati davanti da anni.
Come in un rapido filmato Carlo rivide l'ingegnere schernito dal ragazzo chiamato “Cacciavite” perché a lui toccava caricare le macchine ed intascare i soldi. Si ricordò del pensionato che in due ore si era giocata la tredicesima e poi gli aveva chiesto diecimila lire per mangiare. Rivisse il momento quando Arturo, un impiegato statale invalido civile perché monco della mano sinistra, aveva pregato l'iraniano di turno di non farlo più entrare lì dentro perché era pieno di debiti ed aveva da pagare ad un usuraio oltre dieci milioni. Si rammentò pure di quel ragazzo biondo dagli occhi azzurri che si era venduto all'iraniano per centomila lire che quello gli aveva caricato sul video-poker e non si dimenticò nemmeno della donna bionda, sui cinquanta, che il marito aveva fatto interdire perché aveva distrutto tutto il patrimonio familiare.
Con una puntata di ottomila lire Carlo aveva vinto quattro milioni: chiuse gli occhi e si rilasciò sulla sedia di ferro smaltato.
Nella saletta grida di stupore e sguardi di incredibile invidia si intrecciarono attorno al fortunato, mentre quella bestia sembrava che vomitasse finalmente una parte di tutti quei soldi che si era ingoiata in due anni.
Sembrava, man mano che il contatore saliva impennandosi verso quota quarantamila, che la macchina soffrisse e nel soffrire vibrasse di dolore.
Carlo si guardò intorno ed una tremenda sensazione di stanchezza fisica lo invase improvvisamente. L'iraniano, che dirigeva il locale e che per combinazione si trovava là quel pomeriggio, si era precipitato giù dalle scalette di ferro e non appena ebbe realizzato ciò che era accaduto risalì di corsa e preso un gettone comunicò a Paolone la vincita. In cassa c'erano soltanto novecentomila lire. Egli doveva venire di corsa e scomodarsi almeno per quella volta per portare il resto della somma.
Fu così che i due si rividero dopo quella sera dell'incontro causale nel Bar del quartiere.
Chi rimase più meravigliato fu Paolone che mai avrebbe pensato che quell'uomo fosse un suo cliente fisso.
Carlo era talmente stralunato che il fatto di aver scoperto chi fosse il padrone della bisca non lo sorprese affatto.
Si salutarono e Paolone lo prese sottobraccio proponendogli di festeggiare, più tardi in serata, nel suo circolo privato. Non occorreva che si giocasse i suoi soldi, anzi sarebbe stato completamente suo ospite ed avrebbe avuto in omaggio gettoni per cinquecentomila lire per divertirsi.






4

All'aria aperta sulla strada col fresco della sera, non ci volle molto a Carlo a capire tutto sugli affari di Paolone, sulle sue attività e su come funzionasse l'Organizzazione.
Vera un mese prima si era fatta accompagnare per diverse sere nel “privè” di Paolone.
Certo non le aveva raccontato che lavorava per quello e Carlo aveva pensato che lei fosse giunta a quel circolo attraverso conoscenze altolocate in Banca, per arrotondare lo stipendio.
A Vera piaceva guadagnare bene e del resto al gioco non partecipava rischiando del proprio. L'uomo non si era meravigliato troppo di questa doppia attività della ragazza.
Del resto anche lui conduceva una doppia vita: serissimo sul lavoro ed incosciente giocatore di bisca. La differenza semmai, era che Vera dal gioco ne ricavava un profitto e lui non se la sentiva di biasimarla. Piuttosto era rimasto affascinato e piacevolmente sorpreso quando si era accorto che la ragazza era un vero asso nell'aggancio dei ricchi giocatori al tavolo del baccarà od a quelli della roulette.
Per lui Vera rappresentava un raggio di sole capitatogli all'improvviso in un'esistenza monotona e tremendamente idiota, interrotta da pause schizofreniche al video-poker.
Lei lo faceva sentire importante; per troppo tempo si era ridotto a tirare avanti per forza di inerzia, quasi senza più speranze. Quella bella ragazza stava diventando essenziale per la sua vita ed egli stava accorgendosi, lentamente ma inesorabilmente, di non potersene privare.
Camminando lentamente lungo il marciapiede con in tasca i quattro milioni in contanti che Paolone gli aveva dato, Carlo accese una sigaretta e la gustò con lunghe e lente boccate.
Gli piaceva camminare in mezzo alla gente sapendo di non essere almeno per una volta un anonimo con tutto quel denaro in tasca.
Pensò con tristezza alla moglie ed ai figli.
Era ancora molto legato alla famiglia ed il primo pensiero fu quello di acquistare qualche regalo.
Luisa in particolare se lo meritava proprio dopo tutto quello che egli le aveva fatto passare.
Entrò in una gioielleria e comprò un anello di rubini e brillantini per un milione e quattrocentomila lire. Mise in tasca il pacchetto e ritornò sui suoi passi per prendere l'auto che aveva parcheggiato vicino alla bisca.
Quella sera rientrò presto a casa ma né Luisa né i ragazzi erano rientrati.
Pensò che la moglie fosse dovuta andare dalla madre ammalata. Si fece una doccia e dopo aver riflettuto un po’ scrisse un biglietto, che lasciò sul tavolo di cucina, nel quale avvisava Luisa di aver avuto un turno straordinario per la nottata.
Quando fu di nuovo in strada, Carlo si accorse di avere in tasca il regalo che aveva comprato per la moglie. Ormai era tardi per risalire ed inoltre aveva una gran fretta di giungere con qualche minuto di anticipo all'appuntamento con Vera con la quale sarebbe andato al privè di Paolone.
Giunse rapidamente nella vasta piazza sulla collina vicino alla abitazione della ragazza. I pini umidi intorno profumavano di resina fresca. Il cielo era sereno ed il silenzio intorno magico.
Quando la vide avvicinarsi con passo elastico ed elegante Carlo le si avvicinò e baciandola teneramente le mise in mano, inconsapevole, il pacchetto con l'anello. Vera lo aprì ed i suoi occhi divennero ancora più belli e luminosi.
Quell'anello significava per lei un pensiero romantico da parte dell'uomo che l'aveva rispettata e coccolata dal momento che si erano conosciuti.
Si desideravano fisicamente, si capivano senza parole, si perdonavano senza ambiguità quello strano modo di vivere irregolare di entrambi.
Per Vera, quell'uomo era colui che sostituiva il padre e nello stesso tempo era un'amante tenerissimo. Per Carlo, lei era la vita che si rinnovava, la freschezza naturale della femmina come aveva sempre sognato fin da ragazzo ma era soprattutto una scelta: vivere e non lasciarsi morire lentamente nella noia e nelle tristezze quotidiane.
Con quell'anello egli aveva del tutto e per la prima volta tradito Luisa. Ci pensò per un attimo ma non gliene importò niente. Gli occhi erano ora sereni, chiari, il cuore tranquillo.
Si strinsero con trasporto, si presero per mano ed iniziarono a camminare lentamente mentre una luna piena giallastra, ad occidente, si alzava nel cielo.






5

Tonino era un giovanotto alto, dai capelli castano chiari, lisci, pettinati accuratamente.
Sul naso aquilino tagliente, portava occhiali da vista affumicati, mentre le labbra sottili lasciavano intravedere, quando si aprivano in un sorriso stereotipato, denti incisivi seghettati che facevano pensare, insieme alla fronte alta ma sporgente, a segni di sifilide congenita.
Vestiva elegantemente, sempre in completo grigio scuro ed usava di preferenza cravatte blu a strisce rosse trasversali.
Passeggiava attento tra i tavoli del baccarà e quelli allineati del black-jack e sbirciava i croupier dei due tavoli della roulette al di là del grande arco in legno chiaro, divisorio dell'enorme salone dell'appartamento che era stato modificato per ospitare il circolo di gioco d'azzardo affidato alla direzione di Paolone.
Tonino vide Vera e Carlo seduti da un lato del tavolo del baccarà.
Il tavolo era affollato, il banco stava esaurendo la scarpa formata da due mazzi completi di carte con una progressione di vincite continue impressionanti. Erano dieci mani consecutive che il banco vinceva e diversi giocatori erano giunti al limite delle loro possibilità finanziarie. Tonino lanciò uno sguardo al croupier e finalmente il banco perse la mano dando un po’ di ossigeno ai giocatori.
Il croupier di quel tavolo si era preso una formidabile cotta per Vera.
Era un bel ragazzo dalla carnagione olivastra e capelli ricci e tutti lo chiamavano “lo spagnolo”. Vera aveva scherzato qualche volta con lui prendendolo in giro per quel suo modo affettato di parlare con l'erre moscia; poi però, specialmente da quando aveva incontrato Carlo,aveva preso l'abitudine di salutarlo appena, non dandogli più la minima confidenza.
“Lo spagnolo”, anche quella sera prima di iniziare il lavoro, aveva cercato di parlarle a quattrocchi per dirle quanto fosse splendida, ma lei lo aveva liquidato con un freddo buonasera.
Nelle salette laterali si giocava a poker con piatti dell'ordine di diversi milioni. Ad ognuno di questi tavoli erano seduti dei giocatori professionisti stipendiati da Paolone con cifre dai due ai quattro milioni a sera. Tre camerieri offrivano a tutti cognac di gran marca ed il Chivas scorreva a fiumi.
Professionisti, ingegneri oppure avvocati, grossi commercianti, industriali, erano clienti abituali del privè. Donne affascinanti con abiti firmati e gioielli favolosi giocavano più accanitamente dei loro accompagnatori.
Tonino si avvicinò a Vera e chinatosi le disse bisbigliando.
- Hai fatto un buon lavoro questa sera, adesso che la temperatura del gioco è al massimo puoi anche andartene con il tuo amico. -
Vera annuì e rivolta a Carlo gli disse di accompagnarla al guardaroba che oramai il lavoro era fatto.
Carlo si alzò e seguì Vera nella saletta dove una donna le porse la pelliccia di volpe rossa. Tutti e due andarono alla cassa e depositarono i gettoni che erano rimasti alla ragazza. Ogni cosa era tranquilla e nulla faceva presagire cosa stava per accadere.
Un uomo alto almeno un metro e ottanta dai capelli grigi, elegantissimo, con delle mani dalle dita lunghe affusolate, si alzò improvvisamente da uno dei tavoli del poker e rivolto a Tonino, appostato due metri più in là, urlò.
- Qui si bara per Dio! -
Tonino impallidì ed accostatosi all'uomo esclamò.
- Su professore, non dica fesserie! -
Il professore era un famoso chirurgo che, giocatore da strapazzo, aveva lasciato sul tavolo del poker quella sera più di cinquanta milioni.
- Amico bello, - replicò il chirurgo - non credere che io sia uno stronzo! -
- Quello, - indicò - non solo è un professionista che voi pagate, ma anche un fottutissimo baro! Levatevi dalla testa che io paghi! -
Aveva giocato quaranta milioni sulla parola. Tonino arrogante esclamò.
- Senti tesoro, adesso tu firmi un assegno sennò di qua non esci! -
Il professore rapidamente mise una mano nella tasca interna della giacca ed estrasse una piccola automatica.
In due gli saltarono addosso ed egli venne colpito, con violenti pugni allo stomaco ed alla nuca. Tonino, nel frattempo, aveva afferrato la pistola ma il professore con uno scatto incredibile si era buttato su di lui, franandogli addosso.
In quel momento partì un colpo mentre l'automatica era nelle mani di Tonino. Questi si accasciò sul pavimento senza un gemito, il proiettile gli aveva trapassato il cuore.
Gli occhiali affumicati del giovane si infransero sotto il suo corpo e le labbra si schiusero in una smorfia di gelida morte.
Il panico si impossessò di tutti: urla e grida, svenimenti di donne, gran correre verso l'uscita del circolo che però era sprangata.
Vera si era messa in un'angolino tremante e Carlo, dopo averla sistemata su una poltroncina vicina alla toilette raccomandandole di non muoversi e di stare tranquilla, prese in mano la situazione urlando a tutti.
- Calma signori, se rimanete fermi e tranquilli ai vostri posti, vi farò uscire in dieci minuti, tutti,.senza problemi! -
Carlo rifletté per pochi secondi, la situazione era gravissima. Egli e Vera non avrebbero avuto alcun fastidio dalla polizia quando questa sarebbe giunta sul posto. Più di una denuncia per gioco d'azzardo non ci sarebbe stata. Carlo si passò la mano sulla fronte imperlata di sudore e pensò due cose: Tonino era uno dell'Organizzazione ed a lui avrebbe provveduto Paolone, gli altri dovevano sparire, compreso il professore e sicuramente nessuno avrebbe mai fiatato su quanto era accaduto quella notte.
Si avvicinò al cadavere di Tonino e gli sfilò dalla tasca destra del pantalone la chiave della porta di ingresso ed una agenda dove erano segnati dei numeri telefonici, compreso quello privato di Paolone.
Montò su un tavolo da gioco ed urlò.
- Signori voi ora uscirete di qui in silenzio e tutti dovete dimenticare cosa è successo! -
- Ve lo dico nel vostro interesse, - aggiunse con voce perentoria, - e vi rammento che vi conosciamo tutti, uno per uno. Quindi scordatevi di essere stati qui questa sera! -
Non attese domande ed aperta la porta fece uscire tutta quella gente in pochi minuti, il professore per primo, i giocatori professionisti del poker, i camerieri e la donna addetta al guarda roba.. Poi avvicinatosi a Vera e baciatala con tenerezza le disse di torrnarsene a casa pure lei, consegnandole le chiavi della sua Panda.
Di lì a poco rimase solo con il cadavere di Tonino disteso nella saletta del poker. Carlo era diventato calmissimo, sapeva quello che aveva fatto e non provava nessuna eccitazione o paura. Si avvicinò al telefono e chiamò Paolone al numero che aveva letto nell'agenda.
Paolone fu svegliato di soprassalto dallo squillo del telefono posto vicino al letto. Carlo gli raccontò tutto ciò che era avvenuto ed il boss, in un lampo lucidissimo, rimase stupito del sangue freddo dell'amico di Vera.
Lo ringraziò calorosamente e gli disse di andarsene pure lui, che avrebbe pensato di persona a Tonino, inviando sul posto dei suoi amici.






6

Mentre Carlo cercava di raggiungere a piedi la piazzetta distante dal circolo non meno di due chilometri per prendere un taxi, un vento freddo, gelido gli sferzò la faccia.
Aveva chiuso dietro di sé la porta di quell'appartamento ed aveva lasciato per terra senza spostarlo il cadavere del giovane scagnozzo.
Ancora una volta, mentre camminava a passo svelto, si meravigliò di non provare nessuna particolare emozione. Anzi una certa splendida emozione la sentiva dentro di sé; era come se avesse sbancato un casinò. Aveva la sensazione che quanto aveva fatto quella notte gli avrebbe fruttato più che se avesse vinto contemporaneamente a tutti i video poker della città.
Non c'era dubbio che Paolone lo avrebbe sistemato in qualche modo nell'Organizzazione. Se non ci fosse stato lui, pensò, chissà quale colossale casino sarebbe accaduto con quel morto ammazzato lì sul pavimento del circolo.
Stava per raggiungere la piazzetta immerso in questi pensieri, quando all'improvviso sbucò da dietro l'angolo della strada alberata una volante della polizia.
Due agenti scesero dall'Alfetta e gli si pararono contro con le armi in mano. Gli intimarono il “mani in alto” e lo perquisirono dalla testa ai piedi.
Carlo non ebbe il tempo di protestare che si ritrovò ammanettato e sbattuto sul sedile posteriore della macchina.
Non potette nemmeno riordinare le idee che si ritrovò sotto il circolo e fu a quel punto che capì di essere stato fregato da qualcuno.
Carlo ebbe molto tempo per riflettere in cella di isolamento su chi avesse avuto interesse a cacciarlo in una simile situazione.
Non era cosa da niente, si trattava di un morto e, per quanto innocente, fu preso dal panico.
Non poteva essere stato Paolone, immaginò, non ne avrebbe avuto alcun interesse. Nemmeno i giocatori od il professore potevano aver chiamato la polizia. Vera poi era fuori discussione.
La testa gli girava, come se acesse bevuto a digiuno un doppio Alexander e la sentiva confusa e vuota ma, in un attimo, gli fu chiaro come le cose si erano svolte.
Si ricordò improvvisamente dello “spagnolo” che per parecchie sere, davanti a lui, aveva fatto il cascamorto con Vera. La ragazza lo aveva snobbato e Carlo era sicuro che quello si era vendicato probabilmente con una telefonata anonima alla questura. L'aveva senz'altro considerato la causa principale del suo insuccesso con la giovane ed aveva approfittato di quanto era accaduto per incastrarlo e così eliminarlo come concorrente.
Alcuni giorni dopo seppe che Paolone gli aveva messo a disposizione un grosso avvocato. Era già stato interrogato tre volte ed il giudice, che stava formalizzando il capo di imputazione lo riteneva responsabile.
C'era stata infatti una precisa accusa contro di lui. Una voce al telefono quella notte aveva precisato che c'era stato un omicidio e che l'assassino lo avrebbero preso o all'indirizzo dato o nel raggio di un paio di chilometri da quella casa. Così era avvenuto che Carlo era stato preso dalla volante.
C'era però la prova negativa del guanto di paraffina; non avevano trovato tracce di polvere da sparo sulle sue mani e l'avvocato stava tentando di farlo liberare per mancanza di indizi
Nessuno si era presentato a testimoniare e sull'arma, trovata accanto al cadavere, erano state rilevate le impronte digitali di Tonino.






7

Passarono tre mesi di inferno ma una mattina arrivò l'ordine di scarcerazione del giudice istruttore per mancanza del minimo indizio o peggio di uno sraccio di prova.
Carlo uscì dal carcere giudiziario che erano le undici. Il giorno era splendido, un profumo di primavera inoltrata veniva spinto da un leggero venticello da occidente. Vera era fuori ad attenderlo. Gli si buttò tra le braccia.
- Amore, - sussurrò - quanto ti ho aspettato, quanto mi sei mancato. -
Lei era un sogno nel vestito di seta rosa a fiori stretto in vita.
- Stammi vicino piccola mia, - bisbigliò l'uomo accarezzandole i lunghi capelli annodati con un nastrino della stessa stoffa del vestito.
Le labbra di Carlo si posero su quelle di Vera delicatamente ed il sapore della sua bocca, come d'incanto, gli fece dimenticare le sofferenze di quei tre mesi.
A casa Carlo si accorse che Vera gli aveva preparato un delizioso pranzetto. La tavola era apparecchiata con un servizio di porcellana di Murano. La tovaglia era di lino finissimo ricamato, le posate d'argento. Vera in quei tre mesi era diventata ancora più bella e seducente.
Gli occhi grandi erano ora più profondi e luminosi, il viso pallido. La pelle liscia e vellutata e le labbra coperte da un leggero velo di rossetto le davano un'aria straordinariamente romantica e dolcissima.
La ragazza accese i fornelli della cucina per riscaldare il pranzo già pronto mentre Carlo, sdraiato sul divano, assaporava quel momento di intimità tanto desiderato.
Era giunta l'ora di fare il punto della situazione.
In quei tre mesi di galera i rapporti con Luisa, che pure era venuta un paio di volte a trovarlo, si erano del tutto incrinati. Non esisteva più colloquio fra i due e l'unico cruccio di Carlo erano i bambini che gli mancavano tanto.
Nell'ultima visita di Luisa, Carlo aveva affrontato l'argomento dei figli. Lei aveva assunto un atteggiamento duro e di sfida. Non potevano più vivere insieme ma i bambini sarebbero rimasti con la madre.
Luisa aveva capito chiaramente che c'era un'altra donna e questo l'offendeva profondamente nella sua femminilità. Tuttavia non aveva voluto incolpare il marito di questa relazione e si dimostrò molto comprensiva ed intelligente anche perché Carlo era stato sincero con lei, raccontandole tutto ciò che aveva passato nei due ultimi anni e che lei solo parzialmente aveva intuito.
Carlo era stato sospeso dal lavoro ma per lui non esisteva alcun problema, casomai c'era da fare una scelta.
Dopo la scarcerazione era stato reintegrato al suo posto, ma Paolone gli aveva proposto una ben altra e più remunerativa occupazione.
Avrebbe lavorato con lui come suo braccio destro. Quell'uomo strano con quell'atteggiamento serio e un po’bizzarro aveva impressionato il boss e ne aveva conquistato la fiducia e la simpatia pur essendoci stati dei guai col “privè”.
Carlo guardò Vera muoversi nel suo monolocale, leggera e fresca, mentre sentiva il profumo del suo corpo.
Lei si era tolta il vestitino di seta e si era infilata un perturbante baby-doll, azzurrino.
Gli si sedette sulle ginocchia e Carlo sentì il contatto delle calze di seta sulle sue gambe.
In un attimo il desiderio di lei lo ubriacò ed ogni altro pensiero svanì.
Sollevò Vera tra le braccia, come una preda meritata e si ritrovarono sul grande letto mentre il pranzo rimase sui fornelli spenti ad attendere.






CAPITOLO QUARTO

1

L'aria del mattino era frizzante, i puledri correvano liberi attraverso prati verdissimi punteggiati di bianche margherite. Alcuni erano a coppia, altri galoppavano isolati e d'un tratto, cambiando direzione, si dirigevano verso un piccolo ruscello sulla sinistra del boschetto di pioppi e si fermavano di colpo. Dalle larghe narici il loro respiro si condensava tutto intorno come nebbiolina trasparente.
Carlo era giunto all'alba all'allevamento dalle parti di Lucca, viaggiando tutta la notte con la sua Jaguar.
Era partito improvvisamente da Roma alle tre dopo mezzanotte. Da un po’di tempo un pensiero fisso lo tormentava: comprare un puledro, un purosangue ed avere così qualcosa di veramente suo che gli regalasse nuove emozioni ora che tutto filava liscio e lineare con quel lavoro che, da circa quattro anni, svolgeva per incarico dell'Organizzazione agli ippodromi.
Si trattava di scommesse clandestine sui cavalli.
Era stato Paolone ad iniziarlo ed a presentarlo le prime volte ai clienti , tutti giocatori che puntavano milioni con un cenno fatto con le dita delle mani e qualche parola sussurrata a mezza voce.
La clientela era composta di gente conosciuta all'Organizzazione e godeva della massima fiducia tanto da poter giocare sulla parola qualsiasi cifra.
Lavorando vicino ai picchetti Carlo era diventato esperto e molto conosciuto e dopo qualche tempo Luca Segni l'aveva nominato garante ed al tempo stesso cassiere di quel settore .
Il frequentare gli ippodromi gli aveva fatto bene alla salute; quella vita all'aria aperta era piacevole ed aveva sempre appetito tanto che si era ingrassato di un paio di chili.
Rispetto ai giocatori incalliti dei video-poker quelli erano di altro calibro.
Perdevano o vincevano decine di milioni, ma difficilmente battevano ciglio. Era gente abituata a maneggiare grosse cifre e molti di loro avevano guadagni facili in altre losche attività, ma non tutti. C'erano anche personaggi conosciuti nel bel mondo: attori, registi, importanti avvocati, commercianti facoltosi e piccoli o medi industriali.
Carlo aveva cominciato ad apprezzare il denaro che guadagnava a percentuale sulle vincite. Era diventato ben presto ricco e con la ricchezza aveva del tutto smesso di giocare.
Se per anni era stato incollato ai video poker giocandosi anche le uniche diecimila lire che aveva in tasca, ora non avrebbe scommesso più neppure cento lire su qualsiasi cosa. Anzi, il vedere buttare il denaro nel gioco gli aveva prodotto una reazione di rigetto completa.
- Quelli, - pensava continuamente - o sono dei disperati depressi o soffrono di autolesionismo aggravato da imbecillità assoluta. -
Il trovarsi dall'altra parte della barricata non gli procurava crisi di pentimento e spesso faceva una riflessione.
- Dal momento che ci sono degli idioti e dei deboli che hanno fame di gioco, qualcuno deve pure pensare a dar loro da mangiare..., io sono soltanto il loro cameriere. -
Dopo quattro anni, alla fine, quella vita lo stava quasi annoiando e per questo aveva deciso di visitare l'allevamento del conte Ubaldo, uno che era famoso in campo nazionale.
Costui era un uomo sui sessanta, piuttosto piccolo di statura con sottili baffi corti e capelli lunghi fino al collo, lisci e completamente bianchi.
Il volto aveva un bell'aspetto giovanile e gli occhi, piccoli ed acuti come due spilli, avevano l'abitudine di scrutare bestie ed uomini con la stessa attenzione distaccata. Alcune profonde rughe gli solcavano la fronte e le guance denotando l'uomo di campagna.
Era sempre distintamente vestito allo stesso modo e portava orgogliosamente, anche quel mattino quando si incontrò con Carlo, degli stivali di cuoio scuro con pantaloni alla zuava di velluto ed una giacca di panno e camoscio dalle larghe tasche trasversali.
Salutò Carlo con evidente piacere appena quello ebbe parcheggiato la sua fuoriserie davanti alla villa rustica in mattoni rossi, con un bel vialetto alberato davanti all'ingresso. Lo fece sedere su una poltrona di vimini all'aperto ed esclamò con grande soddisfazione.
- Vedo che si è deciso a venirmi a trovare. È parecchio che me lo aveva promesso! -
Così dicendo si accese un lungo sigaro che aveva preso dal taschino della giacca ed aggiunse.
- Se non sbaglio mi aveva detto, quella volta che abbiamo pranzato insieme al ristorante di Tor di Valle quando mi fu presentato da quel mio amico avvocato, che voleva vedere i miei puledri e forse acquistarne uno. -
Era stato proprio così. Dopo quella presentazione si erano rivisti diverse volte sempre agli ippodromi ed avevano fatto rapidamente amicizia, anche perché Carlo era tipo da adattare il proprio comportamento con facilità alle persone che di volta in volta aveva di fronte.
Il suo stesso modo di parlare era spesso diverso; duro quando così volevano le circostanze, gentile ed affabilmente cordiale con persone di altra caratura.
Carlo gli era diventato simpatico in pochi mesi e pur biasimandone il particolare lavoro, apprezzava molto il modo spesso umanissimo con cui riusciva ad avere rapporti con ogni persona.
Un giorno l'aveva invitato nella sua tenuta in Toscana per fargli ammirare il suo allevamento e per passare insieme una giornata e da quel momento era nata in Carlo l'idea di comprare un puledro.
Le spese per allevarlo ed allenarlo sarebbero state salate ma ciò non rappresentava un problema. Piuttosto Carlo non sapeva come Vera avrebbe preso questa sua iniziativa.
Filavano ancora piuttosto bene insieme anche dopo che ebbero cambiato casa per andare a vivere in una villa sulla sinistra della Cristoforo Colombo al “Villaggio Azzurro”, così chiamato perché la maggioranza dei proprietari era rappresentata da personale di volo dell'Alitalia.
Lì Vera aveva fatto un sacco di nuove amicizie e si era trovata benissimo in quel nuovo ambiente così diverso dal suo. Aveva lasciato il lavoro che svolgeva per Paolone mantenendo invece il posto in banca ed aveva detto a Carlo.
- Sto bene con te. Forse non ti amo come si intende l'amore fra due ragazzi e forse nemmeno tu mi ami veramente. Però dimmi, - aveva aggiunto facendogli l'occhietto - dimmi..., - aveva ripetuto - è vero che per te sono molto importante e che vicino a me ti senti un uomo completo e felice? -
Carlo aveva risposto di si, e lei gli era saltata al collo coprendogli, con un'infinità di baci, ogni angolo del viso senza lasciargli il tempo nemmeno di respirare.
Si capiva che la vita per lei era ogni giorno più desiderabile e bella e che era rimasta ancora una bambina, pur avendo vissuto molte emozioni ed esperienze che ragazze della sua età nemmeno lontanamente si sognavano. -
Quando Carlo la osservava aggirarsi per casa, mentre canticchiava qualche canzone alla moda, la vedeva del tutto soddisfatta. La protezione che in un certo senso le aveva dato aveva fatto dimenticare a Vera il brutto periodo di sbandamento psicologico dopo la morte di Tonino nella casa da gioco. Carlo sapeva di averle donato tutta la tenerezza che poteva e lei, grata per tutto ciò, lo ripagava con il suo ridere gioioso e con l'entusiasmo proprio della sua giovane età.
L'ambiente dove l'aveva portata a vivere, quel villaggio di gente fuori del comune per il particolare lavoro svolto, i racconti di viaggi meravigliosi intorno al mondo, le avventurose esperienze di volo ed insieme la durezza della preparazione tecnica e professionale, degli esami severissimi al simulatore di volo e poi tutti quei controlli medici periodici, le facevano brillare gli occhi come in un sogno fantastico.
Gianni fra gli altri, un giovane comandante di Jumbo, la faceva letteralmente impazzire per il modo pacato di parlare e per la sicurezza che dimostrava in ogni circostanza.
Egli, d'altro canto, guardava ammirato quel giovane cerbiatto maturare di giorno in giorno e diventare mese dopo mese più adulto, più bello e soprattutto più interessato a vivere senza condizioni limitative la propria esistenza, fossero quelle rappresentate da Carlo o da chiunque altro.
Gianni era un bell'uomo ed aveva non più di trentacinque anni. Era divorziato da una americana che aveva sposato negli Stati Uniti quando era andato a San Diego in California a far pratica sui Jumbo.
Vera si era infatuata della classe di questo pilota e del suo vivere libero con equilibrio e misura.
Egli non l'aveva corteggiata ma erano diventati amici come del resto era diventato amico di Carlo. Una volta quest'ultimo gli aveva detto.
- Lo sa che facevo l'autista di autobus? -
Poi allegramente aveva proseguito.
- Anche a me è sempre piaciuto volare e da ragazzo stavo sempre col naso in aria non appena sentivo passare un aereo. -
Gianni aveva replicato, sornione, fissandolo.
- Si faccia un jet privato e prenda il brevetto, chissà che prima o poi non ci incontriamo in volo. -
Tra i due non c'era alcuna rivalità riguardo a Vera. Carlo era un fatalista: quella ragazza in fiore gli aveva regalato degli anni stupendi e ogni mese passato con lei era stato ed era un mese guadagnato.
Gianni invece aveva l'abitudine di vincere ogni partita ma non forzava mai la mano anche se per Vera, così piena di vita e così esuberante, provava un'enorme attrazione.
Senza saperlo era lei che aveva il jolly del gioco fra i due, ma in quel momento particolare, il solo desiderio che voleva si realizzasse era che nulla turbasse quella atmosfera così felice e così bella, occasionalmente creatasi.






2

Carlo comprò dal conte Ubaldo un puledro baio dopo averne osservati più di una dozzina. Quel cavallo più che per la genealogia illustratagli lo aveva favorevolmente impressionato perché, mentre egli stava guardando il gruppo, gli si era avvicinato caracollando e fissandolo.
Non aveva avuto dubbi, lo avrebbe preso senza discuterne il prezzo. Gli era simpatico e gli aveva dimostrato attenzione e questo era più che sufficiente.
Da sempre Carlo si comportava istintivamente e questo lato del suo carattere era in forte contraddizione con il desiderio di essere un uomo raziocinante e calcolatore .
Anche le più importanti decisioni della sua vita erano state prese senza valutare il bene o il male, i pro o i contro che gli avrebbero reso.
Il perché ciò accadesse se lo era spesso chiesto a posteriori lui stesso, nei momenti in cui di fronte a nuove realtà, ne aveva subito le conseguenze il più delle volte negative .
- È il lato più recondito del mio carattere che si manifesta improvvisamente, - si era giustificato la prima volta che subì una dura punizione dal professore d'italiano e poi dal padre, appena quindicenne,quando si era ribellato senza riflettere al pessimo voto che il primo gli aveva messo in un compito in classe.
Frequentava il secondo liceo ed al “quattro” scritto sul foglio del tema con una matita rossa,si era alzato dal banco e con voce alta ed offesa aveva replicato.
- Caro professore, se questo è uno svolgimento da “quattro”, vuol dire che lei non ha letto il mio tema, oppure che non mi può vedere! - -
Nel proclamare il suo sdegno aveva preso il foglio di protocollo e nel silenzio generale aveva letto alla classe ciò che aveva scritto,poi avvicinatosi al professore gli aveva buttato sulla cattedra il proprio compito.
Carlo era infatti un miscuglio d'orgoglio, ambizioni represse ed insofferenza. Proteggeva generalmente i deboli ed odiava chi esercitava il potere; era insomma un ribelle pur rendendosi conto che tutto sarebbe stato più semplice, più lineare e più favorevole per lui, se avesse ragionato con calma e se avesse sopito i propri istinti che di quando in quando gli venivano a galla .
Anche la scelta del puledro gli era stata dettata dall'istinto. Del fatto che fosse figlio di campioni e che la madre, una fattrice stupenda, avesse vinto nella sua carriera diverse corse importanti a livello internazionale non gliene importava assolutamente niente.
Lo pagò una bella cifra, più di trenta milioni, ma non obbiettò perché voleva quello e solo quello.
In realtà il conte Ubaldo lo aveva trattato bene e gli aveva fatto un prezzo giusto ed onesto. Poi si era raccomandato.
- Lo faccia allenare da un esperto, quando sarà a Roma; quest'animale lo vedo proiettato verso grossi traguardi. -
Si strinsero la mano, poi andarono a pranzo in una trattoria non lontano dalla tenuta e mangiarono dell'ottima selvaggina bevendoci sopra un vinello speciale proveniente dalla riserva del Conte.
Quando fu il tramonto Carlo si accomiatò dal nobiluomo che ancora una volta gli fece un sacco di complimenti per la scelta felice.






3

L'estate era quasi agli sgoccioli ed a metà settembre Carlo e Vera decisero di passare un week-end al mare.
A luglio ed agosto avevano fatto dei brevi viaggi all'estero visitando la Grecia ed in seguito la Tunisia ed il Marocco, ma la maggior parte dell'estate l'avevano trascorsa a Roma.
Vera era stata operata di appendicite acuta e l'operazione non era andata liscia. Una sacca di pus si era formata attorno al cieco e la ragazza aveva sofferto moltissimo con quella cannula infilata nell'addome.
C'era stato un momento che Carlo aveva visto la situazione precipitare quando per una nottata la temperatura era arrivata ad oltre quaranta gradi. Lei vaneggiava e Carlo le aveva bisbigliato all'orecchio.
- Piccola mia non mi fare brutti scherzi, guarisci subito e vedrai che bel regalo ti farò. -
Al mattino Vera stava già molto meglio e Carlo le portò una stupenda collana di corallo rosso che aveva acquistato da Bulgari. Dopo averne guardate più di una decina aveva deciso per quella, un vero e proprio gioiello artistico, pagandola un patrimonio.
Una settimana più tardi Vera fu completamente ristabilita e così pensarono di recarsi a Porto Azzurro, all'isola d'Elba, dove l'anno prima Carlo aveva comprato una villetta.
Amava quell'isola e specialmente quel villaggio strano di pescatori, di pensioni ed alberghi, di forzati rinchiusi nella vecchia fortezza in cima alla collina, che una volta si chiamava Porto Longone.
C'era stato la prima volta una decina di anni prima con Luisa.
Avevano lasciato i bambini dalla mamma di lei approfittando di una breve vacanza a cavallo del giorno di san Giuseppe.
A Piombino avevano preso il traghetto e seduti sul ponte avevano respirato a pieni polmoni quell'aria pura e salmastra sufficientemente tiepida in quell'incipiente primavera.
A dire il vero avevano sbagliato traghetto, prendendo quello per Porto Azzurro invece che quello per Porto Ferraio, ma l'errore era tanto piaciuto a Luisa che scherzando aveva sentenziato.
- Deve essere un segno del destino, speriamo che sia di buon auspicio e non che tu debba finire il resto della tua vita all'ergastolo. -
Dicendo così aveva riso di cuore, cosa che non succedeva spesso.
A sera avevano cenato in una trattoria del porto ricavata da un barcone ancorato al molo e Luisa era rimasta impressionata per l'abbondanza di pesce freschissimo esposto in una grossa vasca piena di acqua di mare.
Il padrone della trattoria, un uomo simpaticissimo sui cinquanta che indossava un maglione di lana blu con collo alto alla marinara, aveva voluto cucinare personalmente per quella coppia di turisti “i primi della stagione” che venivano da Roma.
Per primo piatto aveva preparato un delizioso risotto “al nero di seppia” dopo aver fatto assaggiare ai due un antipasto di frutti di mare che egli stesso aveva pescato. Come secondo aveva portato in tavola delle triglie alla livornese con un sugo talmente delizioso che Luisa, tutta felice, non aveva potuto fare a meno di applaudire. Il tutto era stato reso più digeribile da un vino bianco proveniente da dei vigneti a pochi chilometri da Porto Azzurro ed alla fine aveva offerto alla coppia un suo amaro digestivo “originale” che Carlo ancora ricordava perché era stato per la moglie una specie di colpo di grazia.
Luisa era quasi sbronza, “una sbornia allegra” ricordava, quando avevano trovato una stanza per dormire nell'unica pensione aperta a marzo.
Non c'era più il riscaldamento ed i due si erano scaldati stringendosi sotto due grosse coperte. Era stata una notte d'amore meravigliosa con la moglie ed era rimasta uno splendido ricordo della sua vita coniugale.
Al mattino avevano fatto il giro del paese, poi presa una barca a remi erano arrivati fin sotto il Penitenziario.
Carlo rammentava ancora quegli ergastolani che dalle finestre sbarrate li avevano salutati agitando dei fazzoletti.
Più tardi erano saliti per una strada impervia fino all'ingresso del Carcere ed avevano visitato il Mercatino, al di là del ponte levatoio, dove i detenuti vendevano ai turisti quanto facevano con le loro mani nelle lunghe giornate senza fine della loro più o meno inutile esistenza.
C'erano quadri, libri di poesie, canestri di vimini, imbarcazioni e velieri dentro bottiglie di vetro, indumenti di lana e di stoffa.
Carlo aveva comprato un piccolo quadro di un ergastolano, con una bella cornice di legno scuro, raffigurante una marina con barche di pescatori arenate sulla sabbia. Aveva pensato che quel quadro avesse un grande significato per il suo autore: da un lato il mare quasi simbolo di libertà o per lo meno desiderio inconscio di essa, dall'altro quelle barche sulla spiaggia da interpretarsi come espressione di prigionia, quasi gabbiani cui erano state tagliate le ali.
Carlo odiava la galera: quei tre mesi che aveva passato a Regina Coeli erano stati peggio di una pestilenza. In quelle lunghe giornate aveva spesso pensato che la mancanza della libertà personale era più terribile della fame, egli che la fame l'aveva sentita veramente quando se ne era andato da casa.
Ogni tanto, ora che con Vera aveva raggiunto un benessere economico di tutto rispetto, si sorprendeva a riflettere sui rischi del suo lavoro e sulla possibilità di finire di nuovo nelle patrie galere.
In effetti un certo rischio esisteva, ma era in realtà un rischio molto modesto dal momento che l'Organizzazione e lui stesso godevano di ampie protezioni.
Talvolta sentiva rimordergli la coscienza quando il pensiero andava a quei poveri disgraziati che dilapidavano i loro patrimoni ed ogni loro avere nel gioco. Aveva l'impressione, ma ciò accadeva non molto spesso a dire il vero, di essere uno strumento diabolico per quella gente schiava di un vizio che riteneva secondo solo alla droga e che prima o poi qualcuno gli avrebbe presentato il conto.






4

Anche in quel pomeriggio di sabato, seduto sotto l'albero di noce che troneggiava nel giardino della villetta in uno dei punti più alti della collina sopra Porto Azzurro, stava riflettendo e rimuginando attorno ad un turbinio di pensieri non tutti molto allegri e che comunque giocavano, come il gatto col topo nel fondo della sua coscienza e della sua anima.
La figura snella di Vera, però, faceva da contro altare concreto alle sue elucubrazioni metafisiche e si stagliava in fondo al giardino vicino ad un cespuglio di rose, elegante nella giacca bianca, pantaloni attillati azzurri e zoccoletti di pelle neri.
Carlo, si stupì di abbandonare di colpo ogni pensiero serio, triste e quasi lugubre e miracolosamente si sentì d'incanto molto tranquillo guardando Vera in carne ed ossa oscillare sul dondolo.
Quella ragazza non gli aveva dato che momenti di felicità da quando l'aveva conosciuta.
Qualsiasi cosa fosse maturata di negativo nella loro relazione, mai avrebbe potuto cancellare quanto aveva ricevuto in quegli anni.
Ultimamente era capitato più di una volta che lei, strettaglisi vicino, come una figlia che raccontasse al padre i primi pensieri d'amore verso un uomo idealizzato, gli avesse parlato con grande entusiasmo di Gianni e di quanto di imprevisto gli capitava durante i voli e nelle varie città del mondo.
Carlo la faceva parlare, le accarezzava i lunghi capelli quasi corvini, la teneva sulle ginocchia cullandola e sorrideva ad ogni sua esclamazione piena di entusiasmo.
Un giorno lei aveva domandato.
- Cosa faresti se io me ne andassi via per il mondo magari con Gianni? -
Egli non aveva risposto nulla; si era alzato dalla poltrona ed aveva preso in mano una vecchia Bibbia che si trovava nella piccola biblioteca vicino al caminetto ed aveva solennemente dichiarato.
- Giuro che non mi ucciderò. -
Vera che aveva guardato la scena con aria di finta preoccupazione, era scoppiata in una sonora risata e tutto era finito in un abbraccio.
Gianni era stato molto utile a Carlo circa sei mesi prima, quando quest'ultimo lo aveva convinto ad esportare clandestinamente e di depositare, presso una banca di New York, un milione e mezzo di dollari.
Gli aveva detto.
- Lo sa che mi sono informato sul suo conto ? -
Il comandante lo aveva sbirciato perplesso ed incuriosito, mentre Carlo con assoluta noncuranza aveva fatto una lunga pausa versandosi un cognac.
Poi aveva continuato.
- Lei è considerato il più integerrimo pilota dell'Alitalia: so bene che quelli della finanza si sono stancati di controllarla perché non l' hanno mai pizzicata nemmeno con una stecca di sigarette. Qui ci sono cento mila dollari se fa uno strappo alle sue regole morali. -
Gianni era stato lì per lì per sferrargli un violento diretto al mento, ma dopo un breve istante aveva risposto.
- Mi chiede un grossissimo favore e sa bene quale rischio enorme io corra. -
Poi socchiudendo gli occhi aveva continuato, - se lo faccio per una volta in vita mia non è tanto per la cifra che mi offre quanto perché anch'io amo il rischio. È come una scommessa sui cavalli, pertanto avrà il suo milione e mezzo in America. -
Carlo aveva giocato e vinto il bluff perché già prima di iniziare a parlare sapeva che Gianni avrebbe accettato per un solo motivo: farsi bello agli occhi di Vera.
Quella grossissima cifra, una volta custodita a Manhattan, era un buon ottanta percento di tutto quanto Carlo avesse guadagnato in quegli anni. Si trattava di un enorme capitale che era frutto della sua attività nell’Organizzazione oltre che di proprie attività speculative e che gli sarebbe stata utilissima, una volta che avesse decoso di rientrare nei ranghi di una vita tranquilla.
I seicento milioni che aveva incassato quale percentuale sulle scommesse erano diventati oltre tre miliardi e mezzo.
Era stato Paolone a convincerlo una sera che si erano veduti per una così detta cena di lavoro un paio d'anni prima.
Aveva accumulato allora, al netto, un duecento milioni che aveva depositato su un libretto al portatore nell'Agenzia dove Vera lavorava.
Il boss gli aveva detto.
- Tu sai cosa è la cosa più richiesta oggi giorno? -
Carlo lo aveva guardato negli occhi piccoli e mobilissimi ed aveva risposto a mezza voce vergognandosi, - forse il mangiare....! -
Il grasso Paolone era esploso in una risata ciclopica e come sua abitudine prima di sentenziare gli aveva affibbiato una pacca sulla spalla.
- Che dici, sembri proprio uno scemo. Sono i soldi “the money”..., possibile che non lo hai ancora capito! -
Carlo era rimasto ammutolito poi quello aveva continuato.
- Dammi tutti i soldi che risparmi ed io sarò da oggi in poi la tua Banca. C'è un sacco di gente che per avere subito qualche milione venderebbe al diavolo la madre, la moglie ed anche i figli ! Io so come garantirmi. Più denaro liquido ho a disposizione e più soldi riesco a fare. -
Si era fermato un attimo e dopo averlo squadrato aveva aggiunto.
- Ti prendo come socio di minoranza nella mia Finanziaria Privata. Tu puoi dormire sonni tranquilli. -
Carlo aveva pensato per un attimo, poi aveva deciso.
- Mi sta bene ma ogni tre mesi voglio la mia percentuale, che tu stesso stabilirai. -
Con Paolone la Società funzionava alla perfezione perché l'uomo era abilissimo nel selezionare la clientela e di bidoni ne prendeva uno ogni morte di Papa. Poi era puntualissimo nel passargli quattro volte all'anno le percentuali sugli interessi.
Per Carlo l'unico problema rimaneva quello di cambiare lire in dollari ed accumularli.
Era stato molto generoso con Luisa e i figli. Aveva destinato loro un buon venti per cento dei propri introiti tanto che Luisa ora conduceva una vita del tutto tranquilla concedendosi lussi prima impensabili: il parrucchiere, almeno una volta alla settimana, vestiti eleganti e firmati, una magnifica Fuoriserie ed un attico dalle parti di Monte Mario.
Ogni tanto una telefonata lo teneva informato dei progressi scolastici dei figli che frequentavano due delle migliori scuole private di Roma.
Abbastanza spesso Carlo si vedeva con loro in un Circolo particolarmente esclusivo colmo di campi di tennis e piscine.
Erano quelle occasioni di brevi scambi di battute più o meno convenzionali che forse allontanavano ancora di più i figli dal padre.
Durante l'ultimo inverno li aveva portati a Cortina a sciare. Erano stati dieci giorni felici per tutti e tre e si era ricreato tra loro un certo affiatamento. Aveva voluto prenotare all' Hotel Cristallo e li aveva affidati ad un famoso maestro di sci conosciuto come il più capace per insegnare ai pivelli le tecniche raffinatissime delle discese a sci paralleli. Dopo cinque giorni erano già sulle Tofane.
Debora era diventata una bella ragazza fresca ed elegante ed un mucchio di baldi giovanotti le facevano una corte spietata.
- Papà - gli aveva detto una mattina quando era scesa a far colazione molto presto, mentre Simone stava ancora dormendo - ti devo chiedere una cosa, non ti dispiacere. -
Carlo aveva appoggiato i gomiti sul tavolo e la testa sul palmo delle mani aperte e guardandola negli occhi l'aveva sollecitata a parlare.
- Su forza piccola, chiedi pure tutto ciò che vuoi, cercherò di risponderti con tutta la sincerità che possiedo. -
Debora era rimasta un attimo in silenzio, si era guardata intorno nella piccola saletta appartata, poi sospirando aveva cominciato.
- Da quando te ne sei andato mi sono chiesta ogni giorno se ho qualche responsabilità riguardo quella tua decisione. Ho pensato, - aveva continuato dolcemente - che non sono mai stata molto affettuosa con te che lavoravi tanto e probabilmente desideravi sentirmi più vicina e più riconoscente. -
- Io sono stata sempre molto legata alla mamma, - aveva proseguito - ma devi sapere che non ti ho mai biasimato per la tua vita disordinata. Ognuno ha diritto di vivere come meglio ritiene e non provo rancore se non hai potuto più restare con noi. Questo, - aveva aggiunto con un ultimo sospiro - voglio che tu sappia. Ormai sono quasi una donna e tra noi deve esistere almeno una grande amicizia. -
Carlo l'aveva guardata parlare e più delle parole che la figlia aveva pronunciato, aveva osservato il suo viso corrucciato e così bello con quelle ciglia lunghissime ed i grandi occhi a mandorla verdi castani.
Sorridendole l'aveva tranquillizzata.
- Ricordati solo una cosa: quando ti innamorerai pensa per prima cosa se l'uomo che avrai scelto potrà essere un buon padre. Io non ne avevo la stoffa né lo spirito. Ci vuole ben altro che sacrificarsi con un lavoro! Sai che ti dico, ci vuole tanta allegria per essere un buon padre. -
- Se non volevo morire di noia ed inedia, - si era confessato arrossendo leggermente - dovevo prendere la decisione che ho preso. In compenso vi ho sempre molto amato ed in particolare ho sempre voluto bene a vostra madre. -
Così dicendo le aveva preso la piccola mano e l'aveva baciata teneramente.
Era stato allora che Simone arrivando di corsa, rumoroso come sempre, con una grande risata aveva esclamato.
- Ma dove vi siete cacciati, è mezzora che vi cerco, ed io ho voglia di sciare. -
Simone, molto cresciuto in statura, aveva il viso pieno di acne e Carlo sospettava che si masturbasse almeno un paio di volte al giorno.
Era evidente nel ragazzo un senso di vuoto affettivo non compensato da tutto il benessere che lo circondava.
Simone, però, era un ragazzo sensibile ed intelligente e la mancanza dell'autorità paterna gli stava creando guasti irreparabili. Ciò si poteva tastare quasi con mano quando assumeva, e ciò avveniva spesso, atteggiamenti aggressivi specie con la sorella e con la madre.
“Vattene al diavolo e non mi rompere...” - aveva esclamato la sera prima, rivolgendosi alla sorella quando quella gli aveva detto che era ora che se ne andasse a letto. Poi aveva aggiunto.
- Pensa ai cavoli tuoi e se non vuoi avere testimoni delle tue pomiciate, basta che ti levi dalle scatole che io me ne frego di te e di quella tua aria di santarellina! -
Carlo aveva fatto finta di non sentire ma quel figlio rappresentava un grosso problema per lui e nello stesso tempo un grande rimorso tanto che, preso da un raptus paterno, aveva telefonato quasi subito a Luisa proponendole di farlo vivere con lui.
La moglie aveva rifiutato ed alle insistenze di Carlo aveva replicato che non c'era nulla da discutere, perché tanto Simone sarebbe rimasto con lei.
- Simone non me lo porti via, - aveva detto categoricamente - se lo desideri potrai vederlo più spesso! -
Non aveva voluto sentire altre ragioni o spiegazioni. Gli aveva dato la buona notte ed aveva attaccato il telefono.
Non sarebbe stato facile per Carlo prendere appuntamenti con il figlio e poi mantenerli.
L'attività nell'Organizzazione non gli lasciava molto tempo libero e poi c'era Vera che gli portava via ogni minuto disponibile, con quella esuberanza di vivere e con quella enorme voglia di vedere e conoscere, come se il tempo le fuggisse troppo in fretta e non ci fossero tanti anni futuri per godere di ogni cosa.






5

Una fitta pioggerella intanto stava scendendo da alcune pigre e bianche nuvole che si erano fermate, spinte da una leggera brezza, proprio su Porto Azzurro mentre il cielo all'orizzonte splendeva limpidissimo.
Vera alzò il viso aprendo la bocca per assaporare sulla lingua quell'acqua insipida e voluttuosamente volle inzupparsi tutta.
Poi si girò verso Carlo che la guardava meravigliato e gli corse tra le braccia per farsi stringere forte.
Quando entrarono in casa la pioggia era completamente cessata ed il prato del giardino e le rose dei cespugli, tutto intorno, brillavano di gocce minute d'acqua trasparente.
Carlo si sdraiò sul “quom” enorme che copriva il pavimento della sala soggiorno. Si sentì eccitato mentre Vera, buttata la bianca giacchetta sul divano e sfilatasi di dosso la camicetta di pizzo, rimase a torso nudo cercando qualcosa per asciugarsi.
Il suo seno acerbo ed i capezzoli turgidi erano provocanti ed estremamente sensuali.
Egli la afferrò per una caviglia mentre gli stava passando vicino e trasmise in quella stretta violenta tutta la sua passione.
La giovane donna gli cadde accanto e Carlo la baciò ripetutamente sul collo e dietro le bianche orecchie.
Vera teneva gli occhi aperti e la bocca chiusa mentre le narici erano dilatate in una inspirazione trattenuta, quando l'uomo le tolse i pantaloni attillati e le accarezzò morbosamente, con un fremito controllato, le morbide cosce.
Anche le minuscole mutandine volarono via strappate dalla cieca libidine che si era impadronita di Carlo mentre lei immobile, senza un gesto od una parola, sentiva di subire per la prima volta la sua violenza.
Carlo si accorse di non riuscire a penetrarla e si stupì quando le eiaculò sul pube. Rimase supino ed avvilito per molto tempo a fianco della giovane, poi chiuse gli occhi e pensò che presto l'avrebbe perduta.



CAPITOLO QUINTO







1

La porta della stanza da bagno era rimasta spalancata e Carlo, seduto sulla sponda del grande letto matrimoniale, stava osservando il profilo del solido e flessuoso corpo di Vera attraverso il cristallo trasparente della doccia .
Lei si muoveva, con gesti lenti e misurati sotto l'acqua che schizzava con forza sulla sua diafana pelle, come in una danza rituale ora sollevando verso l'alto le bianche braccia, ora movendo ritmando le lunghe gambe.
Il profilo delle natiche e del seno era come al solito eccitante ma quel cristallo verdolino sembrava separare Vera dal mondo come una barriera invalicabile.
Nella stanza da letto, arredata con gusto semplice con mobili di castagno lavorati a mano, il suo profumo riempiva ogni angolo.
Usava soltanto e da sempre il “Mitsouko” ed ormai per Carlo quel delicato odore rappresentava una parte indivisibile di lei e se lo sentiva in ogni momento appiccicato sulla pelle. Lenzuola, federe, indumenti, tutto parlava di lei attraverso quel profumo dal nome esotico.
L'uomo si sdraiò sul letto e guardò il soffitto della stanza: una grossa farfalla girava vorticosamente intorno al lampadario acceso. Carlo sperò che non morisse; immaginò che quella farfalla fosse lui stesso ed il lampadario tutto colorato ed a fiori fosse Vera.
Come una farfalla aveva attinto il nettare di quel fiore ma, ora era sicuro che non l'avrebbe potuta più avvicinare con la certezza che lei non l'avrebbe desiderato come nel passato.
Fu un breve pensiero interrotto dalla voce squillante di Vera che gli chiese di porgerle l'accappatoio.
Carlo aprì il primo cassetto del comò di fronte al letto e stupefatto vide incorniciata, vicino all'accappatoio, una fotografia di Gianni.
Lesse la dedica.
“A Vera, piccola cara, mio grande sogno”.
Vera intanto uscita dal bagno era saltata nuda e bellissima sul letto ma il sorriso sulle sue labbra si spense appena lo vide con l'accappatoio nella destra e il ritratto di Gianni nella sinistra.
Carlo aveva scoperto il suo segreto. Per la prima volta da quando erano insieme egli la vide arrossire improvvisamente e coprirsi, con un atto istintivo, con un piccolo asciugamano.
Nella notte che seguì piovve in continuazione ed al mattino decisero di partire presto.
Durante il viaggio in macchina da Piombino a Roma i due rimasero in silenzio.
Vera aveva messo nello stereo della Jaguar un nastro con tutte le canzoni di Baglioni e per Carlo quelle parole e quella musica suonavano come un inno all'amore che Vera ormai provava per il suo comandante.
Lasciò Vera ad Ostia dopo aver percorso l'autostrada da Civitavecchia, dicendole.
- Prendi un taxi e torna a casa che io ho urgente bisogno di andare a Tor di Valle. -
Era la verità, almeno parzialmente, perché era stato deciso per quella sera un sumit, dalle parti dell'ippodromo romano del trotto, con la presenza eccezionale di Gianni Radice.
Il vertice, cui avrebbe partecipato Luca Segni, Paolone ed altri boss, era stato programmato già da quindici giorni per fare il punto sul volume di affari che era controllato dall'Organizzazione e su possibili sviluppi di questa.
Con un certo sadismo Carlo, dopo aver lasciato Vera nei pressi dalla stazione metropolitana di Castel Fusano, si sentì quasi felice di averle fatto uno sgarbo non accompagnandola a casa al Villaggio Azzuro. Era stata questa una reazione tardiva di gelosia deviante nei riguardi della donna che egli aveva sentito non più sua, completamente ed incondizionatamente.
Eppure in quegli anni di vita in comune aveva saputo fin dal principio che la ragazza avrebbe prima o poi incontrato un uomo diverso da lui: sicuramente un uomo da cui pretendere qualcosa e da cui prendere nuova linfa vitale.
A Carlo lei aveva sempre dato, donato e regalato ogni cosa della sua acerba giovinezza. Egli aveva accettato tutto con logica fatalista ma quasi nulla aveva creato di fantastico per tenerla con un legame più profondo e durevole e sapeva bene di non averle dato nessuna speranza per un futuro diverso.
Ora lei aveva intravisto un legame più vero e naturale e non ci sarebbero stati barba di ricordi o denaro che l'avrebbero potuta fermare in quel fatale allontanamento.







2

Carlo giunse in anticipo all'appuntamento e dai finestrini aperti della Jaguar penetrò nell'abitacolo il profumo dei pini marittimi che costeggiavano la strada.
La sera tiepida era pregna di odori. Dai prati saliva verso il ciglio della Via del Mare il monotono canto delle cicale e due cani latravano lontano rispondendo ad un terzo che s'era piazzato davanti ai fari accesi della grossa autovettura.
La trattoria era venti metri più in là e Carlo non aveva fermato la sua macchina nel parcheggio riservato perché, in quel preciso momento, non voleva vedere nessuno.
Era rimasto al sedile di guida ed una marea di pensieri gli affollavano la mente in un turbinio di riflessioni.
Doppio Zero, il suo puledro stava irrobustendosi alle Capanelle ed egli lo aveva affidato ad uno dei migliori allenatori di purosangue della Capitale, un certo Adolfo Conti soprannominato “Ercolino”. Gli costava un paia di milioni al mese; ora aveva quasi due anni e tra poco avrebbe debuttato nella sua prima gara.
Quando l'aveva acquistato dal conte Ubaldo aveva più o meno quattordici mesi ed era stato lo stesso allevatore a consigliargli di farlo allenare da “Ercolino” alle Capannelle, dove il cavallo era stato subito portato.
Adolfo Conti era stato un ottimo fantino ed oltre a fare l'allenatore continuava ugualmente a correre, vincendo spesso. Era famoso per aver avuto grandi successi al Palio di Siena più di una volta ed era un uomo pacato con una grande grinta che gli si leggeva nello sguardo attento.
Un naso aquilino e due forti braccia davano l'impressione di uno che sapesse veramente cosa pretendere da un purosangue. Aveva poi il pregio di una grande sensibilità che esprimeva con parole semplici quando parlava dei suoi cavalli, cui era profondamente e professionalmente attaccato.
Dopo un paio di mesi che Carlo gli aveva affidato il suo Doppio Zero, l'aveva portato al “tondino” legato con la cavezza e l'aveva osservato a lungo mentre gli artieri lo facevano girare in continuazione .
Doppio Zero era alto al garrese un metro e settanta ed aveva un “a piombo “ quasi perfetto. I nodelli erano sottili ed egli per precauzione li aveva fasciati con delle bende bianche con un sistema che era un segreto della sua professione. I posteriori alti e la muscolatura, che diveniva ogni giornp più possente, erano tipici di un animale di gran razza. Un mese e mezzo dopo quando, dopo avergli fatto la bocca lo ebbe montato, aveva parlato nella selleria vicino al box di lui, con Carlo.
- Ha avuto buon naso con questa bestia, - aveva iniziato con il viso serio e scandendo le parole.
- Lo ho visto bene alla monta, ha un buon carattere ed è oltre tutto intelligente, - aveva aggiunto con aria soddisfatta.
In breve, dopo che fu trascorso un'altro mese ed egli l'ebbe spinto ai primi passi di galoppo, il suo entusiasmo per il puledro era cresciuto enormemente mentre era diminuito il pregiudizio iniziale che forse non sarebbe diventato mai un vero campione.
Si era accorto che l'animale poteva essere portato con grande facilità tanto riusciva a capire l'uomo in sella e che aveva il dono del cambio di velocità agli ultimi duecento metri.
Carlo non aveva creduto alle sue orecchie quando Ercolino gli aveva annunciato che in ottobre avrebbe debuttato nel “Listed” e che se le cose fossero andate come dovevano andare alla fine di novembre avrebbe corso il premio Tevere.
Ogni tanto lo andava a trovare e quello riconosceva, dal rumore della carta che avvolgeva le caramelle alla menta che gli portava, la presenza del suo padrone. Era divertente sentire la lingua del puledro leccargli il palmo della mano e Carlo lo accarezzava a lungo sul muso e sulla criniera curata e pettinata.
Quando capitava alle Capanelle di sera lo trovava sempre spazzolato e bussolato e con la paglia fresca e molte volte aveva assistito alla sua cena sempre ricca di biada, fieno e carote. Carlo ne osservava le zampe nervose ed agili e fantasticava come in un sogno sul suo futuro.
Aveva una segreta speranza :che quel cavallo gli permettesse di uscire dall'Organizzazione e che gli desse quindi la possibilità di piantarla con il suo lavoro di esattore delle scommesse clandestine. Qualche volta, sognando ad occhi aperti, si vedeva sistemato in una esistenza finalmente tranquilla e serena.
Solo una volta Carlo aveva tremato per il suo puledro. Ercolino gli aveva telefonato di mattina presto, che non erano ancora le sei, e con voce angosciata gli aveva detto.
“Doppio Zero” sta male, ha più di quarantadue di febbre. Io gli ho fatto già una iniezione di Novalgina ma ci vuole un veterinario. -
Carlo si era scapicollato, dopo aver chiamato il dottore, al box del puledro ed aveva avuto veramente paura di perderlo.
Una potente cura a base di antibiotici l'aveva guarito dopo quattro giorni e Carlo, come aveva giurato, non fumò per un mese.
Ma altri pensieri ancora gli si presentavano veloci nella mente in quella sera profumata di un settembre romano.
Se ce l'avesse messa tutta Vera probabilmente l'avrebbe potuta recuperare ed il comandante le sarebbe uscito dalla mente e dal cuore. Sarebbe stato sufficiente colmarla di dolcezza e di premure per non vedersela svanire come un uccellino che spicca il primo volo lontano dal suo nido.
La valutazione di ciò che stava accadendo lo portava contro ogni evidenza ad un certo ottimismo. Come un bambino, che non si vuole arrendere di fronte alla perdita del suo giocattolo preferito, egli si stava tuffando in quel momento nel gioco fantastico di un sogno che di reale non aveva che il suo orgoglio ferito di uomo, invaghitosi di una immagine splendida alla quale non aveva saputo donare pienamente il proprio cuore.
Pensò ancora che la “Fortuna” in quegli ultimi anni non l'aveva mai abbandonato e lì sulla Via del Mare quel lieve e fresco venticello di Ponentino, accarezzandogli i capelli, non faceva altro che renderlo magicamente sereno e sicuro.
Spostò la macchina nel parcheggio della trattoria. Era ancora presto ed egli si accorse di essere il primo del gruppo, giunto all'appuntamento.
Entrò nella sala riservata, a destra dell'ingresso, rustica e completamente arredata in legno di ciliegio.
Un cameriere basso e dai capelli impomatati di brillantina solida gli portò un Martini. Carlo si sedette ad un lato della grande tavola apparecchiata dove un biglietto indicava il suo nome ed attese l'arrivo degli altri.
Quando tutti furono riuniti con a capo tavola Gianni Radice ed alla sua destra Luca Segni, si trovò con Paolone seduto di fronte e tutti gli altri nei posti prestabiliti.
Ci furono saluti e pacche sulle spalle. Risate fragorose intercalarono banali battute di convenienza. Poi quasi di colpo l'atmosfera precipitò rapidamente verso tinte fosche e pesanti.
Gianni aveva fatto il punto della situazione ed aveva affermato che l'Organizzazione non poteva stare a guardare altri gruppi, meno forti economicamente e con meno protezioni, far soldi a palate con la droga.
Delle due l'una o ci si adeguava agli altri e con questi si spartiva la formidabile torta oppure quelli, in breve tempo, sarebbero diventati i padroni del mercato e della cocaina e della eroina, oltre che dell'estasi che già circolava a chili nelle varie discoteche e così facilmente li avrebbero eliminati dal giro delle scommesse e del gioco d'azzardo.
Carlo guardò Paolone. Una smorfia atteggiava la bocca del grosso uomo e le due rughe che solcavano di traverso la sua fronte divennero ancora più profonde. Si fecero un gesto di assenso ed allora Paolone iniziò a parlare dichiarandosi, anche a nome di Carlo, non disponibile a questa nuova attività.
Carlo si meravigliò che Gianni e Luca non obbiettassero nulla.
Paolone propose di accrescere la sua influenza nei “privè” dove tutti lo consideravano un maestro e di dare a Carlo maggiore libertà di manovra sulle scommesse agli ippodromi.
Agli altri fece piacere che i due sarebbero rimasti fuori dall'affare droga perché così maggiore sarebbe stata, per loro, la torta da spartirsi .
Alla fine si trovarono d'accordo su tutto ed all'una dopo mezzanotte si salutarono amichevolmente dandosi la mano.






3

Dopo che Vera ebbe raggiunto il Villaggio Azzurro da Ostia, fece fermare il taxi davanti alla villetta di Luigi.
Si sentiva terribilmente eccitata e sperò di trovare in casa il pilota.
Suonò il campanello della porticina d'ingresso dal momento che il cancello del giardino spalancato faceva presumere che dentro ci fosse qualcuno, anche se nessuna luce filtrava attraverso gli infissi.
Il sole era tramontato da non molto e la penombra della sera avvolgeva di tinte grigie ogni cosa.
Vera suonò di nuovo il campanello ripetutamente e finalmente sulla soglia dell'ingresso apparve la figura asciutta ed elegante di Gianni in divisa di comandante.
Egli la scrutò piuttosto meravigliato nel vederla con i capelli un po’ in disordine e con gli occhi fiammeggianti di rabbia ed arrossati di pianto represso e non potè fare a meno di ridere con gusto vedendola così imbronciata e con la fronte imperlata da minuscole gocce di sudore.
Quando la ragazza fu dentro, capì immediatamente che Vera non veniva da casa sua e che qualcosa di serio era successo tra lei e Carlo.
Smise di ridere ed osservando il bel vestito di seta e la maglietta attillata di cotone arancione, sgualciti, disse con una leggera inflessione veneta.
- Da dove vieni bella fatina? Non dirmi che sei uscita ora dalla doccia perché non ti crederei. -
Vera gli si pose di fronte col viso a pochi centimetri dal suo, la bocca semiaperta, lo sguardo implorante e scoppiò in un pianto dirotto iniziando a singhiozzare. Faceva fatica a parlare e balbettando raccontò a Gianni come Carlo avesse reagito, in maniera strana ed atipica, quando si era trovato di fronte alla fotografia con dedica che lui le aveva regalata la settimana prima.
Gianni aprì le braccia e senza dirle nulla la strinse forte a se, cullandola dolcemente come avrebbe fatto con una bimba impaurita. Dopo qualche secondo la sollevò da terra e la pose sdraiata sul divano di velluto vicino al caminetto baciandole delicatamente le mani.
Quando si fu calmata, le offrì un bicchiere d'acqua fresca con qualche goccia di limone e subito dopo lei cominciò.
- Ciò che più mi ha offesa nell'atteggiamento di Carlo, - sospirò questa volta con voce decisa - è stato il suo silenzio che mi colpevolizza, mentre io non lo ho tradito mai da quando ci conosciamo. Non posso e non potrò mai permettere a nessuno di ergersi a giudice inflessibile dei miei sentimenti più reconditi. -
Gianni sapeva da un bel po’, come Vera fosse tremendamente gelosa di ogni pensiero e così era sempre stata fin da bambina.
Era stato in un pomeriggio di giugno che lei si era confidata con lui.
Gli aveva raccontato quasi tutto di sé e della sua infanzia quando attendeva il ritorno del padre dai suoi lunghi viaggi con ansia e sbigottimento sapendo come la madre lo tradisse e tuttavia mai faceva trasparire ad alcuno le sue sofferenze di adolescente. Era un atteggiamento che non cambiava nemmeno con le amiche più care, quelle che le chiedevano con curiosità il perché fosse così morbosamente attaccata al suo papà.
Nemmeno a Carlo avrebbe mai permesso di scrutare il fondo del suo cuore se non l' avesse voluto. Era andata via da casa una volta non appena aveva trovato lavoro in Banca, non vedeva perché ora non l'avrebbe potuto fare di nuovo. Se Luigi l'avesse voluto non sarebbe più tornata a vivere con Carlo.
Gianni le asciugò le lacrime, che di nuovo le erano spuntate negli occhi verdi-castani, bellissimi, con un bianco fazzoletto che aveva tirato fuori dalla tasca posteriore del pantalone e baciandola sulla fronte le disse che da quel momento non l'avrebbe più lasciata per nessuna cosa al mondo.
Stava per partire per Rio e lei sarebbe andata in Brasile con lui. Al ritorno avrebbero detto a Carlo della loro decisione.






4

All'una e mezza Carlo aprì la porta del villino, entrò nel salone ed accese la luce del lampadario centrale. Tutto intorno era perfettamente in ordine. Nessun indumento sulle poltrone o sul divano, nessuna scarpetta di Vera gettata come d'abitudine sul tappeto, al centro, tra le poltrone ed il divano.
Carlo aggrottò la fronte e guardò la scala che portava al piano di sopra.
Sentì i battiti cardiaci aumentare di frequenza vertiginosamente. Corse sui gradini ed entrò nella camera da letto dove sul pavimento uno stupendo tappeto persiano, dalle colorazioni verdi e rosso ocra, gli ricordò dei momenti felici passati con la sua Vera.
Un presentimento funesto gli annebbiò la mente quando, al centro del grande letto in perfetto ordine, vide troneggiare il piccolo orsacchiotto di peluche che le aveva regalato per il suo compleanno.
Deglutì una saliva spessa ed amara ed ebbe la sicurezza che Vera l'aveva lasciato forse per sempre.
- Sarà doloroso, - pensò in un attimo - la cosa più dolorosa che mi potesse capitare. -
Non c'era nulla più lì dentro che gli desse una minima consolazione.
Si affacciò alla finestra della camera da letto e guardò il cielo trapunto di stelle. Sentì un aereo passare ad alta quota sulla casa e col viso rivolto all'insù urlò nel buio il nome di Vera. -









CAPITOLO SESTO

1

Vera tornò dal Brasile tre giorni prima che Doppio Zero debuttasse.
Andò da Carlo e lo trovò in giardino mentre annaffiava i fiori lungo il recinto di fianco alla villetta.
Gli disse che aveva deciso di vivere insieme a Gianni e che probabilmente fra qualche tempo si sarebbero sposati.
Non ci furono liti né scene melodrammatiche e Carlo non tentò di trattenerla.
- Puoi portarti via da casa tutto ciò che ti appartiene, - fece infine senza ombra di rimprovero nella voce ma col viso triste e serio.
- Ricordati, - aggiunse subito dopo - che io ti vorrò sempre molto bene anche se forse non ti ho saputo amare con quello slancio che ti saresti attesa per la tua età, dove tutto deve essere assoluto. -
Vera rimase turbata ma non fiatò. Non sarebbe mai più tornata sulla sua decisione e porgendogli la mano inguantata disse brevemente.
- Allora amici come prima. Non me ne volere, anch'io ti ricorderò per tutta la vita con affetto. -
Ci fu un lungo silenzio poi lei si voltò ed uscì dal cancello, svanendo in un attimo dietro la siepe.
Dal momento che Vera lo ebbe lasciato, Carlo aveva dedicato ogni momento libero al suo puledro passando lunghe ore sui terreni di allenamento dall'ippodromo .
Apparentemente aveva incassato con disinvoltura il colpo conseguente alla partenza della donna che era stata la prima causa della svolta della sua vita. Tuttavia più volte aveva riflettuto che era stato molto fortunato ad avere in quel momento Doppio Zero che stava dimostrando in allenamento di essere un vero campione.
Molte volte si recava alle Capanelle alle cinque e trenta di mattino, anche quando il tempo era cattivo o pioveva.
Si metteva un paio di stivali di gomma, che teneva sempre nel bagagliaio della sua macchina,per evitare di infangarsi fino alle ginocchia e non faceva altro che fare domande ad Ercolino su come progrediva la forza muscolare e l'agilità del suo purosangue.
L'allenatore lo tranquillizzava e il giorno prima del debutto, dopo averlo portato al piccolo Bar delle scuderie facendogli trangugiare un Martini, esclamò.
- Santo cielo adesso basta, domami vedremo cosa vale il nostro cavallino.-
Carlo passò un'altra notte insonne.
Il “Listed” fu corso in una splendente giornata di sole come solo può accadere a Roma ad ottobre. Doppio Zero stracciò tutti gli altri concorrenti ed all'arrivo era ancora fresco come se dovesse ancora correre.
Il premio “Tevere” arrivò a novembre in un baleno e fu un altro trionfo. Molti scommettitori avevano vinto puntando forte su di lui.
Carlo portò al suo cavallo una manciata di caramelle dai sapori forti come egli gradiva e festeggiò la vittoria con una cena favolosa ai Castelli.
Ad Ercolino regalò una grossa medaglia d'oro con l'iscrizione “Doppio Zero al suo amico Adolfo - Premio Tevere”.
Dopo cena Carlo e l'allenatore si appartarono in una saletta del ristorante e quest'ultimo esclamò.
- Ha visto che campione abbiamo? Ora,-aggiunse serio-riposerà per tutto l'inverno perché questo è un cavallo da Derby. In primavera dopo una corsa di preparazione “Condizionata” gli faremo correre il premio “Felice Scheibler” e poi sfonderemo il campo la prima domenica di maggio nel Derby. -
Carlo lo guardò affascinato dichiarando solennemente che gli avrebbe dato carta bianca sul cavallo.
Sorridendo sospirò, - che la Fortuna ed il Padreterno siano dalla sua parte signor Conti, lei mi ha già reso felice. -
Stabilirono insieme i particolari dello svernamento di Doppio Zero e dopo aver brindato con una vecchia bottiglia di Don Perignon si salutarono abbracciandosi.






2

Durante l'inverno la noia fu la compagna più assidua per Carlo.
Passava lunghe ore in poltrona davanti al televisore con in mano il telecomando, cambiando canale in continuazione e non guardando nessun programma.
Sembrava un vecchio pensionato vedovo che non sapesse cosa fare per ammazzare il tempo. Le notti poi erano diventate un incubo. Riusciva ad assopirsi un po’ sulla poltrona col televisore acceso ma quando, verso le tre con uno sforzo enorme, si metteva a letto si svegliava di colpo ed erano guai grossi per dormire un paio d'ore.
Due cose aveva continuamente in mente e bruciavano ogni altro pensiero: il futuro del suo cavallo e l'assenza di Vera che pur abitando a meno di cinquecento metri non si faceva mai vedere.
Era come un martello che gli picchiasse in continuazione sulla fronte ed aveva la sensazione che prima o poi sarebbe completamente impazzito.
Faceva spesso dei consuntivi della propria vita e la considerava di una idiozia assoluta.
Nemmeno il pensiero dei figli che non vedeva quasi mai lo stimolava ed adesso che Doppio Zero era a riposo non aveva proprio nulla che lo interessasse.
Fu verso la metà di gennaio che decise di trasferirsi in un albergo al centro vicino alla Stazione Termini, per sentirsi vicino a gente comune che almeno in qualche modo viveva.
Prese l'abitudine di non rientrare prima delle due di notte e di camminare a piedi, guardando cose e persone con occhi sempre attenti, attratto da tutto ciò che gli potesse dare un qualche stimolo ora che intravedeva quale aberrante desolazione gli stava provocando la solitudine affettiva.
Andava spesso dalle parti di via Veneto e si fermava a lungo al Cafè de Paris dove una notte conobbe Marta.
Stava seduta alla sua destra al bancone, dal lato della sala ristorante, con in mano un tramezzino e davanti appoggiato alla mensola un bicchiere di vino bianco.
L'aveva trovata già lì, un quarto d'ora prima, quando era entrato nel locale per mangiarsi una dozzina di ostriche che avevano sempre fresche e di cui era golosissimo.
Non aveva più di ventisette anni. La carnagione, gli occhi nerissimi, i capelli ricci, la bocca sensuale ma non volgare dimostravano chiaramente la sua origine meridionale. Teneva le lunghe gambe a penzoloni dall'alto sgabello dove sedeva.
Lo sguardo era fisso in avanti e non aveva degnato di un'occhiata nessuno intorno. Le mani erano estremamente curate e le dita lunghe e sottili dimostravano a iosa che non le aveva mai usate per spazzare o spolverare una casa.
Mentre lentamente mangiava le sue ostriche Carlo ne studiò i lineamenti, riflessi nello specchio del bancone, cercando di indovinare da che paese provenisse e la cifra che ci sarebbe voluta per portarsela a letto.
Stava così rimuginando quando quella rivolse il viso verso di lui.
- Beato te che marci ad ostriche e spumante, - e nello stesso tempo gli fece un largo sorriso, che mise in evidenza dei denti bianchissimi e perfetti.
Carlo ammiccò e con un cenno ordinò al cameriere di portargli un'altra porzione che offrì alla donna.
- Sei straniera? - domandò rivolgendo lo sguardo dalla sua parte. - Il tuo accento mi sembra portoghese o forse spagnolo. -
- Bravo, - fece quella ironica - come hai fatto ad indovinare, era proprio difficile capirlo...! Sono di una cittadina al confine tra Messico e Stati Uniti, ma purtroppo non sono nata cinque chilometri più in là e quindi sono messicana. -
Mentre parlava, Carlo osservò il cappottino dozzinale che aveva indosso e che lei teneva sbottonato. Era stato sicuramente acquistato in un grande magazzino ed inoltre gli sembrò piuttosto vecchiotto.
Il collo era di finta pelliccia; sotto portava un vestitino di lana attillato di poco prezzo e quelle mani così affascinanti non portavano né anelli né altri monili.
Aveva al collo una piccola catenina d'oro con crocefisso di madreperla. Non era truccata che intorno agli occhi con un ombretto verde scuro e portava due bianchi orecchini con pendagli d'argento a forma di margherita, attaccati ai lobi sottili e minuscoli delle orecchie.
Chiuse un attimo gli occhi e improvvisamente esclamò con un sospiro.
- Senti facciamo finta di essere vecchi amici e saltiamo tutti i preamboli. Io, - aggiunse - mi chiamo Marta e non so dove andare a dormire stanotte. -
- Qui nella borsetta avrò al massimo diecimila lire, quindi - sospirò ancora - perché non mi inviti a casa tua? -
Carlo era rimasto immobile ad ascoltarla. Meditò per un istante e decise che a tanta chiarezza avrebbe risposto con altrettanta trasparenza.
- Non hai l'aria di essere una puttana, - affermò con sicurezza - se vuoi puoi venire a dormire da me all'albergo dove abito. La notte è piuttosto fredda ed umida e non mi va che tu te la passi su una panchina alla stazione. -
Carlo pagò il conto, poi si alzarono e furono in strada a braccetto dirigendosi a piedi verso piazza dell'Esedra.
Al portiere di notte del Hotel, egli mise in mano un biglietto da diecimila e presa la chiave della camera fece entrare la giovane messicana nell'ascensore. Quando furono arrivati, lei si tolse il cappotto e si sdraiò di traverso sul letto.
- Non me lo hai chiesto, - esclamò seria - ma io te lo dico ugualmente. Hai indovinato prima, io non faccio la puttana e sono a Roma da un anno dove ho cercato di lavorare nel cinema. All'inizio, - raccontò con quel suo strano accento esotico - mi avevano promesso diverse piccole parti in alcuni films .Ne ho fatta una soltanto, una parte da caratterista e mi hanno dato cinque milioni. Poi più niente, tutte chiacchiere. Negli ultimi due mesi ho piantato tutti e da questa mattina ho dovuto lasciare anche la cameretta che avevo affittato, per mancanza di fondi. -
Carlo pensò che in fondo anche se quella mentiva, la cosa non avrebbe avuto importanza.
Gli era sembrata una donna interessante, le aveva offerto una notte al caldo su un comodo letto e ogni altra considerazione non valeva.
Le fece vedere un letto che aveva fatto sistemare vicino al bagno per sua comodità e le disse che avrebbe potuto dormire lì.
Marta si alzò in piedi, si tolse in un attimo il vestito e si infilò sotto le coperte. Dopo cinque minuti dormiva profondamente.
Quella notte finalmente Carlo potè gustare tranquillamente un sonno ristoratore e senza sogni.
Si svegliò che erano già le dieci, fresco e riposato e subito sbirciò dalla parte del bagno. Vide che Marta non era più a letto ed udì al di là della porta il rumore dell'acqua del rubinetto che scorreva nel lavabo.
Si sedette sul letto di lei con le gambe incrociate ed aspettò che la porta del bagno si aprisse.
Era soddisfatto di sé stesso perché gli pareva di aver fatto finalmente una buona azione e poi si sentiva fisicamente bene e moralmente a posto.
Quella messicana era stata davvero uno strano incontro. Si sentiva disponibile e quasi euforico nei suoi riguardi perché era rimasto colpito dal suo modo così schietto di parlare senza sotterfugi di sorta.
Ebbe un vero sussulto quando lei uscì dal bagno. Indossava solo una corta sottoveste rosa e Carlo rimase a bocca aperta nel vedere che corpo flessuoso e perfettamente armonioso ci fosse sotto la sottana.
La sera prima non l'aveva valutata bene con quel vestitino di lana indosso.
Marta si avvicinò scalza a Carlo con passo svelto ed elegante, si chinò, gli prese ambedue le mani e le baciò sul palmo appassionatamente in un atto che era insieme gratitudine e riconoscenza. Poi alzò il volto fissandolo negli occhi.
- Non mi dimenticherò mai quello che hai fatto per me stanotte . Ero disperata e tu mi hai dato fiducia e speranza che qualcuno in questo schifo di mondo ha ancora qualche briciola di cuore. -
Sorrise ed aggiunse poi bisbigliandogli nell'orecchio, - non chiedermi oggi di fare all'amore, quando sarà il momento se ci sarà, te lo dirò io. Adesso fatti la barba e se vuoi usciamo un po’. -
Di nuovo, Carlo ebbe la sensazione di avere di fronte una donna diversa dalle solite sgualdrine da centomila lire. Si era convinto che il racconto che gli aveva fatto la notte prima poteva anche essere vero.
- Una puttana lo è sempre in qualsiasi ora della giornata, - pensò e rivolti gli occhi verso lei insinuò.
- Come hai fatto a capire che io oggi non ti avrei scaricata immediatamente? Ma sì, - continuò ridendo - ti terrò con me per un po’, se vuoi ti cerco pure un impiego .-
Marta gli si buttò addosso.
- Non illudermi ti prego ma se veramente lo puoi, trovami un posto e mi farai felice come da tanto non lo sono più stata. -
Carlo le passò una mano sui capelli ricci e dopo averle chiuse le labbra con un gesto affettuoso rise e annunciò.
- Avrai un lavoro da cassiera in un grosso ristorante di un mio amico e potrai vivere qui in albergo quanto ti pare. Non ti devi preoccupare per le spese di alloggio, ad esse provvederò io. -
- Per quanto mi riguarda, - aggiunse - tornerò a vivere a casa mia e tu sarai libera di fare quello che ti pare; ogni tanto ti telefonerò e ci vedremo. -
- Adesso, - concluse - fammi fare pipì e fammi dare una ripulita. -
Contemporaneamente Carlo si alzò e si chiuse nel bagno.
Sistemò Marta, come aveva promesso, quale cassiera nel ristorante di un suo caro amico e tornò a vivere nella sua villetta al “Villaggio Azzurro”.
Si telefonavano spesso ed una o due volte la settimana si incontravano, quando lei aveva finito il suo lavoro, per passare un paio d'ore in compagnia.
Ogni volta Marta gli raccontava della sua cittadina natale in Messico e di che differenza di vita esistesse tra loro e gli americani al di là del confine.
Da ragazza aveva tentato un paio di volte di espatriare clandestinamente, ma la polizia di confine l'aveva beccata e ricondotta indietro. Alla fine ci aveva rinunciato e si era trasferita nella capitale dove aveva iniziato a recitare in un piccolo teatro di periferia.
Dopo qualche anno la compagnia si era sciolta e lei era venuta in Europa pagandosi il viaggio con i suoi risparmi.
Era stata prima a Madrid e poi a Barcellona e quindi aveva deciso di venire a Roma sperando di sfondare nel cinema.
Carlo la ascoltava sempre interessato e contento di vederla soddisfatta per la sistemazione che le aveva procurato.
Qualche volta l'accompagnava in camera, nell'albergo che egli continuava a pagare ogni settimana.
Un giorno verso metà marzo lei lo prese sotto braccio e stringendoselo vicino mormorò.
- È arrivato il momento. Voglio fare all'amore con te. -
Marta era diversa da Vera: aveva il fuoco in corpo. Lo ubriacava e lo distruggeva fisicamente, prendeva lei ogni iniziativa e gli dava tutto di se stessa rimanendo poi senza più forze abbandonata sul letto vicino a lui.






3

La primavera stava iniziando e gli alberi delle strade della capitale avevano tutti delle foglioline fresche e verdi.
Doppio Zero aveva passato bene l'inverno ed ora era giunto il momento della verità.
Corse, vincendole entrambe, sia la Condizionata che il Felice Scheibleir e Carlo ed Ercolino vivevano ora praticamente soltanto per vederlo trionfare nel Derby.
Carlo telefonò a Marta, un paio di settimane prima del Gran Premio, da casa e lei rispose con voce allegra sentendolo dopo diverso tempo.
Raccontò ogni particolare delle gare vinte dal suo purosangue e lei esclamò.
- Tocca legno e fa gli scongiuri e vedrai che la fortuna sarà dalla tua parte. Lo sento, - aggiunse giuliva e schioccandogli un grosso bacio nel microfono del telefono - ce la farà, anzi adesso ti vengo a trovare, prendo un taxi e corro da te. -
Carlo non ebbe il tempo di replicare, sentì il telefono riattaccato e in attesa di Marta pensò di farsi un buon bagno caldo.
Si era infilato una vestaglia leggera ed un paio di zoccoli di legno ed era uscito nel piccolo giardino, davanti al villino, per osservare il trifoglio del prato che stava venendo su rigoglioso e verdissimo.
D'un tratto vide Vera al cancello di ingresso.
- Ciao, - gli gridò - come te la passi? -
- Vedo che quasi non ti ricordi più di me?, - aggiunse scuotendo la testa e facendosi volare intorno la chioma che teneva sciolta sulle spalle nude.
Carlo rimase immobile con la zappetta in mano .
La guardò affascinato. La figura snella era come sempre deliziosa. Passò qualche secondo poi Carlo disse con voce tranquilla e distaccata.
- Non ti sei fatta più vedere. Forse hai pensato che sono affetto da qualche malattia contagiosa. -
- Se ti fa piacere puoi entrare, ci facciamo un caffè, che ne dici? - sorrise.
Vera annuì ed entrò nel giardino. Gli si avvicinò mentre era rimasto fermo ed immobile. Si buttò nelle sue braccia e lo baciò sulla bocca con tenerezza, poi presolo per mano entrò in casa.
- Gianni è in America da circa un mese, - cominciò, dopo essersi sdraiata come faceva una volta sul divano, buttando all'aria le scarpine di raso azzurre.
- Ti devo dire che almeno tu stavi sempre tra i piedi, - sorrise di nuovo maliziosamente.
Lo guardò per qualche secondo negli occhi e continuò ancora seria.
- Con Gianni non va bene, penso che la mia infatuazione per lui sia ormai sul viale del tramonto. Forse, - mormorò con un grosso sospiro - lo lascio e torno a vivere da sola. -
Carlo la osservò a lungo. Fisicamente non era per nulla cambiata ma il suo modo di parlare così superficiale lo impressionò negativamente.
Si sentiva ancora attratto fisicamente da lei, ma quella passione che lo aveva stregato per tanti anni ormai era finita.
Certo le voleva ancora bene, come può essere l'affetto verso una persona che ti è stata vicina per anni e che poi era cambiata nei sentimenti più profondi, quelli che in ultimo contano.
In quel momento giunse Marta a bordo di un taxi. Si precipitò dentro e vista Vera sdraiata sul divano con le gambe sul bracciolo, la gonna sollevata fin sulle cosce, ebbe un tuffo al cuore e rivolta a Carlo esclamò con voce addolorata e scandendo bene le parole.
- Vedo che non hai bisogno di me, sei già in ottima compagnia. -
Così detto fece dietro front, senza ascoltare la replica che l'uomo aveva tentato di farle ed a passo svelto uscì sulla strada allontanandosi senza nemmeno voltarsi indietro.
Il taxi era fermo venti metri più in là perché il conducente si era messo a leggere un giornale sportivo. Marta si infilò nella vettura ed in un lampo era già lontana.






4

Quattro giorni dopo Carlo ricevette, di primo mattino, una telefonata da Luca Segni che lo invitava ad andare da lui immediatamente.
Percorse l'Appia in direzione dell'aeroporto di Ciampino, quindi svoltò sulla sinistra prendendo la strada verso il lago di Castel Gandolfo.
In quel momento un grosso aereo a reazione gli passò quasi sulla testa in decollo e gli diede una sgradevole sensazione di terremoto improvviso.
Era già molto ansioso per la chiamata perentoria che Luca Segni gli aveva fatto e quell'aereo l'aveva reso ancora più nervoso.
Una volta Paolone gli aveva raccontato che Luca difficilmente chiamava gli uomini dell'Organizzazione, a meno che non si trattasse di qualche fatto particolarmente grave ed importante.
Prima di arrivare a Marino un gatto nero gli attraversò la strada. Per quanto non fosse superstizioso, Carlo si sentì invadere da un oscuro presentimento e pensò che la giornata già grigia di per se non prometteva niente di buono.
Si fermò davanti ad un grande cancello in ferro battuto e uscito dalla BMW notò una telecamera, piazzata sulla colonna di destra, che lo inquadrava.
Suonò il campanello in basso sulla sinistra ed un uomo, con un paio di baffi rossicci ed un berretto grigio a larga visiera, apparve in un attimo al di là del cancello in compagnia di due pastori tedeschi senza museruola.
Lo fece entrare senza chiedergli nulla e lo accompagnò lungo il vialetto alberato fino all'ingresso della villa, nascosta da due enormi e secolari querce. Luca lo ricevette nel suo studio al piano terra.
Contrariamente a quanto Carlo si potesse aspettare, era uno studio per nulla lussuoso ma con un enorme scaffale, dove si vedevano allineati decine di volumi che non avevano assolutamente l'aspetto di romanzi ma sembravano piuttosto una lunga sfilza di libri contabili.
La scrivania era piccola e vecchia, di castagno di mediocre qualità e due sedie, piuttosto scomode, erano sistemate davanti ad essa.
Luca gli fece un cenno con la mano e lo fece sedere sulla cassapanca che si trovava a fianco della scrivania. Gli si mise vicino e senza guardarlo negli occhi cominciò dicendogli.
- Lei sa quanto deve all'Organizzazione. Penso che si ricorda bene quando non era nessuno. Ora mi sembra che di soldi ne ha fatti, per nostro merito, a palate. -
- Ci deve qualcosa, - aggiunse modificando il timbro della voce ed in tono perentorio - e questo è il momento giusto. -
Carlo cominciò a sudare anche se la giornata non fosse proprio eccessivamente calda. Mille pensieri gli attraversarono la mente ed un profondo senso di disagio cominciò ad impastargli il cervello.
Luca lo squadrò continuando.
- Sappiamo che il suo cavallo correrà fra dieci giorni il Derby di galoppo. Lei ha la fortuna di avere un campione ed è probabile, - esclamò con grande sicurezza - che vinca dominando, tanto mi danno i miei informatori.-
- Doppio Zero invece, - soppesò le parole mentre si accendeva lentamente una lunga Pall Mall - dovrà perdere!... Ci sono grosse scommesse sulla sua vittoria, lei incasserà per questo favore quattrocento milioni. -
Carlo sentì affluire un fiotto di sangue bollente in testa. Aveva completamente perso il suo abituale autocontrollo e la sua freddezza.
Si rivolse verso Luca, mentre una marea di pensieri gli stava offuscando qualsiasi logico ragionamento. Alla fine balbettò.
- Capisco le vostre esigenze ma una richiesta simile non me la sarei mai aspettata. Per me, - continuò - la vittoria eventuale del mio puledro sarebbe l'unica cosa importante della mia vita. -
Mentre stava dicendo, nel panico più completo, tali parole dal significato ovviamente idiota, sentì un impulso irrefrenabile di spaccare la faccia a Luca. Fu un attimo..., poi aggiunse.
- Sono disposto io a dare io la stessa cifra all'Organizzazione purché riveda questa decisione. Vi prego di vedere se mi potete accontentare. -
Luca si alzò in piedi, gli si piantò davanti a non più di venti centimetri ed appoggiategli le mani sulle spalle, concluse quasi voluttuosamente scandendo le parole.
- Amico bello da oggi stia lontano dagli ippodromi. I suoi incarichi saranno svolti da Marco. Si prenda un periodo di vacanza e trasmetta la nostra volontà a chi di dovere. Dopo il Derby sarà di nuovo al suo posto con una percentuale maggiorata. Si ricordi che questo è un ordine; il colloquio è finito, ho già perso troppo tempo con lei. -
Suonò un campanello sistemato sulla piccola scrivania e in due secondi comparve l'uomo che gli aveva aperto il cancello, sempre in compagnia dei due cani.
Carlo si alzò a sua volta, barcollando e senza dire altro uscì dalla villa.
Quando risalì sulla BMW era in preda ad una angoscia martellante. Riuscì a malapena a mettere in moto la vettura e dopo dieci minuti si ritrovò alle Capanelle davanti al box di Doppio Zero.
Conti appena lo vide spuntare quasi di corsa gli fece, ridendo.
- Siamo venuti a controllare eeh...! Stia tranquillo, lo ho appena provato sui duemila metri ed ho dovuto frenarlo tanto è in forma. -
Carlo non rispose, entrò nel box ed allungò una menta al suo purosangue. Lo guardò a lungo, così bello e possente e gli occhi gli si inumidirono.
Si rivolse verso Ercolino prendendolo sotto braccio e mormorò con voce piuttosto spenta, - questa sera ci vediamo al solito posto a cena perché le devo parlare. -
Ercolino lo fissò, rimanendo perplesso nel vederlo così depresso e pensò che doveva essersi alzato col piede sinistro.
Certo che questo Carlo é veramente uno strano tipo, meditò l'allenatore. Sei mesi prima sprizzava gioia da tutti i pori, ora che il grande momento è giunto, sembra un cane bastonato.
Carlo guardò l'orologio, era mezzogiorno preciso.
Il traffico verso il centro era divenuto caotico come al solito. Incollato al volante, con un crampo allo stomaco che lo faceva quasi vomitare, cercò di riordinare le proprie idee.
Si stava dirigendo verso Monte Sacro, perché il primo impulso era stato quello di correre da Paolone che sapeva a quell'ora nell'autosalone dove era il suo quartiere generale.
Non riusciva assolutamente a ragionare freddamente.
- Quella faccia di culo di Luca mi ha incastrato! - continuava a ripetersi come se fosse un leit motiv ossessivo e sincopato.
- Che posso fare e che mi potrà consigliare Paolone? - pensò subito dopo, mentre il crampo allo stomaco stava diventando insopportabile.
La testa gli girava e per puro miracolo riuscì ad arrivare sotto il viadotto che collega Viale Libia con piazza Capri dove trovò un posto abbastanza isolato. Aprì lo sportello della BMW e potè finalmente vomitare una schiuma gialla verdastra amarissima che capì essere bile.
Quando ritornò sulla strada principale si sentì leggermente meglio e proseguì per via Conca D'Oro.
Entrò nell'ufficio di Paolone che quello, appena lo vide, proruppe in una bestemmia per lui non abituale e gli gridò avvicinandosi premurosamente.
- Ma che cavolo ti è successo Carlo? Hai una faccia distrutta. -
Paolone aveva capito immediatamente che non poteva trattarsi di cosa da poco.
- Sembra che stai per schiattare, - aggiunse preoccupato - quasi quasi ti chiamo un medico. -
Carlo si lasciò cadere su una poltrona, il colore del suo viso era grigiastro.
- Ma che medico della malora, - rispose tutto d'un fiato. - quelli, - continuò ansimando - mi hanno tirato un colpo magistrale. Devo far perdere il Derby a Doppio Zero. Questi sono gli ordini dei tuoi cari amici. -
Dopo che ebbe raccontato per filo e per segno tutti i particolari del suo incontro della mattinata con Luca, Paolone si lasciò andare ad un'altra serie di bestemmie e con il dito indice puntato verso Carlo urlò.
- Stai attento quella gente non scherza, non hai nessuna possibilità di cavartela. -






5

Il clima nella trattoria di Trastevere, dove abitualmente si vedeva con il suo allenatore e dove gli aveva dato appuntamento, quella sera era particolarmente festoso.
Gruppi di stranieri sopratutto americani e giapponesi ridevano e vociavano allegramente.
Quando Carlo arrivò, Ercolino lo stava già aspettando seduto all'unico tavolo che era rimasto libero nell'angolo a destra dell'ingresso.
- Si sarà accorto, - disse una volta sedutosi - che questa mattina ero di cattivo umore. -
Ercolino sorrise appena, non fiatò e rimase in silenzio attendendosi dell'altro.
Dopo essersi versato mezzo bicchiere di vino, Carlo proseguì con voce triste.
- Il fatto è che non potrò assistere al Gran Premio, perché dovrò essere a Milano per un incontro essenziale per il mio lavoro. Lei tuttavia farà di tutto perché Doppio Zero vinca il Derby. -
Lo fissò attentamente in viso e con grande determinazione proruppe.
- Voglio che in questi ultimi giorni nessuno avvicini il cavallo e lei dovrà dormire nella selleria... -
Tirò fuori dalla tasca interna della giacca un assegno che porse al suo fantino allenatore. Questi guardò la cifra. Si trattava di trenta milioni che Carlo aveva deciso di dargli extra.
Ercolino rimase stupito non tanto per quel grosso regalo, quanto per la richiesta di dormire in quei giorni nella selleria vicino al box.
Non fece domande , intascò l'assegno e promise che tutto sarebbe stato fatto come lui desiderava.
Era stata una decisione sofferta quella che Carlo aveva preso nel pomeriggio quando, rimessosi dallo choc, aveva riflettuto sdraiato sul letto di casa sul da farsi.
Sapeva perfettamente a quali rischi sarebbe andato incontro se avesse vinto la corsa, ma per nulla al mondo avrebbe mai rinunciato a questa grande soddisfazione.
- Mi spediscano pure all'altro mondo, - aveva pensato ricordando come in un filmato tutta la sua vita - non rinuncerò mai a questa possibilità, a questa realtà che è forse l'unica cosa assolutamente positiva che sono riuscito ad avere da quando sono nato. -
Presa la decisione, si era sentito incredibilmente tranquillo, rilassato, orgoglioso di avere avuto la forza ed il coraggio di sfidare l'Organizzazione e felice di non aver tradito il suo purosangue.






6

Carlo aveva cercato in quei giorni di rintracciare telefonicamente Marta.
Sia al ristorante che all'albergo gli avevano detto di non averla vista, anzi l'amico proprietario del ristorante gli aveva risposto che la sua “messicana” si era presa una settimana di ferie.
Il primo maggio fu una giornata piovosa, con gran dispetto di tutta quella gente che aveva pensato di trascorrere la ricorrenza festiva sui prati intorno alla Capitale in allegre scampagnate, ma i giorni seguenti, quelli che precedettero il Derby, furono spendidi.
Un sole caldo in un cielo terso ed azzurro e l'aria tiepida, profumata davano la sensazione che la vita rinascesse prorompente.
Carlo pensò al terreno delle Capanelle ideale per il suo cavallo: l'aveva visto per l'ultima volta due giorni prima.
Ercolino aveva categoricamente affermato, “questo vola e le previsioni dei tecnici lo danno grande favorito.”
Carlo si era avvicinato a Doppio Zero e quello aveva strofinato il muso sulla sua giacca in attesa della solita caramella.. Lo aveva guardato bene: era stupendo, tirato al punto giusto.
Gli era parsa la più bella bestia che avesse mai visto e quando si era ritrovato per un momento solo con lui, aveva messo la bocca a qualche centimetro dal suo orecchio bisbigliando.
- Tu sei la mia creazione, l'unico essere vivente che veramente conta e che io ami. Non ti avrei mai tradito nemmeno a costo della mia vita. Dopodomani vai e vinci per te e per me, quello che succederà poi non ha importanza. -
Ercolino era tornato subito dopo.
- Faccia di tutto per venirlo a vedere correre il suo “Gran Premio”, - aveva esclamato salutandolo, ma non insistette perché aveva capito che la scusa di Carlo, per non essere all'ippodromo due giorni dopo, era stata una pietosa bugia.
Carlo lo aveva abbracciato, si era raccomandato ancora di non lasciarlo nemmeno per un attimo ed augurandogli con voce rotta dall'emozione un “in bocca al lupo”, si era girato sui tacchi allontanandosi a passi svelti verso l'uscita.
Una folla enorme era convenuta alle Capanelle per il Derby.
Un leggero venticello quasi a tipo di brezza scendeva dalla zona dei laghi dando all'aria, già calda del maggio,un profumo di pini e di prati fioriti.
In fondo, qualche bianca nuvola veleggiava tranquilla nel cielo terso ed azzurro verso il mare.
Una grande eccitazione serpeggiava tra la gente. La stampa aveva presentato con grande evidenza il Gran Premio come corsa di grandi campioni che si sarebbero battuti allo spasimo per la vittoria e su tutti, gli esperti davano come gran favorito Doppio Zero le cui quotazioni ai picchetti erano, a mezz'ora dal via, alla pari.
Carlo aveva trascorso ancora una maledetta notte insonne. Aveva contato tutti i verdi minuti della radiosveglia sistemata sul comodino vicino al letto.
Verso le tre e mezzo si era alzato non potendo più resistere alla tensione nervosa.
- Forse sto facendo un enorme errore di valutazione, - aveva pensato mentre seduto in poltrona ascoltava il silenzio della notte non interrotto da alcun rumore.
- Forse avrei dovuto dirlo ad Ercolino di frenare negli ultimi duecento metri. Quelli mi ammazzeranno; lo sanno tutti che per i soldi venderebbero al diavolo pure l'anima della madre. -
- Non la passerò liscia, - aveva continuato a ripetersi con monotona ossessività, alternata da momenti di abbandono psicofisico completo.
Intanto la bottiglia di Carlos Primero sul tavolino, sturata alle tre e mezzo, era diventata la metà. Il forte gusto del brandy spagnolo lo aveva lentamente rincuorato ed infine un altro pensiero si era fatto strada nel suo cervello.
- Tra qualche ora prenoto un aereo e me la squaglio per un anno. Mi porto dietro Marta e mi faccio il giro del mondo alla faccia loro! -
All'alba era diventato euforico.
Aveva preso il telefono e chiamato Marta. Lei gli aveva risposto.
- Va bene farò quello che mi stai dicendo di fare, - aveva detto alla fine quando Carlo le ebbe raccontato tutto quanto le aveva tenuto nascosto fino a quel momento.
Non c'era stato bisogno di spiegarle il perché lo aveva sorpreso con Vera in casa quel giorno. Marta non gli aveva chiesto nessuna spiegazione al riguardo. Le era bastato che lui avesse iniziato al telefono dicendole, - scusami amore per l'ora, devi sapere che ti amo tanto - per perdonarlo.
Più tardi aveva fatto una seconda telefonata a Paolone.
- Caro amico dopo che Doppio Zero avrà vinto il Derby io partirò per New York questa notte stessa. Rimarrò lì almeno una settimana. Questo è il nome del mio albergo a Manhattan. Mi farà piacere sentirti e così mi potrai raccontare come incasseranno il bidone.
Aveva atteso per qualche istante che Paolone si fosse ripreso dalla sorpresa, poi aveva concluso con voce ferma.
- Di te mi fido, ci rivedremo..., non so quando, ma ci rivedremo. -
Marta era stata da lui verso mezzogiorno. Avevano stabilito il piano di fuga nei dettagli ed erano rimasti d'accordo che dopo la corsa lei lo avrebbe atteso al suo albergo. Sarebbe stato imprudente che fosse tornato a casa dove l'Organizzazione lo avrebbe potuto raggiungere facilmente.
Carlo aveva accompagnato Marta fin sotto l'albergo, non era sceso nemmeno dal taxi che aveva preso e si era fatto portare fino ad un chilometro dall'ippodromo.
- Tenga queste sono trecentomila lire, - aveva detto all'autista - altre trecentomila le avrà alla fine del Derby perché lei oggi deve rimanere a mia disposizione. Mi attenda qui e non si muova! -
Il tassista non aveva creduto ai propri occhi con quei bigliettoni in mano.
- Stia tranquillo signore, lo aspetterò fino a mezzanotte! Non mi muoverò per nessun motivo. Morisse anche mia suocera, sarò esattamente in questo posto! -
Carlo guardò l'ora: erano le quindici e trenta. Lentamente percorse il tratto fino all'ingresso dell'ippodromo. Comprò il biglietto ed entrò dalla parte del prato mischiandosi tra la folla anonima.
Era stato molto guardingo nel mimetizzarsi tra la gente; d'altronde non avrebbe mai potuto rinunciare a vedere correre il suo puledro. Si mise in mezzo ad un gruppo di famigliole, che è così tipico a Roma vedere una volta all'anno alle corse dei cavalli tanto per passare un pomeriggio diverso dal solito.
I cavalli erano già entrati in pista e stavano assaggiando il terreno. Doppio Zero era lì, a qualche decina di metri da lui, elegante e fiero come lo può essere solo un grande campione.
Carlo riuscì ad osservare il suo manto baio asciutto senza una goccia di sudore e vide Ercolino che lo montava tranquillo e sicuro, vestito con i suoi colori “rosso e nero a scacchi esagonali”.
La folla era tutto un vociare festoso e grida di incitamento giungevano dalle tribune al grande favorito.
Quando i cavalli furono nelle gabbie, un silenzio profondo scese sull'ippodromo.
Al via il gruppo schizzò in avanti simile ad una bordata sparata da un veliero antico.
Dopo cinquecento metri Carlo vide distintamente Doppio Zero in quarta posizione allo steccato.
Il gruppo si era spezzato in due tronconi ai mille e cinquecento metri e Doppio Zero aveva mantenuto la sua quarta posizione con estrema disinvoltura.
A quattrocento metri dal traguardo, sembrò che il cavallo innestasse una quinta marcia ed ai duecento era già appaiato con il grigio dell'Olgiata.
Le grida della folla eccitata parvero che spingessero il puledro al traguardo facendolo volare.
Ai cinquanta metri era in testa di due incollature e quando superò il traguardo vittorioso, il suo vantaggio era diventato enorme.
Un urlo corale aveva accompagnato gli ultimi metri del purosangue di Carlo. La gente era tutta per lui ed alla sua vittoria si sentirono da ogni parte esclamazioni di ammirazione ed applausi fendere l'aria tra la folla esultante.
Un brivido intenso percorse la schiena di Carlo: era stato come un godimento voluttuoso e profondo, quasi sensuale vederlo correre e vincere.
Si sentì come un eroe. Egli l'ex giocatore dei video-poker aveva assaporato la più grande soddisfazione che mai avrebbe potuto immaginare solo pochi anni prima. Doppio Zero era attorniato da tutti gli uomini della scuderia e da tanti altri entusiasti.
Mancava solo lui che in quel momento di trionfo non poteva essergli vicino.
Lo vide sparire tra la folla e dopo essersi alzato un momento sulle punte dei piedi per dargli un'ultima occhiata, si incamminò svelto e deciso verso l'uscita dell'ippodromo.






7

Era giunto a non più di venti metri oltre l'uscita che due individui, due giganti sbucati dal nulla, gli si accostarono e presolo sotto braccio con una tremenda morsa lo trascinarono senza parlare verso l'Appia dove, con il motore acceso, stava attendendo un'Alfetta.
L'auto schizzò via con una forte sgommata dirigendosi a tutta velocità verso il raccordo anulare. Carlo era schiacciato sul sedile posteriore dai due gorilla. Non fiatava nessuno, si sentiva solo il rumore del motore sballare a fuori giri.
D'un tratto l'Alfetta curvò improvvisamente verso destra imboccando uno svincolo che portava in aperta campagna.
Dopo nemmeno un paio di chilometri, percorsi su una stradina dissestata, una violenta frenata avvisò Carlo che erano arrivati a destinazione.
Gli sportelli posteriori si spalancarono ed un tremendo strattone lo fece schizzare fuori dall'abitacolo con un volo di almeno cinque metri.
Carlo cadde bocconi; non ebbe nemmeno il tempo di sollevarsi dal mucchio di paglia dove l'avevano precipitato, che quello biondo gli sferrò un pugno in piena bocca seguito immediatamente da un altro diretto allo stomaco.
A quel punto il biondo lo prese per la schiena incravattandogli il collo con le sue erculee braccia, mentre l'altro, un bestione di almeno un quintale, cominciò a lavorarlo con una spranga di ferro, metodicamente, colpendolo con violenza al torace ed in ogni altra parte del corpo.
Un fiotto di sangue cominciò ad uscirgli dalla bocca e dal naso, il respiro divenne affannoso, la testa stava letteralmente scoppiandogli, quando un ultimo brutale colpo lo raggiunse ai testicoli.
Fu allora che Carlo cadde semisvenuto non appena il biondo allentò la presa, urlandogli all'orecchio da dove usciva un altro rivolo di sangue.
- Figlio di puttana, questo è un acconto che ti manda Luca con tanti auguri per la vittoria di Doppio Zero. -
Un attimo dopo sempre sgommando l'Alfetta era già lontana, mentre Carlo giaceva come morto vicino ad un pozzo di un piccolo casolare in piena campagna.
Era già notte fonda quando, con un brivido squassante, riprese lentamente i sensi.
La testa gli girava ed ad un primo tentativo di rialzarsi ricadde per terra. Rimase supino ancora per più di mezz'ora mentre attraverso le palpebre tumefatte vedeva il cielo scuro zeppo di stelle luccicanti.
Meravigliosamente si rese conto di non essere morto. Raccolse tutte le residue miserabili forze che gli erano rimaste e con un ultimo estremo sforzo di volontà riuscì a mettersi sulle gambe vacillanti.
Si trascinò come un animale ferito fino al raccordo anulare,che aveva riconosciuto per i fari delle macchine che lo percorrevano ed impiegò più di un'ora per fare quel breve tragitto e raggiungere l'importante arteria che circonda la Capitale.
Quando fu sul ciglio della strada, cadde per terra sfinito mentre sopraggiungeva un camioncino che vistolo di traverso sulla strada si fermò bruscamente. Scesero due giovani che bestemmiando gli si accostarono spaventati.
- Ma guarda, - disse uno dei due - questo stronzo che si vuole suicidare!-
Ed avvicinandosi a Carlo, l'altro esclamò rivolto al primo, - per Dio questo è maciullato! -
Carlo aprì a fatica gli occhi ed a malapena riuscì a mormorare.
- Portatemi per piacere ad un chilometro dalle Capannelle sull'Appia in direzione di Roma. -
I due, dopo avere confabulato se portarlo direttamente all'Ospedale oppure accontentarlo, lo raccolsero sistemandolo sul sedile anteriore e dopo pochi minuti si trovarono nel punto che egli aveva indicato.
Prima di scendere Carlo, sperando, guardò attraverso il finestrino: lì fermo ad aspettare c'era il taxi che nel primo pomeriggio l'aveva accompagnato all'ippodromo.
Diede un biglietto da centomila lire ai due e li salutò ringraziandoli.
Raggiunse il taxi zoppicando e continuando a respirare a fatica, mentre l'autista dello stesso vedendolo gli andò incontro sorpreso ed esclamò.
- Che diavolo le è successo signore! Chi lo ha conciato in questa maniera?-
Carlo non rispose subito ma dopo qualche istante chiese a quello che non riusciva a riprendersi per la sorpresa.
- Che ore sono? Dovrebbero essere almeno le ventidue. -
- Non so come posso ringraziarla per avermi atteso fino a quest'ora, - sospirò commosso, buttandosi sul sedile posteriore.
L'autista, un vero romano trasteverino, a quel punto esplose orgogliosamente.
- L'avevo detto, l'avrei aspettato fino a mezzanotte..., e noi romani veraci abbiamo una sola parola. -
Con il cuore gonfio di spavento e di ansia, ma felice nel vederlo vivo, Marta lo accolse in albergo. Quando lo ebbe davanti non ebbe il coraggio di dirgli quanto fosse stata preoccupata ed agitata.
- Povero amore mio, allora è vero che non hanno riguardo per nessuno questi assassini! -
Egli si era lasciato andare stremato senza un filo di forza sulla poltroncina al lato del letto. Era una maschera di sangue e le labbra tumefatte bisbigliarono con voce flebile.
- Marta mia, scusami per il dolore che ti ho procurato ma non avrei potuto fuggire con te senza vederlo vincere! È stato bellissimo il suo trionfo e quello che poi è successo..., sì lo so..., dovevo aspettarmelo. -
- Sarebbe stato troppo bello, - aggiunse ancora con un filo di voce - fuggire alla loro vendetta senza nessun danno ma era impossibile, l'ippodromo è il loro regno! -
Marta gli si avvicinò premurosa con un asciugamano bagnato in mano. Sembrava una tigre ferita cui avessero ucciso un cucciolo.
- Non ti preoccupare, sono stata qui buona e ferma senza muovermi. Ma adesso, - sospirò trattenendo a stento le lacrime e cercando di controllare l'impulso che sentiva venirle da dentro di urlare, - devi immediatamente ricoverarti. Potresti avere qualche lesione interna ed io ti voglio vivo. -
Lui con un grande sforzo si sollevò e le impose di prepararsi perché era necessario partire subito.
Marta capì e riacquistò allora un po’ di calma facendo quello che Carlo le aveva ordinato, non discutendo più e sperando che non gli morisse davanti.
Pur avendo preparato ogni particolare della loro fuga, questa fu ancora più drammatica di quanto lei avesse immaginato.
All'aeroporto fecero un sacco di domande a Carlo, vedendolo in quelle condizioni.
Egli inventò, balbettando, un incidente fortuito e riuscì a convincerli che impegni di lavoro urgentissimi gli impedivano di ricoverarsi a Roma. Lo avrebbe fatto una volta giunto a New York dichiarandosi disposto ad assumersi ogni responsabilità per eventuali malori in volo.
Firmò un documento ufficiale per il comandante dell'aereo nel quale scrisse: “Io Carlo Micoli dichiaro di partire di mia volontà pur essendo stato sconsigliato dai responsabili della compagnia aerea”.
Finalmente, dopo un severo controllo dei bagagli, li fecero imbarcare.
Il volo partì con più di un'ora di ritardo “per motivi tecnici” mentre il cuore di Marta stava impazzendo per la tensione nervosa che le si era accumulata dentro.
Quando l'aereo si alzò da Fiumicino, Marta guardò Roma con odio.

















CAPITOLO SETTIMO






1

Non appena furono nella metropoli americana, Carlo si ricoverò in una clinica privata a Long Island.
Non gli riscontrarono nessuna lesione interna, tuttavia continuava a soffrire terribilmente per le fratture costali e per le condizioni in cui si trovava l'orecchio destro che presentava una importante lesione timpanica. Gli ematomi palpebrali erano ancora enormi ma la funzione visiva era salva.
Fu sottoposto anche a TAC cerebrale con esito negativo e i medici dissero a Marta.
- Cara signora suo marito è un uomo fortunato. È piuttosto raro che con un trauma simile non ci siano emorragie cerebrali. -
C'era anche un versamento ematico allo scroto ma l'assicurarono che in breve avrebbe potuto riprendere le sue funzioni sessuali.
Dopo cinque giorni di controlli, Carlo e Marta si trasferirono all'albergo che avevano prenotato sulla Quinta Strada e fu qui che Carlo subì un violentissimo trauma psichico.
Dopo qualche ora ricevette da Roma una telefonata di Paolone che gli raccontò come Luca Segni e compagni avessero spezzato le gambe a Doppio Zero. Ercolino lo aveva abbattuto piangendo ed aveva giurato che mai più avrebbe corso un Derby.
In quel momento drammatico, mentre l'uomo pareva invaso da una follia furiosa, Marta gli fu vicina, premurosa e piena di dolcezza.
Egli non faceva che gridare e imprecare e tra le frasi sconnesse che gli uscivano di bocca, solo una si ripeteva mille volte ossessiva.
- Maledetti, potevano uccidere me..., ma il puledro non lo dovevano toccare, non aveva fatto nulla di male! -
Carlo urlava tutto il suo dolore senza lacrime e camminando su e giù per la stanza buttava all'aria ogni cosa che gli capitasse sotto mano.
Marta tentava di accarezzarlo e di consolarlo ma egli non voleva né le sue carezze né i suoi baci.
Questo stato quasi demenziale durò diversi giorni.
Aveva completamento perduto la testa sentendosi finito senza il suo Doppio Zero ed ormai viveva le giornate con qull' incubo fisso nel cervello. La vendetta era stata la più atroce ed ora non c'era più nulla da fare.
Fu Marta che, qualche giorno dopo, lo convinse di partire da New York per Los Vegas.
Aveva pensato che in quel momento gli sarebbe servita una forte distrazione e, forse nel Nevada, Carlo avrebbe potuto riacquistare almeno in parte la propria serenità.






2

Al tavolo dello Chemin de Fer i bianchi gettoni da mille dollari scorrevano a fiumi. La potente lampada al neon illuminava il tappeto di panno rosso sul quale volavano svelte le carte che un croupier alto e biondo smistava con precisione millimetrica.
Sei grossi omoni vestiti alla texana, probabilmente amici in vacanza, gridavano e ridevano ad ogni mano sia che vincessero o che perdessero. Intorno, un pubblico piuttosto silenzioso puntava gettoni variopinti dai venti ai cento dollari scrutando con ansia le carte e facendo evidenti segni di scongiuro.
L'aria condizionata era a giusta umidità ed alcune graziose ragazze in succinti vestiti osservavano curiose da che parte girasse la fortuna e il denaro.
Marta seduta vicina a Carlo guardava stupita le puntate dell'uomo che da quattro ore, seduto a quel tavolo, col volto impassibile e lo sguardo vuoto e fisso stava esaurendo gli ultimi centomila dollari che aveva cambiato alla cassa del casinò verso le otto di sera.
Aveva incassato a New York il milione e passa dollari che era stato depositato in una banca di Manhattan due anni prima da Luigi, anzi si trattava di un milione e ottocentomila dollari per gli interessi che si erano maturati nel frattempo.
Erano giunti a Las Vegas da due settimane, prendendo un aereo a New York e viaggiando in prima classe nel salottino riservato a prua del Jumbo.
Uomini d'affari, elegantissime signore ed alcuni professionisti erano seduti vicino a loro. Il viaggio era stato stupendo con condizioni atmosferiche perfette e con un servizio a bordo impeccabile.
Un pastore negro, seduto di fronte a Marta, aveva parlato in un italiano abbastanza corretto con la donna, raccontandole della propria comunità a San Francisco e di come ci fosse tanta solidarietà tra i suoi fedeli. Marta si era interessata con il suo solito slancio istintivo entusiastico a quei discorsi mentre Carlo, che stava provando un astio sempre più irrazionale verso chiunque parlasse di bontà da quando la morte del suo puledro gli aveva anestetizzato ogni sentimento, aveva pensato quanto fosse idiota il conversare durante i viaggi dal momento che tutto era sempre più o meno ovvio e quanto fosse inutilmente stupido il parlare tra estranei.
Nella sua testa si era insinuata solo un'idea fissa che riusciva ad annullare ogni altro pensiero.
Egli, l'autista di autobus, il miliardario arrivato, non aveva più nulla per cui valesse la pena di combattere. Avevano ucciso il suo purosangue, l'Organizzazione l'aveva bollato come infame.
Marta forse era con lui per pietà, Vera era solo un ricordo, Luisa viveva con un altro uomo ed era probabilmente felice.
C'erano ancora i suoi ragazzi ma anche loro avevano preso il volo definitivamente. Debora si era fidanzata ufficialmente con un importante chirurgo e Simone, che non aveva voluto studiare più, era proprietario di un grosso bar tabaccheria.
Di tutto quel denaro che stava viaggiando con lui non gliene importava assolutamente niente perché di nuovo la tristezza era diventata, come tanti anni prima, la sua compagna inseparabile e fissa.
Il sorridere gli era diventato un atto stereotipato inutile, uno sforzo sovrumano e le notti stavano ripetendosi insonni e con incubi nuovi.
Una valanga di domande continuava a nascergli ogni giorno con lo spuntare del sole per morire senza risposta, al tramonto.
- Cosa farò ora, come riempirò il mio tempo così inutilmente vuoto? È questo ciò che la vita mi ha riservato: fuggire sfuggire anche a me stesso, quasi Io sia il mostro divoratore di ogni cosa che mi circonda, la bestia immonda che contamina anche se stessa? -
Poi il pensiero era corso a Marta, dolce creatura appassionata ed un altra domanda era rimasta vuota di risposte.
- Sarò capace di salvare almeno lei da questa rovina? Forse non potrò farlo e lei come potrà più amarmi se solo capisse che fallimento di uomo ha vicino? -
Gli sembrava che la mente fosse distrutta da un tarlo gigantesco quando guardando dall'oblò alla sua sinistra, aveva visto improvvisamente migliaia di luci sotto di lui.
Era Las Vegas. Cinque minuti dopo erano atterrati.
Da quando si erano sistemati nel Hotel, Carlo si era messo a giocare a tutti i tavoli del casinò a tutti i giochi possibili.
Dadi, roulette, baccarà e black jack avevano conosciuto l'italiano più sfortunato degli ultimi anni.
Non c'era stata una serata in attivo e mediamente nei primi dieci giorni aveva perduto più di mezzo milione di dollari.
Tre giorni prima Marta aveva cercato in ogni modo di fermarlo in quella sua pazza corsa alla rovina. Gli aveva parlato a lungo, nell'appartamentino che avevano occupato, ricordandogli quanto di bello potevano ancora fare insieme.
Era ricorsa anche alla seduzione. Si era vestita semplicemente ma in modo provocante come a Carlo piaceva tanto, non si era truccata per nulla ed aveva stretto Carlo in una morsa affettiva sincera e dolce cui l'uomo mai aveva resistito.
Carlo non l'aveva né ascoltata né vista; il suo cervello era diventato piatto e assolutamente apatico.
Si sentiva attratto dal rischio dell'autodistruzione e ne godeva profondamente. L'istinto di conservazione non esisteva più, solo una monotona idea fissa, una ossessiva nota proveniente dal subcosciente gli arrivava ai centri nervosi e lo scuoteva spingendolo ad arrivare in qualche modo ad una conclusione qualsiasi.
Il gioco era solo un mezzo di accelerazione, il più rapido possibile per dare una risposta definitiva a ciò che aveva capito essere il sugo scondito di una vita maledettamente disgraziata.






3

L'alba stava dipingendo di bianco pallido le strade e gli alberghi di Las Vegas.
Le luci al neon ancora completamente accese davano alla città un livore grigiastro. Tutto pareva plumbeo e l'aria stessa immobile odorava di morte.
Nella camera da letto dell'appartamentino dell'albergo dove si era sdraiato da poco più di mezz'ora, accanto a Marta che dormiva, Carlo fissava la larga finestra ed il cielo ancora semibuio.
Aveva giocato e perduto per tutta la notte ma il suo cervello era fresco e lucido e non aspettava altro che passassero alcune ore per ricominciare da capo. Non aveva sonno pur sentendosi a pezzi fisicamente.
I muscoli del collo e della schiena gli dolevano ed aveva l'impressione che le gambe fossero spezzate in più punti. Aveva lo stomaco gonfio come se avesse mangiato una enorme quantità di bistecche ed uova ed alla sensazione che fosse in procinto di vomitare si univa quella di una bocca amarissima e di una lingua gonfia ed asciutta.
Provò a chiudere gli occhi ma davanti a sé, come in un filmato, vedeva volare carte e gettoni come se un vulcano sputasse faville e scintille multicolori.
Marta respirava leggera. Stava sul fianco, la schiena rivolta verso di lui.
Lo aveva lasciato giù nella grande sala verso mezzanotte, lo aveva guardato negli occhi per qualche istante con una espressione di stanchezza e tristezza e l'aveva baciato leggermente sulla guancia senza proferire parola.
Carlo allungò la mano sinistra sul letto e toccò leggermente i capelli ricciuti della donna. Pensò che quelli erano gli unici fili che lo tenevano ancora legato alla vita.
Stava vivendo in un mondo fantastico irreale.
Tutto in quella città era stato creato per far vivere alla gente delle giornate fuori della normalità e fuori dal mondo. Egli vi si era tuffato quasi ciò fosse l'unico e l'ultimo scopo della sua esistenza e capiva che nulla l'avrebbe ormai potuto fermare in quella corsa pazza al rischio che aveva il ghigno della morte e della distruzione.
Si alzò appoggiando le mani al bordo del letto perché i dolori al collo erano diventati insopportabili.
Prese un'aspirina che teneva sulla mensola del bagno e si guardò allo specchio sopra il lavabo. Quasi non si riconobbe. Il naso affilato, gli occhi infossati ed un colore grigio giallastro del viso lo facevano sembrare un cadavere vivente.
Non fece a tempo a riflettere nemmeno un poco su come si era ridotto, che il telefono squillò vicino al letto ripetutamente.
Si avvicinò barcollando all'apparecchio e staccò il ricevitore.
- Sei tu Carlo, - disse una voce femminile - finalmente ti ho rintracciato. -
L'uomo sentì le gambe vacillare e contemporaneamente le arterie del cervello esplodere.
- Devo parlarti assolutamente, - aggiunse quella dopo un attimo di silenzio.
La voce della donna esprimeva preoccupazione ed ansia.
- Tuo figlio è molto grave per un incidente stradale. Vieni al più presto possibile se lo ritieni opportuno. -
Carlo non ebbe il tempo di fare nessuna domanda alla moglie che quella riattaccò.
Sentì il tac della cornetta del telefono agganciarsi.
Guardò Marta che si era svegliata di soprassalto e le disse semplicemente.
- Devo prendere il primo aereo per Roma. Simone è grave in ospedale. Vieni anche tu, ti prego, non lasciarmi solo.Ho troppo paura che succeda qualcosa di irreparabile! -
Non avvertiva più alcun dolore alla schiena ed al collo ed aveva riacquistato di colpo ogni perduta sensibilità.
Marta tremò di paura per il pensiero che quelli dell'Organizzazione gli avessero preparato un tranello, ma non disse nulla ed al solito ubbidì silenziosa.
Un'ora dopo partirono per l'Italia con un volo non stop via Los Angeles.







4

Appena giunto a Roma Carlo si sentì liberato dall'enorme peso che l'aveva schiacciato in tutti quei giorni a Las Vegas. Gli era meravigliosamente ritornato anche l'appetito, pur se il pensiero correva continuamente a Simone che immaginò in un lettino di ospedale, contuso e fratturato, ma più bello di quando l'aveva visto l'ultima volta.
Prese un taxi ed al Policlinico e seppe invece che suo figlio era morto da poco più di dodici ore. Camminò lentamente fin dove l’avevano indirizzato.
Gli occhi gli si inumidirono ma non pianse, si sentì di nuovo svuotato ed inutile proprio quando girando lo sguardo attorno vide Luisa, tutta vestita di nero, affranta su una sedia all'obitorio dell'Istituto di Medicina Legale.
Erano ormai diversi mesi che non si incontravano più, quasi un anno.
Luisa sollevò il viso, gli occhi rossi e pieni di lacrime che scorrevano lungo le guance fino a caderle sulla gonna sgualcita.
Carlo si avvicinò ma, quando fu ad un metro, non seppe far altro che porgerle la mano dicendo.
- Povero Simone non ha avuto nemmeno il tempo di diventare uomo e non ha avuto un padre che lo guidasse e gli stesse vicino. -
- Ho un grande rimorso, - sospirò guardando la moglie che non riusciva a trattenere i singhiozzi - forse se io fossi rimasto al mio posto vicino a voi tutto ciò non sarebbe accaduto e lui, nostro figlio, sarebbe ancora vivo. -
Luisa allora ebbe una violenta ed insospettabile reazione e urlò con quanta voce aveva in gola.
- Ti odio e ti odierò per tutta la vita per tutto il male che hai fatto. Tu non sei un vero uomo, sei un essere disgustoso che hai distrutto sadicamente la famiglia, l'unica cosa pulita che c'era nella tua vita. Hai corso sempre come un pazzo dietro tutte le tue follie per avere poi che cosa? Il nulla più assoluto .-
- Guardati, - esplose infine con rancore - non sei capace nemmeno di piangere per tuo figlio. Vattene! Non farti mai più vedere! -
Carlo fissò la moglie stupito da quelle parole che gli aveva buttato in faccia, peggio che se l'avesse preso a schiaffi.
Capiva che tutto ciò era vero, ma non riuscì nemmeno in quel momento a scuotersi dal suo torpore. Non sentiva nemmeno accelerarsi il battito cardiaco ed avvertiva di essere paurosamente e cinicamente freddo mentre aveva gustato quasi centellinando quelle due frasi con piacere masochistico.
Era come se per tanti anni avesse atteso quel momento, quella punizione e perciò era logico che non potesse provare nessuna emozione.
Rimase solo, all'obitorio, per ore. Nessuno gli si avvicinò nemmeno Debora, sua figlia, nessuno ebbe un gesto di pietà per lui.
Quando fu sera e lo mandarono via, vagò a piedi per ore senza pensare a nulla e si ritrovò all'alba seduto su una panchina a Villa Panphili mentre intorno alcuni passeri saltellavano sulla ghiaia cercando un po’ di cibo.
Carlo non andò al funerale del figlio. Marta, che si era seduta su una sedia vicina al letto dove egli si era sdraiato con gli occhi aperti e fissi al soffitto, pensò che stesse per impazzire.
Gli rimase per due giorni interi vicina, senza parlare e guardandolo ogni istante, per osservare in lui un qualsiasi segno di reazione.
Il terzo giorno Carlo cominciò di colpo a piangere come un bambino ed a singhiozzare dolorosamente senza freni.
Marta si alzò solo allora dalla sua sedia e gli asciugò col proprio viso ogni lacrima. Gli accarezzò i capelli lunghi e scomposti e sussurrò con un filo di voce.
- Amore mio, basta non fare così, mi spezzi il cuore. Questa sera partiremo per l'America, io penserò a tutto, riposati un poco. Non ti lascerò mai, dovessi morire per starti accanto. -







5

Verso le cinque del pomeriggio Marta, completato il giro che si era prefissata e trovandosi a due passi dal Colle Esquilino, si diresse verso Santa Maria Maggiore.
Non aveva perduto molto tempo all'agenzia di via Bissolati. L'impiegato le aveva prenotato due posti per il volo delle ventidue per Città del Messico.
Aveva pensato a lungo se tornare negli Stati Uniti oppure no, poi, dopo aver riflettuto sull'esperienza negativa di Las Vegas, aveva deciso per il Messico senza dire niente a Carlo che riposava sotto l'azione di un sedativo .
Un po’ la nostalgia del suo paese, un po’ la speranza di riacciuffare la serenità perduta ed anche il fatto che la vita sull'altopiano avrebbe giovato alla salute di Carlo, l'avevano convinta che l'unico posto al mondo, adatto per ridare vigore a quell'amore che si era lentamente sfaldato, poteva essere qualche cittadina non molto lontana dalla Capitale messicana.
Salì le scale della Basilica lentamente e quando fu in cima si voltò guardando per un attimo la piazza e quelle strade intorno gremite di gente mentre un pensiero le attraversò la mente.
- Mio Dio come fai ad ascoltare tutte le preghiere e tutte le suppliche che il mondo ti invia? Come puoi distinguere la mia voce da quella di ognuna delle centinaia di migliaia di voci che si rivolgono a te? -
Entrò nella chiesa e si bagnò la punta delle dita nell'acqua consacrata facendosi il segno della croce, poi guardò alla sua destra la Cappella della Madonna e si inginocchiò sul freddo pavimento rivolgendosi alla Vergine ed avendo la sensazione reale che quella fosse in quel luogo sacro.
Si sentì in colpa per i tanti peccati che da anni non aveva confessato ed alzatasi si guardò intorno notando la luce rossa di un enorme confessionale in legno là vicino. S'inginocchiò di nuovo e la grata di lamina bucherellata all'altezza del suo viso si aprì.
- Sia lodato Gesù Cristo, - mormorò la voce bassa e dal timbro caldo di un vecchio prete.
- Da quanto tempo, figliola, non ti confessi? Parla e dimmi se sul tuo cuore pesa qualche colpa. -
Marta con le mani giunte e con la voce tremante, sommessamente cominciò a parlare.
- Padre, c'è un grande peccato che voglio confessare e non è che sono tanti anni che non vengo a questo Sacramento e che non vado quasi mai a Messa e nemmeno che ho un amante sposato e non ho speranza di unirmi in matrimonio con lui. Il mio peccato è che ho cercato la felicità con tutte le mie forze ed insieme ho cercato l'amore, dando tutto di me per raggiungere questo fine unico e supremo, trascurando la vita spirituale e la preghiera . -
Marta tacque ed il vecchio prete al di là della grata sentì distintamente il profondo sospiro che seguì quelle parole.
- Figliola, - iniziò senza che la sua voce tradisse alcuna meraviglia, - questo non è peccato mortale. Il tuo peccato è l'aver dato il tuo corpo ad un uomo sposato e tu sai che il matrimonio è indissolubile. -
- Ascolta, - continuò scandendo le parole - devi lasciarlo e far sì che egli possa tornare alla sua donna, quella che il sacerdote benedisse nel giorno del vincolo matrimoniale. -
- Non posso assolverti, - continuò con calma - ma il Signore ha apprezzato questo tuo atto di umiltà perché hai voluto inginocchiarti a questo confessionale. Ora va e torna da me tra un mese quando avrai ubbidito alle leggi della Chiesa. Allora ti assolverò! -
Marta rimase in ginocchio, mentre la grata si chiudeva, per diversi minuti con il cuore in tumulto. Poi si alzò e rivolta al grande crocifisso di bronzo dietro di sé, disse.
- Gesù, che hai tanto amato gli uomini da farti crocifiggere per i loro peccati, perdonami almeno tu. Io non posso lasciare Carlo non solo perché lo amo ma anche perché sono l'unica persona al mondo che egli ha! -
Poi tornò verso l'uscita e si trovò in mezzo alla grande moltitudine di persone che riempivano la città: Intorno nessuno si era accorto di lei e dei suoi rapidi e frettolosi passi.
















CAPITOLO OTTAVO

1
Enormi nuvole simili a mostri preistorici attraversavano il cielo rosso cupo in un tramonto greve di caldo e di umidità.
Sul fianco meridionale della collina a mezza costa, tra il verde antico di olivi centenari dalle sagome bizzarre, la casa che Carlo e Marta avevano fatto costruire aveva assunto una tinta indefinita per il riverbero arancione di quel giorno d'agosto
Non un alito di vento muoveva le foglie degli alberelli sparsi nel grande spazio verde davanti alla casa.
Mancava poco al buio più completo ma già verso la città, distante una decina di chilometri dalla collina, si vedevano accese a migliaia le luci delle strade e delle case.
Carlo, seduto su una sedia a dondolo nel patio della villa, fissava quelle luci scintillanti mentre grosse gocce di sudore gli scivolavano dalla fronte e dalle tempie sul naso e sul collo.
Il volo di un corvo dalle nere ali lo distrasse. Si voltò indietro e chiamò Marta.
Lei lo raggiunse in un attimo e Carlo mormorò a mezza voce.
- Ti voglio bene, Marta, anzi ti amo. -
Poi continuò dopo un breve silenzio, - Marta, ti voglio bene, ti voglio tanto bene. -
Marta socchiuse gli occhi ed accostò il bel viso vicino a quello dell'uomo, trattenendo a stento le lacrime.
Lo baciò dolcemente sulla bocca e bisbigliò.
- Grazie per queste parole, me le dici sempre quasi ogni minuto. Lo so, caro, che mi vuoi bene e che mi ami. Non posso dimenticarlo il tuo amore perché è stata la cosa più bella che ho mai avuto. -
Ci fu un lungo silenzio poi aggiunse ponendogli le lunghe dita sulla bocca.
- Tesoro mio devi essere forte e non voglio che ti preoccupi di ciò che penso di te perché ti sarò sempre accanto, qualsiasi cosa possa accadere. Anche se non me lo dirai più so bene che mi ami! -
Le foglie degli alberi cominciarono improvvisamente a muoversi ed il loro fruscio arrivò alle orecchie di Marta prima che sentisse fra i riccioli neri la carezza di un lieve venticello, che aveva cominciato a muoversi dall'alto della collina.
Marta si raddrizzò a fianco di Carlo. Il bel seno proruppe turgido attraverso la camicetta sbottonata sul davanti e con mossa rapida tirò fuori un lembo di questa dalla gonna di seta a fiori rossi ed asciugò il sudore sulla fronte del suo uomo, con un gesto protettivo e delicato.
Carlo era tornato a fissare, lontano, le luci della città e non si accorse nemmeno che Marta era rientrata in casa silenziosamente.
Lei attraversò lo splendido salone e si diresse rapida nella camera da letto buttandosi bocconi sul bianco lenzuolo ricamato, steso senza una piega sul grande letto matrimoniale. Il viso sprofondò nel soffice cuscino e dai suoi occhi cominciarono ad uscire lacrime profuse, in un pianto silenzioso e senza singhiozzi, che ben presto inzupparono la bella federa rosa.






2

Erano in Messico da poco più di un anno e dopo i primi mesi , trascorsi prima in un posto poi in un altro, quasi fuggendo per cercare una città dove stabilirsi definitivamente, avevano deciso di fermarsi a Taxco de Alarcon ed avevano fatto costruire sulla collina la loro casa.
L'avevano studiata insieme nei minimi particolari ed erano stati giorni felici nell'attesa, lontani dalla vita assurda che avevano lasciata a Roma. Tutto era bello e Carlo si dimostrava ogni giorno sempre più gentile e premuroso con lei.
Sembrava definitivamente guarito.
Quando la casa fu finita egli l'aveva presa in braccio ed attraversando la soglia d'ingresso, volle suggellare con un gesto d'amore l'inizio di quella nuova esistenza che avrebbe dedicato completamente e per sempre a quella donna palpitante, che non l'aveva mai biasimato nemmeno nei momenti peggiori
E così la loro vera “prima notte”, in quel paese tanto nuovo per lui e tanto antico per Marta, aveva parlato in un idioma vecchio come la Terra che li ospitava.
Lei si era vestita con una lunga camicia immacolata, tutta di pizzo lavorato a mano e trasparente.
Carlo l'aveva guardata in silenzio abbandonata e languida sul grande letto matrimoniale e seduto sulla sponda di quello aveva cominciato a baciarle lieve il dorso dei piedi e le caviglie sottili.
Poi, girandola dolcemente sul fianco, salendo con le mani lungo le belle gambe e le cosce, aveva raggiunto, scoprendole lentamente, le natiche.
La lingua impazzita d'ardore a piccoli colpi aveva preso a muoversi su ogni centimetro dei suoi fianchi morbidi e flessuosi incuneandosi prepotentemente nella bocca umida ed infuocata di lei.
Marta gli aveva stretto forte le tempie e lo aveva guidato nei ritmici colpi che egli le assestava, con dolce violenza, sentendo quella stringersi ed allentarsi in un gioco di corse e rincorse.
Poi si era lasciata andare con la chioma nera che sporgeva dal letto in una lotta affannosa, con le lunghe dita che cercavano disperatamente di penetrare nella carne dell'uomo.
Quando ebbe preso in se profondamente l'erezione di Carlo, aveva cominciato a gemere ed a respirare con fatica mentre un benessere profondo le era sceso lungo la schiena fino all'inguine.
Marta aveva atteso il momento del massimo turgore e poi aveva cominciato a punzecchiarlo con piccoli colpi rapidi, incontrollati, trafiggendo il sesso di Carlo che ormai si era abbandonato a lei con disperazione quasi lacerante.
Lei era saltata allora in piedi sul letto e subito dopo aveva spinto Carlo giù coprendolo con le belle cosce e suggendo da lui l'orgasmo più completo in una danza prima lenta e poi selvaggia.
Quando si era sentita sazia, aveva stretto forte appassionatamente l'uomo e quello era rimasto prigioniero fino a che l'ultima stilla non fu uscita inondandola completamente.
Poi erano caduti in un sonno profondo ed al mattino al risveglio si erano amati ancora con infinita dolcezza e senza pudore.






3

Poche settimane dopo che ebbero preso possesso della villa sulla collina, Marta si era svegliata prima dell'alba sudata ed agitatissima. Aveva fatto un sogno angoscioso e la cosa strana, per lei che non ricordava mai i sogni, era che di questo aveva rammentato tutto nei minimi particolari.
Stavano andando per una impervia stradina di montagna quando una nebbia fittissima era scesa, dai boschi intorno, verso la strada.
Si erano fermati lungo il ciglio, vicino ad una curva e Carlo era sceso dall'auto per guardarsi intorno.
Lei lo aveva visto arrampicarsi sul fianco della montagna tra la nebbia e gli era corsa dietro chiamandolo con tutta la voce che possedeva. Non si era voltato ed aveva continuato ad arrampicarsi tra la nebbia.
Quando erano giunti in cima, lui davanti e lei lontana dietro, aveva visto in alto un cielo azzurro e terso, stupendo ed un sole splendente ma freddo, mentre Carlo camminando affondava le gambe in una nuvola bianchissima come panna montata. Di nuovo lo aveva chiamato e di nuovo non si era voltato; era come se non sentisse la sua voce e volesse raggiungere qualche luogo che gli si nascondeva alla vista.
Lei, nel corrergli dietro sulla nuvola, non era riuscita ad avanzare perché le sue gambe venivano come avvinghiate fino alle ginocchia in una specie di colla morbida e vischiosa. Carlo si trovava davanti ormai lontano; lentamente stava scomparendo immerso nella nube come in una enorme distesa di sabbie mobili.
Marta aveva cercato di non dare importanza al sogno, ma quelle sequenze le erano ritornate identiche ed ossessive alla mente per tutto il giorno.
Eppure egli si stava dimostrando allegro e spensierato e l'aveva invitata a vestirsi per andare a cena fuori, dopo averle offerto un bellissimo mazzo di fiori di campo.
Guardandolo negli occhi limpidi ne aveva letto un nuovo desiderio di vivere, una sicura promessa, ed alla fine era rimasta contagiata dal suo buonumore tanto da scegliere, tra i molti che aveva, un fiammeggiante vestito rosso amaranto stretto in vita e con la gonna molto larga a pieghe minute. Se l'era infilato davanti a lui e Carlo sorridendo le aveva detto.
- Sembra il vestito di tua nonna, da dove lo hai tirato fuori? -
In realtà era un bellissimo vestito, di stile spagnolo, che aveva comprato non appena erano arrivati in Messico con l'intenzione di far colpo su Carlo quando ce ne fosse stata l'occasione.
Il momento era giunto ma non proprio nella maniera che aveva immaginato.
Ora serviva invece a lei, per darle forza perché quel sogno le aveva procurato una tristezza inconsapevole quasi fosse una premonizione.
Non glielo aveva voluto raccontare ed appena pronta gli aveva sorriso sussurrandogli maliziosamente.
- Si è vero. Questo è il vestito che mia nonna si mise quando fu eletta la più bella del suo paese e con questo conquistò mio nonno col quale visse felice ed innamorata fino a che lei morì facendo all'amore con lui. -
- Anch'io, - aveva continuato questa volta ridendo - voglio morire facendo all'amore con te. -
Sentendola, Carlo era stato preso da una improvviso sentimento di protezione commovendosi per quella giovane donna che aveva conosciuto, tanto tempo prima, in un caffè di Via Veneto.
L'amava infinitamente e certamente ormai le avrebbe dedicato ogni attimo ed ogni pensiero, , per ripagarla almeno in parte della sua dedizione.
L'aveva portata in un locale molto tradizionale della città e la musica nostalgica di una orchestrina li aveva ubriacati di dolcezza più del vinello rosso che era stato loro servito.






4

Dalla finestra aperta della camera da letto entrò prepotentemente, sollevando la grande tenda di lino bianco, un gran refolo di vento fresco che si spinse fin sopra il letto dove Marta giaceva nel suo silenzioso pianto.
Lei lo sentì percorrerle la schiena e un lieve brivido la scosse.
Si mise sul fianco per averlo in faccia e per respirare più profondamente e con il dorso delle mani si asciugò il viso madido di lacrime.
Il pensiero tornò subito a Carlo, li fuori, sulla sedia a dondolo e si vergognò di averlo lasciato solo.
Le sue parole l'avevano profondamente angustiata: quel suo ripetere inutile e monotono “ti voglio bene, ti voglio bene” la distruggeva e la sua fuga era stata istintiva, irresistibile.
Ormai le capitava spesso di doverlo sfuggire specialmente quando la sera incombeva e lui rimaneva fuori a guardare le luci della città brillare e confondersi in alto con il luccichio delle stelle.
Ma non era tanto l'amarezza di vederlo ridotto così ancora una volta, abulico e inconcludente, incapace di soffrire come un uomo qualsiasi, inutilmente triste senza speranza per un domani diverso e più bello, quanto ciò che il destino le aveva riservato che la faceva piangere di rabbia.
Perché ancora l'amasse così profondamente, Marta non se lo sapeva spiegare. Ormai troppe volte Carlo l'aveva delusa come uomo e la sua fragilità, che prima l'aveva affascinata, ora era giunta ad un limite non più sopportabile poiché almeno un palpito d'amore vero, un amore adulto era il meno che potesse pretendere dalla vita.
La felicità, che le si era avvicinata per una volta almeno, tangibilmente, era svanita proprio nel momento che la stava pregustando dopo quei pochi mesi in cui le era parsa falsa la convinzione che un fato maligno potesse non abbandonarla mai.
Tutto era iniziato poco tempo dopo la sera che lei aveva indossato il vestito nuovo, rosso amaranto. Carlo aveva festeggiato il suo cinquantesimo compleanno con una gran festa ed aveva invitato a pranzo molta gente che in quei mesi aveva conosciuto negli ambienti più facoltosi della città.
L'atmosfera era stata allegra e l'ospite era stato brillante con quello spagnolo un po’ zoppicante ma corretto che aveva imparato in Messico.
Le donne erano per lo più giovani e loquaci ed avevano fatto ben presto amicizia con Marta, che dal canto suo, si era comportata da perfetta padrona di casa.
Il cibo era stato magistralmente preparato da un famoso chef che aveva avuto l'incarico di pensare ad ogni cosa. Tutto si stava svolgendo nel migliore dei modi quando, all'improvviso, un certo Fidel aveva esclamato a voce alta.
- Senta caro amico, vorrei proporle un affare. Ho nella mia fattoria un allevamento di purosangue, fantastici galoppatori. Che ne direbbe di acquistarne un paio ? -
Carlo aveva squadrato l'uomo rimanendo come fulminato da una corrente ad alta tensione.
Era rimasto pietrificato ed il sorriso che aveva sulla bocca, quando quello aveva cominciato a parlare, si era raggelato in una smorfia di disgusto e di sofferenza.
Il suo volto era parso invecchiarsi di colpo di dieci anni e Marta, che in quel momento gli stava accanto, lo aveva visto smarrito ed incapace di replicare.
Si era rivolto allora all'interlocutore, dicendo con voce chiara e decisa.
- Senior Fidel, deve scusare mio marito ma il solo accenno a cavalli da corsa lo turba profondamente, a causa di un incidente che causò la morte di un suo campione dopo che ebbe vinto un Gran Premio. -
Marta aveva tagliato corto con ulteriori spiegazioni ed il senior Fidel, capita la gaffe, si era scusato andandosene poco dopo via.
Carlo si era seduto in un angolo del grande giardino e non aveva assolutamente più parlato né guardato in faccia nessuno.
Il clima della festa si era raffreddato progressivamente fino a che tutti gli invitati, piuttosto meravigliati di quanto fosse accaduto, salutando la padrona di casa, se ne erano andati quasi alla chetichella.
La notte che era seguita fu d'inferno e Marta aveva cercato in ogni modo di risollevare Carlo e di farlo uscire da quello stato di depressione acuta in cui era ripiombato, ma ogni suo sforzo era stato inutile.
Carlo non aveva risposto nemmeno alle sue parole, muto e con gli occhi lucidi e rossi aveva passeggiato in lungo ed in largo per tutta la casa fino all'alba e poi rivolgendo lo sguardo al sole che nasceva era esploso con ira, urlando.
- Che ho fatto di così grave per meritarmi questo castigo! Ho cercato di dimenticare il passato, ho cercato di ricrearmi una vita e adesso eccomi qui di nuovo impotente a soffrire, a non essere capace di essere e reagire da uomo! -
Marta l'aveva udito e nei giorni seguenti aveva tentato di provocargli uno choc, aggredendolo sessualmente.
Era ricorsa ad ogni mezzo, ma lui era rimasto immobile ed impotente e pur non allontanandola l'aveva guardata con immensa mestizia negli occhi, pronunciando le le uniche parole, quasi una cantilena idiota ed inutile,che lei mai avrebbe voluto udire.
- Marta non vedi non sono più un uomo, perdonami ma non posso fare all'amore con te, così come mi sento, sono finito. -
Poi le aveva mormorato, come a chiederle perdono, come in una vecchia filastrocca, “ti voglio bene, ti amo e sempre ti vorrò bene e ti amerò”. -
Marta era ricorsa anche a diversi specialisti ma la risposta era stata la stessa.
- Signora, suo marito può essere curato solo con lunghe sedute di psicanalisi da farsi negli Stati Uniti. -
Né aveva parlato con Carlo ma egli le aveva gridato.
- Lasciami in pace con la mia amarezza, tu non puoi capire. Non puoi capire, Marta, mia dolce Marta, perché io sono un perdente, un vinto! -
Proprio quel “tu non puoi capire” l'aveva colpita a morte, lei che di Carlo aveva capito tutto fin dal primo momento e che per lui sarebbe morta.
Alla mano tesa che di nuovo gli aveva porto per aiutarlo e forse per aiutare se stessa, egli aveva risposto con un rifiuto per crogiolarsi in una ultima difesa disperata ed insensata di quella sua personalità distorta, debole ma arrogante, quasi una sfida al destino che da sempre gli aveva imposto di lottare, mentre nel fatalismo di cui era impastato, il lottare equivaleva a perdere sempre e comunque.
Erano passati giorni e giorni in una atmosfera irreale fatta di vuoti minuti e di lunghe attese che qualcosa accadesse, poi un mattino Carlo le aveva parlato.
- Sentimi, - aveva supplicato rivolgendosi a Marta con estremo disagio, dopo essere rimasto per più di una settimana in silenzio e senza muoversi da casa, - voglio raccontarti un fatto che non ti ho mai confessato e tu non continuare a girarmi intorno come se potessi risolvere le cose con il tuo amore e la tua volontà. -
Poi con lo sguardo fisso verso il pavimento, senza guardarla in faccia, aveva ricordato.
- Una decina di giorni prima che ti incontrassi a Roma, quando passavo le notti vagando per la città, mi ritrovai una sera a piazza Navona. In un angolo della piazza c'era una donna vecchia che leggeva la mano ai passanti. Mi avvicinai incuriosito e per passare il tempo volli che leggesse la mia. Quella rimase a guardare a lungo i segni del palmo prima della destra e poi della sinistra e poi mi disse che non voleva parlare, che era stanca. Insistetti pensando che fosse una mossa per alzare il prezzo e lei allora mi annunciò che sulle mie mani c'era scritta la storia della mia vita “un destino ingrato ed amaro, e che in me c'era il seme della pazzia”. Non volle essere pagata e tu ora sai, piccola cara, ciò che esiste dentro di me. Capisci, la pazzia! -
Poi alzando lo sguardo dal pavimento e fissandola negli occhi aveva continuato.
- Non puoi proprio aiutarmi anche se io ti ringrazio per tutto quanto hai fatto per me. -
Marta piangendo, gli si era avvicinata accarezzandogli i capelli e rimanendo in silenzio.
Con una gran pena mista ad una grande speranza come quando, da bambina, era stata costretta ad accettare senza possibilità di reagire gli amari insulti della povertà.












CAPITOLO NONO

1

Quante volte in quella lunga estate messicana si erano scatenati sulla loro casa, sul fianco della collina immersa tra il verde degli ulivi, i temporali sempre violenti e sempre diversi tra loro.
Ma una sera di fine settembre Marta aveva provato un forte desiderio: sentire sulla pelle la furia della natura e per questo motivo era rimasta fuori senza nemmeno coprirsi il capo.
Avvolta in un grande scialle giallo, dritta in piedi sull'enorme terrazzo al secondo piano della villetta, attese che dal cielo cupo e nero scendesse su di lei la pioggia torrenziale. Per diversi minuti, fulmini e tuoni, con un crescendo impressionante di note diverse come il progredire maestoso di una grande orchestra sinfonica, accompagnarono il diluviare dell'acqua e mentre il vento continuava a schiaffeggiarla sul viso, improvvisamente uno splendido arcobaleno dipinse l'orizzonte.
Lei alzò il volto e rivolse lo sguardo lontano tenendo chiusi i pugni in un gesto di sfida e forse di rabbia.
Vide allontanarsi il lampeggiare delle ultime saette ed udì ormai soffocato all'orizzonte il rumore dei tuoni che brontolavano verso altre direzioni.
Aveva tenuto fronte a quel piccolo uragano senza fuggire e come una quercia era rimasta indomita attendendone la fine. Era completamente zuppa di pioggia ma si sentiva fiera di se stessa, mentre le nasceva dentro una grande speranza di riscatto ed un giuramento: avrebbe difeso con i denti e con tutte le proprie energie il suo amore e mai avrebbe permesso che tutto svanisse nella ruota di un destino ingrato.
Diede un ultimo sguardo all'arcobaleno che si stava smorzando e ricordò la sua adolescenza e come anche allora avesse vinto la sua grande battaglia.






2

La stradina di fronte alla casupola dove era nata era stata sempre polverosa. La ghiaia, che ne costituiva il manto, non era compatta e bastava un po’ di vento per sollevare in tutte le direzioni quel maledetto terriccio che s'infiltrava dovunque in cucina e nelle due camere da letto.
Un giorno la mamma l'aveva presa in disparte nel giorno del suo decimo compleanno e le aveva detto baciandola.
- Mia piccola oggi cominci a diventare grandicella ed io ti devo chiedere un piacere. -
Marta, con gli occhi spalancati nerissimi, aveva guardato il viso della madre e seria aveva atteso che quella continuasse, stringendosi forte al petto la piccola bambola di pezza che le aveva regalato un momento prima.
- Devi sapere, - aveva continuato sedendosi sull'unica sedia in buone condizioni nella cucina - che la vita è dura e va affrontata con tanto coraggio. Qui a casa siamo in tanti. Tu ed i tuoi fratellini siete la mia gioia ma il mio stipendio di maestra elementare è una piccola cosa di fronte alle nostre necessità. -
Poi dopo un attimo di silenzio che aveva accompagnato con una lieve carezza sui suoi riccioli, aveva proseguito.
- Il tuo papà come sai ha dovuto emigrare clandestinamente negli Stati Uniti, ma lì lo pagano pochissimo quando trova lavoro e non può protestare perché se lo facesse lo denuncerebbero e lo manderebbero indietro oltre il confine dove di lavoro non ce n'è proprio. Quel poco denaro che ogni tanto ci manda io lo deposito in banca su un libretto di risparmio, nella speranza che un giorno anche noi lo si possa raggiungere per vivere di nuovo insieme in una bella casa pulita e ordinata. -
- Adesso mia cichita, - aveva sospirato alzando gli occhi verso il soffitto screpolato - dobbiamo darci una mano e tu che sei la più grande devi badare ai tuoi fratellini quando io non sono in casa. Poi devi incominciare a cucinare ed a cucire in modo che tutto quello che avrai imparato ti servirà poi, nella vita, per difenderti meglio da ogni ostacolo che ti potrà capitare. -
Marta aveva ascoltato con grande serietà la madre e quando questa si era alzata, avendo finito il sermone, seria e compunta aveva risposto.
- Mamma, ti ringrazio di tutto quello che fai per noi e ti prometto che ubbidirò sempre alle tue parole. Non ti preoccupare, sono diventata grande e fra poco sarò anch'io una donna forte e buona come sei tu.
Era stata quella la giornata del suo compleanno: un patto con la mamma e quella bambola di pezza che ai suoi occhi sembrava più bella di tutte quelle splendide bambole vestite di raso che aveva visto nelle vetrine di quell'unico grande negozio al centro della cittadina per l'ultimo Natale.
Marta non avrebbe avuto bisogno di sentire dalla madre quale fosse la loro situazione. L'aveva saputo da sempre, da quando la sua memoria poteva andare all'indietro.
L'essere dignitosamente povera era diventata la prima regola di vita, ma ciò non le aveva procurato nessuna frustrazione. Anzi il fatto che oltre che a scuola la mamma l'aveva iscritta ad un corso di recitazione, tenuto dal giovane parroco della chiesa dell'Annunziata dei Catalani, “un vero amante del teatro” per i giovani del quartiere, l'aveva gratificata di enormi soddisfazioni.
Anche il lavoro che doveva sbrigare in casa e lo stesso badare ai fratellini l'aveva resa allegra.
Le era sembrato di costruire ogni giorno pezzetto su pezzetto la propria vita e ciò che l'aveva inorgoglita di più era che ogni piccolo miglioramento derivasse dalla sua volontà e dalla assoluta mancanza di compromessi.
Con gli anni aveva ben presto capito che la sua bellezza, di cui si rendeva perfettamente conto, rappresentava per lei un grosso pericolo.
Si era guardata qualche volta nel grande specchio della camera da letto ed il suo corpo, acerbo e flessuoso con quel seno duro e piccolo all'insù e con quei fianchi morbidi disegnati in una curva elegante, l'aveva fatta arrossire di soddisfazione e di spavento.
I compagni la rispettavano e solo una volta era accaduto un episodio antipatico, da star male per una settimana, quando il figlio del farmacista del rione, un giovane di più di venti anni, una sera al ritorno dalla parrocchia le aveva bisbigliato in un orecchio.
- Marta se vieni a letto con me ti do mille pesos! -
Lei si era fermata di colpo in mezzo alla strada e guardandolo fisso in faccia con aria di sfida gli aveva risposto.
- Imbecille, sei più povero di me e lo rimarrai sempre, tu che speri di comprarti una ragazza come potresti comprarti un paio di scarpe. Vedi io ho le scarpe vecchie ma pulite! Ma io sono ricca e tu un miserabile! -
Per quanto avessero cercato di risparmiare su tutto, venne il periodo della miseria più nera.
C'era stata una grande siccità e contemporaneamente una paurosa inflazione tanto che anche il pane era aumentato del doppio. Perfino la gente che aveva un lavoro lo stava perdendo ed i licenziamenti erano quotidiani.
Molte famiglie avevano provato ad emigrare clandestinamente negli Stati Uniti ed alcuni affaristi avevano approfittato della situazione per guadagnare sull'aleatoria speranza di quei disperati, promettendo loro un facile passaggio del confine.
Anche a casa di Marta era giunta la fame. A pranzo e cena molte volte potevano saziarsi soltanto con latte e qualche patata bollita.
Marta era diventata sempre più alta ma anche sempre più magra: era pallidissima perché i flussi mestruali erano molto abbondanti e le duravano spesso anche più di cinque giorni. Qualche volta non riusciva ad addormentarsi perché, appena chiudeva gli occhi, la testa le girava e le sembrava che il letto oscillasse come se fosse una barchetta, alla deriva sul mare mosso.
A quell'epoca aveva appena compiuto sedici anni ed un giorno prendendo il coraggio a quattro mani, in un mattino buio e freddo, si era accostata alla mamma che le dormiva a fianco e che si era appena svegliata e le aveva detto con pacata decisione.
- Io avrei deciso di raggiungere papà al di là del confine. Quei pochi risparmi che ho li darò ad una guida che ha promesso a me ed ad alcune compagne di condurci negli Stati Uniti. -
- Vedi mamma, - aveva proseguito tranquilla - qui non c'è possibilità di vivere e senza di me i soldi che guadagni basteranno per voi, almeno per mangiare. -
La madre l'aveva stretta sotto le lenzuola in un abbraccio dolce e commosso.
- Va pure,- l'aveva incoraggiata - provaci, forse sarai fortunata Cichita mia, forse potrai raggiungere papà e sarà lui che ti aiuterà nei primi tempi. -
Come lei aveva raccontato a Carlo tante volte a Roma, il tentativo era svanito nel nulla sia la prima che la seconda volta. Al solito, il gruppetto di emigrati aveva avuto la sfortuna di imbattersi nelle pattuglie della polizia di confine.
Li avevano trattati bene. Un ricco pasto e poi via indietro in Messico ad Ojinaga.
Dopo quelle esperienze Marta aveva deciso di non affidarsi mai più alla fortuna ma all'unica cosa che sapesse fare: la recitazione.
A Città del Messico aveva passato un buon periodo tranquillo dove finalmente aveva visto i primi guadagni, non lauti ma sufficienti per una vita dignitosa, recitando in una piccola compagnia teatrale. Poi era partita per l'Europa.






3

I ricordi erano compagni preziosi e Marta li cullava con tenerezza mentre le giornate, col primo autunno, cominciavano ad accorciarsi e Carlo rimaneva sempre più in casa passando lunghe ore in poltrona, immerso quasi sempre ad ascoltare in continuazione musica classica.
Quello della musica classica era l'unico legame che apparentemente manteneva con il mondo esterno.
A Marta faceva piacere sentire le note dei Notturni di Chopin e poi i temi vibranti ed appassionati della sinfonia “Del Nuovo Mondo” di Dvorak.
Ma ciò che Carlo ascoltava con più assiduità era Beethoven ed ogni volta pareva che cadesse in trance di fronte alla bellezza delle note e dei temi del più grande genio della musica sinfonica.
Carlo sembrava qualche volta scuotersi dal suo torpore, poi ogni speranza cadeva brutalmente nel nulla ed egli ormai non parlava più di nessun argomento, anche se Marta lo sollecitava con parole talvolta banali e talvolta espressamente pungenti.
Il suo mutismo era divenuto ogni giorno più assoluto e completo e Marta aveva pensato che sarebbe stato meglio, in quel momento, lasciarlo in pace senza forzature di nessun genere.
Si era quasi ridotta a fargli da infermiera ma dopo quella sera, quando aveva visto alla fine del temporale quello splendido arcobaleno, aveva deciso che prima o poi sarebbe andata in città a parlare della sua situazione con l'unica vera amica che si era fatta, la scrittrice Maria Dolores.
Così fece ed ogni volta che era andata a trovarla, nella zona nord della città tra verdi platani e querce secolari, non aveva potuto fare a meno di contare, quasi fosse un rito propiziatorio, i ventiquattro gradini che doveva salire della stradina a destra della piccola chiesa di San Francesco per arrivare alla casa di questa, una elegante abitazione molto appartata di due soli piani.
Maria Dolores ne occupava il secondo e tutto l'appartamento era elegante e suddiviso in due parti: da un lato lo “studio-biblioteca”, dall'altra la “zona letto” ed il salone con la camera da pranzo.
Erano diventate amiche da quando Marta, in un ritorno di fiamma per il suo lavoro, si era rivolta a lei circa tre mesi prima per conoscere le novità teatrali che erano state prodotte in Messico negli ultimi anni.
Maria Dolores aveva apprezzato le sue capacità di sintetizzare i concetti quando si discuteva di critica teatrale e poi quella giovane, in fondo, le piaceva perché le assomigliava.
Anche lei aveva calcato le scene per un breve periodo della sua vita dopo un'infanzia difficile ed in seguito erano state la sua grande volontà, la sua ambizione oltre ad un talento naturale, che l'avevano tirata fuori da un ambiente povero ed ignorante.
L'orologio a pendolo del salottino d'attesa dello studio scandì le dieci, quando la segretaria la fece entrare nello studio vero e proprio della scrittrice.
Lei si alzò dalla poltroncina dietro la piccola scrivania in stile Luigi XVI e le andò incontro sorridendo.
- Qual buon vento ti porta, cara la mia Marta? -
Disse facendole cenno di accomodarsi sul divanetto accanto alla finestra, da dove si potevano vedere i rami di una grande quercia quasi entrare in casa.
Marta sospirò e guardando quella donna un po’ grassoccia ma alta e imponente, con un viso intelligente e con degli occhi profondi castani, velati da lenti ovali da presbite con una enorme montatura di tartaruga, cominciò a raccontarle di lei e di Carlo non nascondendole nessun particolare della loro vita.
Maria Dolores ascoltò in silenzio. Ogni tanto abbassando lo sguardo fissava, sul pavimento in ceramica decorato a mano, un riquadro al centro della stanza nel quale si vedeva in un nido una rondine che imbeccava i suoi piccoli. Poi dirigendo lo sguardo verso la finestra guardava, al di là della vecchia quercia, il cielo di un azzurro limpido e pulito.
Il suo viso non mostrava alcuna emozione; era come se quel racconto fosse l'intreccio di un romanzo sul quale dovesse esprimere un giudizio.
Quando ebbe descritto in che modo si era ridotto il suo Carlo nell'ultimo periodo, Marta s'interruppe e portandosi un minuscolo fazzolettino sugli occhi cominciò a singhiozzare e tra i singhiozzi implorò.
- Aiutami per favore, te ne supplico, non so più cosa fare. Se puoi dammi un consiglio, fa che io abbia di nuovo una speranza e ti giuro che lotterò per essa fino alla fine dei miei giorni. -
Maria Dolores ebbe allora un moto di commozione ed appoggiando entrambe le mani sulle ginocchia della giovane amica, esclamò con impeto.
- Non darti tutta questa pena, mia cara, ogni cosa si aggiusterà col tempo. Ma una considerazione emerge evidente: finora ti sei comportata come una donna innamorata, trepida, impaurita. Da oggi cambierai sistema e sopratutto dovrai dargli la sensazione di essere tu che hai bisogno di essere coccolata e curata da lui e non viceversa. -
- Torna, - aggiunse con un gran sorriso schietto - quando vuoi ed io ti darò tutti i consigli che riterrò opportuni per vincere la tua battaglia. -
Quando Marta uscì dalla casa dell'amica i ventiquattro gradini della stradina le parvero come un tappeto favoloso disteso davanti a se .
Percorse con passo sicuro e svelto il tratto fino alla stazione degli autobus e pensò che la vita fosse bellissima e il mondo amico negli uomini e nelle cose.
Il vecchio bus giunse fin sotto alla collina e quando lei scese quasi di corsa, respirò a pieni polmoni l'aria fresca ottobrina dell'altura. Salì svelta la stradina tutta curve che portava alla villetta senza sentire la minima stanchezza e guardando quel cielo terso e limpido pensò con gioia a Carlo, immaginando di vedergli tornare il sorriso sulle labbra come una volta quando, guardandola negli occhi e senza parole, le trasmetteva quella strana sensazione che voleva dire: “dolce Marta, sei l'unica donna per me anche se io non penso di meritarti con tutto quello che di negativo ho combinato nella mia vita”.
Come una volta lei si sarebbe fatta accarezzare dalle sue mani e poi insieme sarebbero corsi verso quel angolo dietro la casa dove tante volte erano stati felici.
Così giunse, all'ingresso della villa e questa volta non aprì il cancello con la chiave ma suonò ripetutamente il campanello.
Nessuno aprì e quando, dopo aver atteso un tempo che le sembrò un'eternità, si decise ad entrare correndo attraverso il giardino tra gli alberelli che lei aveva voluto di sempre verdi.
Entrò nel soggiorno dalla porta semiaperta e chiamò Carlo ripetutamente, pensando che si fosse addormentato attendendola, ma non ebbe risposta alcuna.
Nella casa il silenzio era assoluto, si udivano solo i passi di Marta, rapidi, che saliva le scale ed il respiro di lei un po’ affannoso, mentre di corsa attraversava il lungo corridoio che portava alla camera matrimoniale.
Un triste pensiero di non trovarlo di non vederlo più, le martoriò la mente quando giunse nella camera da letto. Spalancò la porta ed un violento colpo la raggiunse, da dietro le spalle, alla nuca.
Si sentì mancare mentre le parve che il pavimento sprofondasse e cadde svenuta.






4

Due erano stati gli ordini che i capi dell'Organizzazione avevano diramato ai loro uomini dopo la riunione nella villa di Luca Segni a Marino, il giorno dopo della vittoria di Doppio Zero nel Derby e del pestaggio immediato di Carlo.
Il primo, l'eliminazione del puledro, era stato eseguito subito con estrema brutalità, il secondo, il recupero del miliardo e mezzo, che era stato pagato agli scommettitori per colpa di “quel traditore” e che rappresentava la perdita secca di quel giorno nel settore ippico, era stato procrastinato.
Come una piovra gigantesca che attende il momento più opportuno per ghermire la propria vittima, l'Organizzazione non aveva perduto mai il contatto con Carlo, l’infame, anche se questo aveva creduto di seminarla specie dopo la fuga in Messico.
Ogni movimento dell'ex capo settore delle scommesse clandestine e di Marta era stato attentamente seguito. Gli informatori avevano stabilito che egli era riuscito a far passare nel Messico, lentamente, tutto il denaro che aveva accumulato negli Stati Uniti e che era rimasto in Italia.
Un incaricato di Carlo aveva incassato con delega notarile il premio per il primo arrivato nel Gran Premio ed aveva provveduto a vendere a Roma ed all'Isola d'Elba gli immobili e gli oggetti di valore tra cui rari quadri d'autore e tappeti Persiani antichi.
Era stato calcolato che Carlo aveva nella speciale cassaforte a tripla combinazione meccanica ed elettronica, murata in una parete della camera da letto della villa sulla collina, più di ottocento mila dollari che non aveva voluto depositare in nessuna Banca. Ne avrebbe avuto anche di più se non avesse speso cinquecento mila dollari per farsi costruire quella bella villa.
Ora che tutto il denaro era a loro disposizione era giunto il momento che egli pagasse il suo debito e l'ordine partì rapido e venne eseguito da tre uomini, che da tempo vivevano sul posto.
Carlo era stato aggredito quella mattina stessa, quando Marta era andata a confidarsi con Maria Dolores, mentre come al solito immobile sulla grande poltrona ascoltava Beethoven e le note della “Pastorale” uscivano a pieno volume, come in una sala da concerto, dal favoloso apparato stereo che aveva fatto sistemare fin dall'inizio nel grande salone.
Le due domestiche, che sarebbero tornate alle tre di pomeriggio, erano appena uscite quando un giovane smilzo di media statura che impugnava una calibro nove bifilare, gli si era parato davanti con l'automatica puntata verso il torace mentre altri due tipi massicci gli avevano bloccato le braccia in una morsa ferrea.
Quello smilzo aveva fatto due passi in avanti ed accostando la canna della automatica sul torace di Carlo aveva detto con voce distaccata e metallica.
- Amico è giunto il momento che tu salda il tuo debito con noi. Forse credevi che ci fossimo dimenticati di te, merda di un infame, ma ti sbagliavi. Luca e gli altri attendono i tuoi dollari che tu ora gentilmente ci darai senza fiatare. -
Carlo, che era stato sorpreso in uno dei tanti momenti di abbandono quasi totale di cui la sua giornata era colma, aveva avuto una improvvisa reazione.
Il volto si era fatto di fuoco, gli occhi acuti e pungenti. Senza urlare ma alzando lo sguardo verso quello esplose con durezza sillabando le parole.
- Cosa credete di farmi, sottosviluppati mentali? Spara pure e... mira giusto qui al cuore! I miei soldi non li avranno mai, riferiscilo! -
Lo smilzo era rimasto per un attimo serio poi, con una sonora risata aveva esclamato.
- Sei proprio un imbecille ed un idiota e mi meraviglio pensando che hai fatto parte dell'Organizzazione. -
- Ora, - aveva aggiunto ritornando serio e freddamente determinato - ti do un minuto per aprire la cassaforte e per ubbidire agli ordini, poi sarà troppo tardi perché ti ucciderò come un cane e dopo di te sarà la volta della tua amica Marta. -
A quel nome i battiti cardiaci di Carlo avevano cominciato ad accelerare vertiginosamente come da mesi più non accadeva, aveva socchiuso gli occhi per un attimo e poi aveva detto con calma.
- Va bene andiamo il denaro è vostro. -
Erano saliti nella camera da letto e dopo un paio di minuti tutti quei dollari erano stati riposti in una grande borsa nera. Era stato in quell'attimo che Marta era entrata nella stanza ed era caduta colpita dal calcio della pistola.
Quando rinvenne un violento dolore alla testa la fece vomitare sul pavimento, poi si voltò e vide Carlo sudato e pallido chino su di lei con un piccolo asciugamano bagnato che le passava sulla fronte.
- Amore mio, mia Cichita, - disse fra le lacrime che gli inumidivano gli occhi - che Dio sia benedetto! Sei viva! Ho creduto per un attimo che ti avessero uccisa, dolcezza mia, Marta, unica realtà felice di questa mia vita assurda! -
E nel sussurrare queste parole la prese a baciare con dolcezza in ogni angolo del viso pallido e bagnato.
Carlo si sdraiò accanto a lei sul pavimento e la strinse forte a se.
Marta gli si strinse ancora più vicino ed accostando il seno al torace di lui sentì il cuore di Carlo battere all'unisono con il suo e capì che il suo amore aveva vinto.













CAPITOLO DECIMO

1

All'una e trenta in punto dopo mezzanotte l'impiegato delle Ferrovie cominciò a percorrere lentamente, iniziando dal lato dell'Ufficio Postale, la grande sala d'attesa della Stazione Termini.
Ai lati dell'ingresso lungo tutta la grande vetrata prospiciente la piazza, era stesa per terra, in sacchi a pelo o su cartoni pressati , una moltitudine di persone dormienti.
L'impiegato passando davanti a ciascuno faceva un gran chiasso con una specie di bastone che aveva in mano, battendo ritmando e il pavimento e dando una voce.
- Signori si chiude! Forza il dormitorio chiude i battenti! Dovete uscire! -
Molti si svegliavano stropicciandosi gli occhi rossi di sonno in netto contrasto col pallore quasi vitreo del viso, accentuato dalle lampade al neon. Altri si rigiravano sui fianchi continuando a dormire profondamente spossati dalla stanchezza.
L'impiegato era gentile con quelli che lo sentivano subito, si fermava un attimo e toccandoli leggermente sulle scarpe li sollecitava ancora quasi centellinando.
- Ragazzi sveglia, chiudiamo dovete uscire! -
Tra quella gente silenziosa e coperta da cenci variopinti e maleodoranti si potevano vedere oltre ai soliti giovani turisti stranieri in attesa del treno del mattino ed ormai senza più un centesimo in tasca, barboni e uomini di colore probabilmente profughi da chissà quale parte del mondo mescolati l'uno accanto all'altro, quasi una collezione di cadaveri in fila dopo una pestilenza.
All'estrema destra della vetrata Carlo, vestito con un abito di lana scuro e vecchio che una volta doveva essere stato elegante, giaceva su quattro pezzi di cartone.
Era l'ultimo della fila e l'impiegato giuntogli di fronte guardò con attenzione quello strano tipo raggomitolato su se stesso ed esclamò.
- Brav’uomo facciamo un piccolo sforzo di volontà e così anch'io finisco il mio lavoro e potrò andarmene a casa. -
Attese qualche secondo ancora e poi aveva ripetuto la stessa frase con voce monotona tanto che a Carlo parve il richiamo di un fantasma vagante nell'aria.
Il volto dell'uomo era emaciato, incorniciato da una lunga barba incolta ed i suoi lineamenti sembravano invecchiati di molto, mentre la bocca era serrata in una smorfia di dolore.
Non appena gli occhi gli si aprirono, lacrimosi, fece appello a tutte le sue forze e si tirò su mentre una stanchezza immane lo attanagliava, quasi fosse colla, a quel freddo pavimento.
Sentì le gambe anchilosate ed i piedi gonfi serrati come in una morsa in quelle vecchie scarpe di cuoio troppe strette per uno come lui che passava intere giornate camminando senza meta per le strade della Capitale.
Una volta che fu in posizione eretta, barcollò visibilmente movendosi con lenti e dolorosi passi verso l'uscita e fu fuori all'aria umida e fredda della notte.
Infilò una mano nella tasca posteriore del pantalone sdrucito e scoprì quattro biglietti da mille lire, gli ultimi rimasti. Li osservò alla luce dei lampioni della stazione e pensò a quando regalava fogli da centomila per una semplice mancia.
Sorrise amaramente e cominciò ad avviarsi verso il giardino a fianco di Santa Maria degli Angeli. Trovò una panchina libera e si distese, coprendosi con il vecchio soprabito di flanella misto lana consunto ai polsi ed al collo che aveva comprato a Porta Portese.
Chiuse gli occhi ma il tremendo sonno, che prima lo aveva legato al pavimento del grande atrio della Stazione Termini, se ne era andato. Cominciò a tossire mentre la gola gli doleva terribilmente ed i crampi allo stomaco gli ricordavano che non aveva cenato e che solo al mattino avrebbe potuto bere un cappuccino caldo spendendo quelle ultime lire. Lo sguardo si rivolse al cielo nella speranza che almeno non piovesse, poi mettendo una mano nella tasca interna della giacca tirò fuori una fotografia a colori di Marta e la guardò a lungo alla luce fievole di Piazza dell'Esedra.






2

Erano ormai quasi otto mesi e mezzo che Marta era morta in Messico, distrutta dalla leucemia in poco meno di un mese.
Marta aveva vissuto un breve tempo felice dopo che i tre ebbero rapinato Carlo di tutti i suoi soldi.
Egli era tornato quello di prima dolce e premuroso e focoso amante come lei l'aveva sempre desiderato. Aveva venduto la villa sulla collina e con il ricavato avevano potuto ancora permettersi di vivere decentemente anche perché Carlo aveva aperto un negozio di fiori che rendeva abbastanza bene. Si erano trasferiti in un appartamentino di tre camere al centro della città e Marta aveva accudito la casa con entusiasmo nuovo, manifestando la sua semplice felicità con deliziosi, speciali pranzetti a base di riso che erano diventati il suo modo di esprimere a Carlo la gioia di stare insieme ed il suo amore.
Qualche mese dopo, quasi all'inizio della primavera, Carlo l'aveva chiamata mentre lei trafficava in cucina e lui sedeva nella camera da pranzo a leggere il giornale.
Lei era corsa subito ed aveva ascoltato il suo uomo guardandolo con tenerezza.
- Marta preparati, voglio un figlio da te; - e facendole il verso e marcando la propria pronuncia spagnoleggiante aveva aggiunto - è l'unica cosa che ci manca un piccolo italo - messicano con i capelli neri e ricci come i tuoi. -
Lei gli si era gettata addosso buttandogli le braccia al collo e Carlo aveva letto una gran luce di gioia nei suoi occhi.
- Carlo, - aveva sospirato - era tanto che aspettavo da te queste parole e il tuo desiderio sarà un ordine perentorio per me....! -
Faremo l'amore due volte al giorno, - aveva detto con aria soddisfatta - e così avremo un maschio perché qui si dice che quando l'uomo è stanco, anzi distrutto sessualmente, fa fare alla donna solo maschi. -
Il mese dopo a Marta non era venuto il flusso mestruale e la sua gioia aveva raggiunto il massimo della felicità quando il test di gravidanza era risultato positivo.
Ormai nulla sembrava che potesse turbare la loro vita approdata finalmente, come una barca che era stata presa in mezzo ad un uragano, in un porto sicuro.
I suoi lineamenti erano diventati ancora più dolci e belli da quando aspettava il bambino anche se una pigmentazione scura sulle areole delle mammelle le dava tanto fastidio. Le aveva fatte notare a Carlo che ridendo aveva sogghignato.
- Sono contento così mi diventi una bella negra. -
Una notte, mentre di fuori stava piovendo a dirotto, Marta si era sentita improvvisamente male: una violenta emorragia l'aveva colta a letto inzuppando lenzuola e materasso e quando fu trasportata d'urgenza in ospedale, i medici avevano impiegato poco a diagnosticare un aborto in soggetto con leucemia mielode acuta.
Nei giorni che erano seguiti, Carlo non si era allontanato mai, nemmeno per un attimo, dal capezzale di Marta, la quale aveva saputo fino alla fine, che sopraggiunse quindici giorni dopo, che si era trattato di un semplice aborto e che la febbre che la stava divorando era dovuta ad un'infezione uterina.
Dopo il funerale che Carlo aveva voluto il più bello che mai era stato visto nella città, con una grande messa da Requiem celebrata nell'antica chiesa di Santa Prisca, con migliaia di fiori profumati che avevano completamente coperto la bara e la tomba, si era chiuso in casa per quasi una settimana senza chiudere occhio e senza mangiare.
A Taxco de Alarcon non sarebbe assolutamente rimasto ed un mattino aveva deciso di vendere ogni cosa.
Si era recato al cimitero per baciare un'ultima volta la pietra sotto la quale giaceva la sua Marta, aveva comprato un biglietto aereo per Philadelfia contando quanto gli era rimasto di tutto il denaro che in quegli anni aveva accumulato e perduto. In tutto possedeva ancora oltre centoventimila dollari.






3

Quando era stato a Las Vegas aveva sentito parlare dei Casinò di Atlantic City nel New Jersey, lungo la costa atlantica ad un centinaio di chilometri a sud-est di Philadelfia.
Glieli avevano descritti eleganti e discreti e non così affollati e rumorosi come nella città del Nevada. A dire il vero Carlo aveva pensato più a sfuggire da quella cittadina dell'altopiano meridionale messicano, dove aveva lasciato per sempre Marta, che alla sua vecchia follia del gioco.
Era maggio inoltrato ed aveva voglia di vedere un po’ di mare. Qualche bagno lo avrebbe rimesso in sesto fisicamente ora che, senza più la sua messicana, il dolore era arrivato dal cuore al cervello ed era penetrato dentro contaminandogli ogni fibra ed ogni nucleo nervoso
All'aeroporto, non appena sbarcato dal jet di linea, si era informato in quale albergo sarebbe stato meglio soggiornare. Non voleva spendere molti soldi ed aveva scelto un Hotel di seconda categoria vicino alla spiaggia.
Dopo essersi sistemato aveva fatto un giro per la città, constatando che le case da gioco erano numerosissime e quasi tutte vicine alla zona degli alberghi ovviamente per invogliare i turisti al gioco d'azzardo.
Aveva deciso che non avrebbe giocato nemmeno dieci cents ed aveva pensato di depositare in Banca quasi tutto il denaro in suo possesso aprendo un conto corrente e ciò per evitare di portarsi dietro grosse cifre che sarebbero state una spinta notevole alla tentazione.
Aveva tenuto in tasca poche migliaia di dollari e per i primi giorni aveva frequentato assiduamente la spiaggia stando lunghe ore sulla sabbia a godersi quel caldo sole rigeneratore.
Non riusciva ad allontanare però dalla mente gli ultimi giorni di Marta. Lei gli aveva dimostrato fino all'ultimo di che tempera fosse e non solo la sua vita ma anche la sua morte erano state esemplari.
All'ultimo, quando aveva capito che la fine era giunta, gli aveva bisbigliato.
- Non piangere, amore mio, questa è la vita. Ti ho sempre amato e se devo morire, ricordami come la cosa più importante e più stupida che hai mai avuto e se puoi ogni tanto prega per me. -
Poi aveva chiuso gli occhi stanchi per sempre e le sue lunghe ciglia, come un sipario che cala, si erano appoggiate lievemente nell'immobilità della morte.






3

Chiunque, passando tra le rare panchine prospicienti Santa Maria degli Angeli, avesse dato uno sguardo pietosamente distratto a quell'uomo, disteso ed infreddolito con in mano la fotografia di una donna, sarebbe rimasto perplesso e nemmeno il più dotato di fantasia avrebbe potuto immaginare quale fosse stata la precisa causa ed il perché si fosse ridotto così.
Soprattutto nessuno avrebbe sospettato che il suo ultimo tentativo di essere un uomo normale e qualsiasi fosse miseramente naufragato, pochi mesi prima e la sua sorte necessariamente definita.
Atlantic City era stata la sua ultima possibilità come Marta era stata l'ultimo aiuto che il destino gli avesse offerto.
Lì le giornate stavano ripetendosi tutte uguali, monotone ma senza affanni e se non fosse stato per quel velo di tristezza nel ricordo di Marta, Carlo avrebbe potuto anche dirsi sufficientemente felice.
Gli pareva che il Carlo degli anni precedenti fosse morto, e con lui, la smania e la depressione fossero per sempre seppellite. Il tempo lavorava per lui con sicurezza e lentamente stava ricucendo ferite e delusioni tanto che l'unica prospettiva importante era come reinserirsi nella società in qualche modo ma in ogni caso in maniera anonima.
Una sera a cena, Carlo conobbe due italo - americani che parlavano un italiano divertente pieno di interlocuzioni dialettali meridionali. Al dessert il più giovane dei due lo invitò.
- Mr. Micoli, perché non ci fa compagnia questa notte? Noi andiamo a giocare un paio di centinaia di dollari al Casinò, qui vicino. -
- Ci hanno detto, - aggiunse con aria maliziosa - che i croupiers sono tutte donne bellissime e chissà che non ne rimorchiamo qualcuna per completare la giornata! -
Carlo dapprima rifiutò ma poi, dal momento che una noia fastidiosa stava iniziando ad opprimerlo, decise di accompagnarli più che altro per passare il tempo vedendoli giocare.
Entrarono verso le ventuno ed i due, con Carlo come spettatore, fecero il giro di diversi tavoli di Black Jack.
A mezzanotte guardandosi in faccia e strizzando gli occhi soddisfatti si rivolsero a Carlo.
- Noi abbiamo vinto ciascuno un paio di migliaia di dollari e meno male, per la Casa, che abbiamo puntato sempre basso... -
Un attimo dopo quello che si chiamava Philip disse a Carlo divertito.
- Basta, noi siamo soddisfatti per la vincita, ora cambiamo i gettoni e poi usciamo. Lei che non ha giocato è d'accordo? -
Carlo annuì e rispose.
- Certo, io non gioco per principio ma mi fa piacere per voi, Ho passato una serata divertente e poi è vero..., queste ragazze che lavorano come croupiers sono niente male e tirano su il morale anche se mi sembra che voi due siete andati in bianco con quelle ai tavoli del Black Jack. -
- A dire il vero, - affermò Philip - mi pare che la rossa le ha fatto l'occhio dolce, caro Mr. Micoli, ma lei non l'ha degnata nemmeno di uno sguardo, dico bene? -
Era stato proprio così.
Carlo elegante e distinto, asciutto ed abbronzato, con quegli occhi grigi malinconici faceva ancora colpo sulle donne, specie se giovani. La rossa ne era stata tanto affascinata, sbirciandolo, da confondersi un paio di volte nel distribuire le carte.
Mentre stavano per uscire dal locale, Philip si imbattè improvvisamente in un signore sulla cinquantina, rosso di capelli che era appena entrato.
- Oh, chi si vede! - esclamò questo porgendo la mano all'italo-americano con evidente sorpresa e piacere.
Quindi sorridendo, con l'aria di saperla lunga, domandò.
- Come vanno gli affari a New York? Avete già sfondato il muro dei dieci milioni? -
Una strizzata d'occhi convinse Carlo che i tre si conoscessero da lungo tempo mentre Philip schernendosi, disse di rimando.
- Mr. Backer, le presento un mio caro e vecchio amico, Mr. Carlo Micoli, un vero italiano. Lui non gioca mai ma se dovesse venire nel suo locale me lo tratti bene! Quanto agli affari, - soggiunse soddisfatto - i dieci milioni ancora non li abbiamo raggiunti ma il prossimo anno li supereremo sicuramente. -
Mr. Backer era il direttore del Casinò dove i due italoamericani avevano giocato e Carlo recepì che quello sapesse bene che il business di Philip era florido ed in espansione.
L'unica cosa che non aveva capito era il perché Philip e l'altro alloggiassero in un albergo di seconda categoria, ma qualche minuto dopo, quando stavano ritornandovi, lo spiegò lo stesso Philip.
- Vede, caro amico, il mondo è piccolo e mai mi sarei aspettato di incontrare qui ad Atlantic City, Mr. Baker, una mia vecchia conoscenza.
Abbiamo fatto tanto io e Charley, - proseguì sospirando - per mimetizzarci facendoci passare per gente comune, ma adesso tutta la città saprà che ad Atlantic City ci sono due fra i soci più ricchi di New York e noi, per questo, domani ce ne andremo a Miami. Non vogliamo avere, in questi pochi giorni di vacanza che ci rimangono, la fila di questuanti sulla spiaggia o peggio ancora dietro la porta della camera d'albergo. -
Carlo sorrise e nella hall li salutò augurando un buon proseguimento di vacanza a Miami.
Nelle settimane successive, per oltre tre mesi, Carlo continuò a fare vita sana alternando lunghe dormite a salutari nuotate in quel mare pulitissimo e limpido ed il tempo sembrò assecondarlo rimanendo sempre ottimo. Era diventato molto abbronzato e molte donne del Hotel lo guardavano sempre più incuriosite vedendolo tranquillo e sempre solo al tavolo del ristorante o sulla spiaggia.
Carlo, che conosceva qualcosa di inglese, comprò delle cassette di un corso pratico accelerato per imparare i primi rudimenti della lingua e si accorse che ora riusciva a spiegarsi abbastanza bene con i camerieri o quando andava a fare qualche spesa.
Un giorno di settembre inoltrato, il tempo cominciò a mettersi al brutto e mentre egli stava facendo il giro di un enorme emporio, per acquistare qualche capo d'abbigliamento, si imbatté con sorpresa con la rossa del tavolo del Black Jack.
- Do you have a good time on the beach? - domandò questa con un sorriso smagliante e provocante.
Poi con interessata curiosità chiese.
-Shall we go to dinner together?- e senza aspettare risposta lo invitò.
Carlo, che aveva capito perfettamente, accettò di buon grado anche perché gli sembrò una ghiotta occasione per far pratica d'inglese in compania di quella bella e simpatica creatura in un locale tipico americano.
Si misero d'accordo di vedersi verso le diciannove ed a quell'ora si trovarono in un piccolo ristorante texano a non più di duecento metri dal Casinò.
La ragazza di nome Margareth, durante la cena, gli spiegò che per trovare quel posto di croupier aveva dovuto superare difficili esami e che il contratto che aveva ottenuto le permetteva di guadagnare molto bene, tanto da avere in quel momento un tenore di vita molto superiore rispetto a quando lavorava a New York, in una grande ditta come segretaria per gli affari generali.
Carlo apprezzò la sicurezza di quella giovane dal viso pieno di lentiggini adornato da un piccolo naso all'insù, con un fisico snello anche se un po’ piatto e magro e pensò su quanta differenza corresse tra le ragazze italiane e quelle americane che si conquistano, solo con la propria professionalità, un posto al sole in una società difficile e dura come quella degli Stati Uniti. Fu gentilissimo con lei che se lo mangiava con gli occhi e finita la cena l'accompagnò al lavoro entrando pure lui.
Margareth gli presentò alcune colleghe portandolo nello spogliatoio dove si doveva cambiare d'abito e truccarsi.
Un paio di queste le aveva riconosciute, erano le stesse che Philip e l'altro avevano cercato di agganciare la sera che avevano giocato e vinto ai tavoli del Blac Jack.
Altre le vedeva per la prima volta, ma tutte erano veramente delle belle figliole ed assolutamente disinibite spogliandosi e vestendosi davanti a lui e ridendo, con gusto tipicamente americano, per qualche amenità che si scambiavano vicendevolmente.
Verso le venti e trenta tutta la grande sala fu affollatissima ed entrò Mr. Backer. Vide l'italiano e lo salutò calorosamente già da lontano. Poi avvicinandosi gli porse la mano ed esclamò.
- Allora vedo che ha deciso di provare la fortuna a qualche tavolo. I nostri comuni amici avevano detto, se ben ricordo, che lei non gioca...! A proposito, - continuò senza interrompersi - dove sono? Sono scomparsi come una meteora.-
Carlo che aveva capito sufficientemente le frasi scandite lentamente, per pura cortesia da Mr. Backer, si sentì preso in contropiede e replicò assumendo un atteggiamento disinvolto.
- A dire il vero ho in tasca solo cento cinquanta dollari e credo che comunque non mi farebbe credito. Per quanto riguarda i nostri amici penso che ormai da mesi siano di nuovo a New York a far soldi. -
La sorpresa di Carlo divenne enorme quando il direttore del Casinò gli disse che non c'era nessun problema. Se avesse voluto, avrebbe potuto cambiare alla cassa un suo assegno di conto corrente, liberamente fino ad un importo di cento mila dollari.
Carlo annuì e ringraziando Mr. Backer cambiò un assegno di ventimila dollari in gettoni.
La promessa che si era fatto di non giocare più era andata a farsi benedire e quella sera giocando a più tavoli vinse perlomeno cinquemila dollari. Cambiò i gettoni vinti in moneta e lasciò in cassa il proprio assegno bancario, poi quando Margareth ebbe finito il proprio turno uscirono insieme e l'accompagnò a casa, in un appartamentino alla periferia della città.
Lei gli disse di salire per bere un drink ed una volta su, mise un trentatrè giri sul giradischi, un long play di Simon and Garfunkel's. Erano canzoni melodiche americane e la ragazza, messasi in vestaglia, lo invitò a ballare dimostrandogli quanto fosse romanticamente compresa da quel tipo di musica, che dolcemente si spandeva nel piccolo soggiorno.
Carlo sentì sotto la vestaglia il corpo nudo di Margareth mentre lei, con il capo chino appoggiato sulla sua spalla, lo teneva stretto al collo con le braccia annodate in un laccio inequivocabilmente passionale.
La strinse abbracciandola e tenendole le mani delicatamente appoggiate sui fianchi.
Il corpo di Margareth era deliziosamente morbido e la sua pelle liscia sotto la stoffa sottile, tuttavia egli non provava nessuna particolare attrazione e stava incominciando a preoccuparsi per la cattiva opinione che avrebbe lasciato alla giovane americana quando quella, fermatasi, gli mise il viso di fronte e chiudendo gli occhi dischiuse le labbra in un silenzioso desideriodi essere baciata.
Carlo ebbe un attimo di tenerezza ed avvicinatala a sé la baciò, accorgendosi contemporaneamente del sapore di dentifricio della sua lingua e della sua inesperienza.
Il bacio fu lungo e Margareth riusciva a malapena a respirare mentre Carlo cominciava a sentirsi sufficientemente eccitato tanto da desiderarla.
In piedi le sciolse la vestaglia e sentì sotto le proprie dite esperte un corpo ancora da adolescente. Le baciò i seni piccoli e i capezzoli rosa e Margareh cominciò a contorcersi ed a gemere sotto l'incalzare di Carlo.
Fece l'amore come una inesperta giovanetta ma prima volle tranquillizzare Carlo sussurrandogli in un orecchio.
- Stai tranquillo sono sana e prendo la pillola. -
Egli non aveva potuto fare a meno di sorridere ed il godimento fu anche per lui completo dal momento che la vagina di Margareth era ben stretta ed elastica.
Poi dormirono insieme ed al mattino lei gli preparò un'abbondante colazione a base di prosciutto cotto e succo d'arancia.
Da quel giorno Carlo cominciò a frequentare quotidianamente sia il Casinò di Mr. Backer che la rossa americana.
Il benessere psicofisico che aveva ricostruito sulla spiaggia di Atlantic City lo manteneva in uno stato di equilibrio dinamico. Se aveva ripreso a giocare come una volta ora, però, sapeva controllarsi non rischiando mai più di quanto in precedenza si era prefisso di perdere e se continuava a frequentare il letto di Margareth, ciò avveniva per puro gusto di avere una donna senza alcuna complicazione sentimentale.
Un giorno pensò, - l'esperienza mi ha reso refrattario a qualsiasi colpo, devo sfruttarla per ricavare da essa il massimo attivo possibile prima che, invecchiando, mi ritrovi completamente rincoglionito. -
Il programma era semplice: giocare le vincite eventuali della sera precedente e non cercare mai di rifarsi rischiando del proprio o al limite rischiando solo l'un per cento di quanto aveva in banca; continuare la relazione con Margareth fino a che lei non si fosse stancata di fargli da scaldino a letto.
Tutto stava procedendo secondo i piani stabiliti quando una sera, al Casinò, Mr. Backer gli propose di fare una partita a Poker con lui ed altri tre amici in una saletta riservata.
Stabilirono che il rilancio non poteva superare il piatto e dopo la prima mezz'ora di gioco Carlo, che senza bluffare era stato assistito da una fortuna sfacciata, guardando il mucchio di gettoni che aveva davanti ritenne di essere in vincita sicuramente per più di centomila dollari.
I quattro chiacchieravano parlottando in stretto slam ed era evidente l'imbarazzo di trovarsi di fronte ad un assistito permanente della Dea Bendata.
Mezz'ora dopo, Mr. Backer si alzò dicendo che per lui bastava la perdita subita. Carlo aveva assunto un atteggiamento distaccato sentendo inequivocabilmente che quella sera avrebbe distrutto gli altri tre non più con la fortuna ma con una tecnica da perfetto giocatore di Poker. Non c'erano problemi di denaro: avrebbe stravinto e si sarebbe assicurato un avvenire roseo o male che fosse andata, si sarebbe ritirato quando avesse perduto il cinquanta per cento della vincita già acquisita.
Carlo continuò a non bluffare ed a fare un gioco pulito come dall'inizio, ma verso mezzanotte cominciò a vedere che i punti non arrivavano più che molto raramente e che poi negli scontri diretti andava sempre sotto l'avversario.
Verso l'una constatò che il mucchio di gettoni davanti si era fortemente ridotto ed a quel punto tentò un bluff dichiarandosi servito con una coppia di Re. Vinse il piatto quasi di duemila dollari, ma tre mani dopo ripetè il gioco con un tris di nove.
Fu allora che gli avversari videro il bluff e da quel momento lo martellarono con punti e bluff loro stessi tanto che Carlo cominciò a sudare visibilmente ed a congestionarsi in viso senza più prendere un piatto ed in breve si trovò completamente privo di gettoni. Pensò che in banca aveva sul proprio conto non più di trentamila dollari e fu tentato di lasciare la partita.
L'uomo che aveva alla sua destra un certo Jim Clark gli fece.
- Allora Mr. Micoli lascia o continua? -
Carlo si sentì irridere da quella montagna di grasso e senza tentennare si fece portare dal commesso centomila dollari in gettoni pari al massimo credito che Mr. Backer gli aveva garantito, facendo al grassone un gran sorriso e dicendogli.
- Continuo ma con rilancio libero, se a lei non va bene rinunci pure e si alzi. -
- Jim fece portare un mazzo di carte nuove e gli altri due smisero e si misero a guardare lo scontro diretto.
Jim fece consecutivamente due poker ed un full servito e Carlo fu in ginocchio.
Guardò l'orologio, erano le due dopo mezzanotte. Si alzò dal tavolo e si diresse verso il direttore del Casinò. Nel breve tragitto realizzò che era già sabato e le banche sarebbero state chiuse fino a lunedì.
Mr. Backer gli fece un largo sorriso e mentre Carlo tirava fuori dalla tasca dello smoking il libretto degli assegni, gli porse una splendida penna stilografica d'oro. Carlo scrisse sull'assegno la cifra che aveva perduto: centomila dollari, diede la mano al Signor Backer e si avviò fuori del Casinò.
Non appena giunse all'albergo comprò un biglietto d'aereo per il volo delle sette e trenta per Roma e contò quanto gli era rimasto.
Lunedì Mr. Backer avrebbe messo all'incasso il suo assegno e poi avrebbe avvisato la polizia.
Cambiò i cinquecento dollari, che rappresentavano il bilancio della sua esistenza, in lire e quando giunse a Roma si sentì liberato da ogni peso.





4

Ripensò alla sua vita accorgendosi di essere non solo giunto, come una volta, alla miseria più completa ma di avere probabilmente tra poco un mandato di cattura internazionale. A Roma Paolone era introvabile e non esisteva alcuna possibilità di trovare un lavoro sia lecito che illecito, né alcuno lo aiutò in nessun modo.
Vendette a Porta Portese tutti i vestiti che si era portato via nella fuga da Atlantic City comprandone uno usato ed un soprabito grigio e realizzò una piccola somma per andare avanti.
Dopo una settimana, durante la quale aveva mangiato panini e dormito in una pensioncina di quarto ordine, gli erano rimaste poco più di cinquantamila lire.
Quel giorno ebbe una idea, - mi gioco questi soldi in qualche bisca ai video poker e chissà forse mi salvo. -
Entrò nella bisca di via San Carlo come tanti anni prima.
Quella era una delle bische di Paolone ma appena entrato il ragazzotto, che tutti avevano una volta battezzato con il sopranome di “Cacciavite” e che ora era diventato un uomo piuttosto elegante, vedendolo esclamò. -
- Ma tu non sei Carlo l'amico del povero Paolone? Non sai che sei mesi fa un tizio, a cui aveva dato venti milioni in prestito, lo ha crivellato con una calibro nove ? -
Poi quasi sogghignando, osservando Carlo che aveva tradito con grande chiarezza il dispiacere per la notizia appena ricevuta, aggiunse quando quello ebbe tirato fuori dal portafoglio quell'unico biglietto da centomila che gli era avanzato.
- Ora qui il capo sono io e tu non puoi giocare. Ti conviene andartene, con le tue gambe, perché altrimenti ti faccio buttare fuori a pedate come un cane. -
Carlo capì che questi erano gli ordini dell'Organizzazione. Mai gli avrebbero permesso di frequentare le loro bische. Guardò in faccia “Cacciavite” e senza dire alcun chè uscì dalla bisca, ritrovandosi a camminare lungo il marciapiede pieno di pozzanghere di pioggia.
Quella sera ritornò presto nella pensioncina e pensò che l'indomani non avrebbe più avuto un posto nemmeno per dormire.
Cosi cominciò ad essere un frequentatore abituale della sala d'attesa della Stazione Termini dove poteva riposare per qualche ora al coperto.






5

Quando verso le sei, un brivido intenso lo svegliò raggomitolato sulla panchina, il crepuscolo stava imbiancando il cielo e la Basilica. I sampietrini tutti intorno brillavano per l'umidità del mattino ed il rumore dell'acqua della fontana di fronte a Santa Maria degli Angeli arrivava ancora pulito e nitido, non coperto dal chiasso del traffico che di lì a poco avrebbe reso assordante la piazza dell'Esedra.
Carlo si mise a sedere sulla panchina, si strinse la testa fra le mani come per far uscire dal cervello i tetri pensieri che gli si erano affacciati e dopo qualche istante si diresse alla fontana.
Le mani si immersero nell'acqua fredda ed energicamente si lavò il viso, passandosi le dita bagnate a modo di pettine per ravviarsi i capelli. L'acqua quasi congelata gli aveva fatto bene. I brividi che aveva avvertito al risveglio se ne andarono e meravigliosamente anche il mal di testa che gli opprimeva la nuca e la fronte, svanì.
Si guardò intorno e vide il BAR alla sua sinistra aperto; si raddrizzò con uno sforzo di volontà e vi si diresse.
Pagò alla cassa duemilacinquecento lire per un cappuccino e una brioche e sentì lo stomaco allentare il crampo della fame che lo faceva soffrire. Anche le mani e il viso gli si riscaldarono in quei pochi minuti che passò lì dentro. Infilò le mani nelle tasche della giacca e trovò tre monete da cinquecento lire che con il resto delle tremila facevano l'incredibile cifra di duemila lire.
Uscì sotto il porticato e si guardò intorno: una nuova giornata stava iniziando e tutto palpitava di vita. Passanti svelti si dirigevano probabilmente ognuno al proprio lavoro, le macchine e gli autobus continuavano a girare vorticosamente intorno alla fontana dirigendosi verso mete precise ed abituali.
Carlo si ricordò di quando a quell'ora attaccava il turno del mattino all'epoca in cui faceva l'autista dell'Azienda di Trasporto Cittadino ed ebbe un sospiro di rimpianto. Un attimo dopo pensò a Luisa, ed ebbe un impulso irresistibile di andarla a trovare.
Nelle settimane precedenti gli era capitato di incontrare per strada una vecchia amica di Luisa che egli aveva conosciuto al matrimonio della figlia di quella. Si erano fermati un attimo e lui aveva chiesto notizie della moglie.
La signora Adele, questo era il suo nome, sorpresa per la richiesta gli disse:
- Signor Micoli non sapevo che lei ignorasse anche l'indirizzo di sua moglie ma, - aggiunse con sguardo incredulo - se proprio vuole saperlo abita in Viale Gottardo 77 a Monte Sacro.
Lo salutò freddamente e Carlo, in quel momento con igli spiccioli che gli erano rimasti, si era ricordato di quell'incontro e dell'indirizzo. Gli sarebbe bastato prendere alla Stazione Termini il 36 e l'avrebbe potuta rivedere almeno per scambiare qualche parola con un essere vivente.
Si diresse verso Piazza dei Cinquecento e con le ultime monete comprò il biglietto dell'autobus.
Era quello il capolinea e così potè sedersi vicino al conducente.
Durante il tragitto osservò attentamente quell'uomo al volante del mezzo pubblico: indossava una giacca di pelle scura e guidava con gesti tranquilli ed automatici il grosso mezzo lungo la via Nomentana. Gli venne in mente che quell'uomo avrebbe potuto essere lui stesso se il destino avesse preso un'altra direzione. Considerato il tempo trascorso ora sarebbe stato vicino alla pensione minima ed un pezzo di pane ed un letto lo avrebbe avuto senz'altro.
Guardò a destra Villa Torlonia e le sue querce secolari altissime pensando a quanti uomini esse avevano fatto ombra durante le calde giornate estive nei tempi passati. Ora quelli erano ridotti in polvere mentre loro, immutate nel tempo, continuavano ad osservare l'umanità.
Man mano che l'autobus si avvicinava all'Aniene il desiderio di rivedere Luisa diveniva sempre più irresistibile e fantasticò sulla sorpresa che avrebbe manifestato quando le sarebbe stato davanti.
Non l'aveva vista più dalla morte di Simone, ma quell'epoca gli sembrò tanto lontana nel tempo.
Luisa in fondo gli aveva voluto bene e poi il tempo lenisce ogni asprezza e lei l'avrebbe accolto almeno con umano calore adesso che di questo sentiva tanta necessità. Certo ora esisteva il problema dell'uomo con cui Luisa conviveva, ma potevano sempre essere buoni amici e senz'altro avrebbe pensato a lui. Luisa era buona e quando l'avrebbe visto ridotto in quel modo certamente gli avrebbe dato una mano.
L'autobus si fermò a Piazza Montesacro e mentre un pallido sole filtrava attraverso le nubi, Carlo ritornò alla realtà posando i piedi sull'asfalto.
La gente al mercatino rionale era tanta e tutta indaffarata nel vendere e nel comprare. Carlo passò in mezzo a quella calca non riconoscendo e non essendo riconosciuto da nessuno, eppure quante volte era andato a fare la spesa lì, quasi ogni sabato!
Quando arrivò al portone contrassegnato dal numero 77 di Viale Gottardo si fermò ed ebbe un attimo di titubanza.
- Proprio adesso, - pensò - mi viene la tremarella e mi sento timido come un ragazzo che fa ritorno a casa dopo aver fatto sega a scuola. -
Si passò la lingua sulle labbra per inumidirle, si ravviò i capelli e senza prendere l'ascensore salì fino al terzo piano. Sperò per un breve attimo che nessuno rispondesse alla scampanellata, ma improvvisamente si trovò di fronte Luisa.
Lei sgranò gli occhi ancora molto belli, anche se il viso sembrava un po’ appassito e tra i capelli non si potevano contare più quelli bianchi, e contemporaneamente domandò esclamando.
- Tu qui! Come hai fatto a rintracciarmi e che sei venuto a fare? -
E intanto lo squadrò bene guardandolo con commiserazione dai piedi alla testa.
Carlo rimase sul pianerottolo davanti all'uscio semiaperto e tutte le parole che si era preparato per salutarla gli si soffocarono in gola, vedendo il suo sguardo freddo e distaccato ed interpretando l'ironia di quelle parole.
L'atteggiamento di Luisa era inequivocabilmente quello di chi si trova ad affrontare uno scocciatore e per giunta pezzente.
Carlo fu tentato di non rispondere per nulla e di andarsene, ma in un attimo realizzò che Luisa rappresentava per lui l'ultima spiaggia. Le sorrise amaramente e rispose con voce alquanto impastata.
- Ascoltami per qualche minuto e non giudicare, se puoi, l'uomo che hai di fronte. Per me tutto è andato alla rovescia ma ormai il passato è il passato e non si può tornare indietro. Sono venuto da te perché un giorno ci siamo amati ed abbiamo avuto due figli insieme. Perdonami e abbi pietà di questo povero Cristo! -
Luisa allora allungò la mano verso la borsetta che era appoggiata sulla cristalliera al lato della porta d'ingresso, aprì il borsellino e senza farlo entrare gli allungò un biglietto da centomila lire. Poi fece un passo indietro e gli chiuse la porta in faccia. Carlo guardò i battenti chiusi e sentì salirgli, dal profondo delle viscere, un odio profondo verso se stesso.
- Dunque è questo ciò che ho costruito nella mia vita! Dietro di me ho lasciato solo il vuoto e la morte e nemmeno una parvenza di affetto, un piccolo rimpianto ! -
Così pensando ridiscese quelle scale che aveva salito con tanta speranza.
Per tutta la giornata girovagò come un automa, con quelle centomila lire in tasca che nervosamente aveva ridotte in una palla di carta.
Camminò per le strade e per i prati della grande periferia che si estende tra l'Aniene e il Tevere avendo in ogni istante davanti lo sguardo duro e freddo di Luisa.
Quando il sole calò dietro la linea dell'orizzonte, segnata da nuvole basse e grigie con enormi pennacchi dal profilo evanescente in un cielo freddo già trapunto di stelle di un tramonto senza luna, Carlo curvo sotto il peso del soprabito grigio, si stese sui binari della linea ferroviaria Roma-Firenze che costeggia la via Salaria.
Chiuse gli occhi ed attese senza emozione di sorta che sopraggiungesse il rapido delle dicianove e quarantacinque.
La fine stava finalmente arrivando per dare pace eterna a quello spirito irrequieto ed a quel corpo malato di tutto e di niente.
Solo, come aveva vissuto, la morte l'avrebbe ghermito alla periferia della grande città. Nessuno l'indomani lo avrebbe pianto, perché a nessuno aveva mai saputo comunicare quello di cui forse era assolutamente ricco: la voglia di vivere libero e l'amore.
Si fece, come quando era bambino, il segno della croce e pensò per un attimo a Marta.
Il treno arrivò puntuale; il corpo dell'uomo sussultò vibrando un attimo prima che tutto finisse.
Poi lo stridore dei freni e le urla della gente lacerarono il silenzio della notte.
 

VETRINA