RACCONTI DISPARI E PARI (Racconti: Raccolta)
RACCONTI DISPARI E PARI
(C) ARMANDO ASCATIGNO, ELISABETTA BILEI ed ADRIANO ASCATIGNO per il "NUMBER FOURTEEN"
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Questa è un opera di fantasia.
Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.
Tutti i diritti sono riservati.
NUMBER ONE
Lentamente, quasi chiedendo scusa, la timida luce del crepuscolo fece
ingresso nella linda cameretta di Giulia attraverso la grande finestra
aperta.
Erano le cinque e trenta del primo giorno d’estate e l’ora legale anticipava
di sessanta minuti il sorgere del sole che illuminò con i suoi primi raggi il
viso della giovane, disteso ancora in un sonno rigeneratore e senza sogni.
La testa appoggiata sul candido cuscino, le lunghe ciglia di quegli occhi a
mandorla, il pallore di quella pelle diafana, presero colore non appena i
raggi ebbero il sopravvento sulla penombra della stanza e mentre il lenzuolo
verdolino non copriva più la sua nudità, assolutamente degna di una modella.
Giulia non era abituata a dormire senza infilarsi almeno un paio di mutandine
ma, la sera precedente, il caldo cocente ed afoso l’avevano spinta a levarsi
pure quelle per avere, almeno così sperava, una sensazione di fresco che il
lenzuolo in un primo momento le avrebbe procurato.
Alle sei e trenta, Giulia ebbe un sussulto provocato dalla sveglia appoggiata
sul comodino. Allungò il braccio destro e con il palmo della mano, con rabbia
repressa , spense la suoneria dell’orologio regalatole da Fabio, il ragazzo
che da otto mesi le faceva una corte spietata ma che lei accettava soltanto
per non offenderlo.
Era al suo primo lavoro e Fabio le aveva detto.
- Ti aiuterà a svegliarti, amore mio. -
Erano cinque mesi che quel arnese la soffocava e piacevolmente glielo avrebbe
rotto in testa.
Fabio faceva l’odontotecnico e guadagnava già parecchio denaro. Era nel
complesso un bel ragazzo, biondo, dagli occhi azzurri e dal sorriso
perennemente dipinto sulla bocca.
Si era diplomato sei anni prima nel ramo che aveva scelto ed aveva
venticinque anni appena compiuti mentre Giulia ne aveva soltanto diciassette
e viveva nell’appartamento di sua sorella Luisa sposata con un camionista di
Mestre, già da tre anni.
Luisa le voleva un bene dell’anima ed era la sua unica sorella. Entrambe
erano rimaste sole quando i loro genitori si erano separati quattro anni
prima.
Giulia considerava Luisa la sua vera mamma e non soltanto per l’età, essendo
questa quasi trentenne, ma soprattutto per la protezione che le aveva sempre
dato da quando il giudice dei minori l’aveva affidata alla sorella ritenendo
indegni, sia suo padre che sua madre, di badare alle sue necessità di
crescita, affettive, di educazione ed anche materiali.
Giulia frequentava la scuola serale di Ragioneria a Vittorio Veneto ma da
pochissimo tempo aveva voluto anche lavorare per non pesare troppo sul
bilancio, non certamente ricco, di suo cognato che da bravo ed onesto
lavoratore si era accollato un pesante mutuo per comprarsi casa.
Ernesto aveva insistito con lei.
- Non puoi fare due cose insieme, mia cara Giulia, non ti preoccupare che noi
tre ce la caveremo sempre. -
Era stato come se parlasse ad un muro.
Aveva trovato lavoro come aiutante parrucchiera in un salone al centro di
Vittorio e pur affaticandosi molto era tremendamente soddisfatta per quello
stipendio che le permetteva di levarsi parecchi capricci e che Luisa aveva
rifiutato di toccare.
Giulia così si poteva vestire anche elegantemente, avere e mantenere un
cellulare, pagarsi da sola la scuola privata e parificata e raramente uscire
la domenica con alcune amiche o fare qualche capatina in Cadore oppure al
mare.
La sua vita sarebbe stata molto soddisfacente se avesse avuto la possibilità
di suonare in qualche orchestra sinfonica.
Aveva frequentato fino alla separazione dei genitori il Conservatorio di
Treviso, un piccolo Conservatorio voluto dal Sindaco ed era un’ottima
interprete di sassofono tenore e contralto, quasi una artista.
Giulia amava la musica lirica e sinfonica e quella le dava una immensa
soddisfazione spirituale pur non disdegnando la musica jazz ed in particolare
la musica country.
Invece le era capitato proprio ciò che, per il momento, non desiderava
affatto.
L’odontotecnico Fabio che si era innamorato perdutamente di lei.
Se l’avesse voluto, Giulia avrebbe potuto avere un esercito di spasimanti
disposti a fare carte false per lei. Era talmente appetitosa -e se ne rendeva
conto- che sarebbe bastato un niente per portarsi a letto chiunque ma aveva
fatto un giuramento a se stessa: avrebbe dato la sua verginità soltanto a chi
avesse amato totalmente e senza remore di sorta.
L’uomo fatto per lei non lo aveva mai conosciuto.
Lo avrebbe riconosciuto subito tra mille non appena avesse annusato il suo
odore, non appena gli avesse parlato ed avesse capito quanto cervello e cuore
possedesse.
Eppure il sangue le bolliva dentro e molte volte si era vergognata per i
sogni che faceva periodicamente, specialmente subito dopo le mestruazioni,
durante i quali aveva dei veri e propri orgasmi o almeno pensava che fossero
tali.
In ogni caso , al mattino, si sentiva appagata totalmente e così durante il
giorno non gli capitava mai di avere appetiti sessuali oppure sensazioni
impazzite di erotismo.
Quante volte aveva pensato se l’orgasmo provocato dal clitoride fosse della
stessa intensità di quello causato da un amplesso profondo!
E poi, esisteva pure la paura dell’AIDS perché Giulia non avrebbe mai fatto
all’amore col preservativo.
Fabio ci aveva provato con tutte le seduzioni a lui conosciute ma tutto era
stato vano. Gli voleva bene, questo sì, tuttavia era matematicamente convinta
di non essere innamorata.
Passeggiava volentieri con lui, parlavano tanto insieme ed ognuno dei due si
confidava come fossero due fratelli bisognosi di sostenersi l’uno con
l’altra.
Fabio era un grande appassionato dello sport ed in particolare, un ottimo
tennista.
Frequentava gente importante e questo fatto aveva un ritorno economico perché
aumentavano in continuazione i clienti.
Per Giulia sarebbe stato un ottimo partito in vista di un matrimonio ma
questa ultima tentazione non le passava nemmeno lontanamente per il cervello.
A Giulia interessava essere felice e non ricca.
Le motivazioni più importanti erano quelle di riuscire ad arrivare alla
felicità sviluppando le potenzialità del suo cuore e della sua intelligenza e
questo non poteva accadere almeno che non si fosse lasciata infatuare da
tante sue amiche che ragionavano al contrario di lei in termini molto pratici
e contingenti.
Questo non sarebbe mai successo perché Giulia era speciale e non avrebbe
accettato mai e poi mai nessun compromesso.
In quel primo giorno d’estate, inaspettatamente, accadde però un fatto nuovo
che avrebbe scombussolato di parecchio la vita di Giulia.
Nel salone, con tanto di aria condizionata, verso le undici entrò una signora
elegantissima dai capelli castani che in quei mesi non era mai entrata lì
dentro e che Giulia non conosceva affatto mentre era ben nota alla titolare
del negozio.
Carla l’accolse con ogni rispetto e reverenza del tutto spropositata agli
occhi di Giulia.
- Cosa posso fare per lei?-
Chiese addirittura intimorita e facendo segno, non vista e con le mani
protese verso Giulia, di essere molto gentile con quella cliente.
- Ho la “Prima”, all’Arena, della Traviata dopodomani e sono venuta per
questo motivo da te, che mi conosci bene, da Verona questa mattina. Desidero
che tu mi faccia bellissima, con una chioma nerissima ed ondulata adatta al
personaggio di Violetta e desidero mani e dita perfette. -
- Come ti chiami ?! -
Esclamò, rivolgendosi a Giulia con un bel sorriso che mise in evidenza sia
gli occhi verdi che una perfetta dentatura.
- Sei nuova, non ti ho mai vista, tesoro, - aggiunse sicura di se stessa. -
- Mi chiamo Giulia e se ho ben capito, signora, lei dovrebbe essere il famoso
soprano Marta De Santi. -
- Sono felice di farle le mani, - proseguì la giovane piuttosto emozionata,
-deve essere sicura che nessuno al mondo potrebbe farlo meglio di me! -
Marta De Santi sopportò con pazienza il lavoro delle due donne per più di tre
ore e per passare il tempo parlò molto con tutte e due ed in particolare con
Giulia.
Alla fine diede a Giulia una ricca mancia ed un biglietto, di prima fila, per
due persone.
Disse.
- Non mancare, cara, ami la musica e se non vieni alla mia “Prima” mi offendo
moltissimo. Alla fine dello spettacolo ti voglio nel mio camerino e sarai
invitata a cena da me. Non ti preoccupare per Carla, farà a meno di te
volentieri il giorno dopo. -
Poi rivolgendosi a Carla le passò un biglietto da cinquecento euro ed
aggiunse.
- Trattamela bene questa ragazzina, ha degli occhi di fuoco ed io te
l’affido, mi informerò su di lei molto spesso e se è vero che suona il
sassofono bene come dice, sarà mia premura aiutarla a studiare quel difficile
strumento e tu dovrai darle tutto il tempo necessario per frequentare il
Conservatorio. -
- Sarà mio dovere pagarti i permessi che lei ti chiederà e la ragazza dovrà
mantenere questo posto. -
Carla le promise la propria protezione nei confronti di Giulia e senza
aggiungere altro baciò sulle guance il famoso soprano.
Giulia uscì dal salone sentendosi letteralmente come un uccellino ubriaco di
felicità.
Il suo non era un passo normale. Le pareva di volare e le gambe ed i piedi
volteggiavano sull’asfalto caldo come se fosse impegnata in una danza veloce,
tanto veloce che si trovò in un attimo sotto la casa della sorella essendosi
completamente scordata dell’appuntamento che aveva preso con Fabio per le
ventuno sotto i portici vicino alla stazione ferroviaria.
Aprì il portone e salì le scale a due per volta.
Davanti alla porta dell’appartamento si ricordò di Fabio, guardò l’orologio
da polso e vide le lancette che segnavano senza equivoci le venti e cinquanta
minuti.
In un attimo pensò di correre da Fabio ma subito dopo decise di non recarsi
all’appuntamento poiché aveva assoluto bisogno di buttarsi sotto la doccia e
di sdraiarsi, subito dopo, sul proprio letto a riflettere su quanto le fosse
capitato in quella strana giornata del ventuno giugno.
Non aveva appetito ma soltanto una grande sete e così, dopo aver stappato una
bottiglia di aranciata presa dal frigorifero, si buttò inerme sul lenzuolo
verdolino ancora spiegazzato dal mattino.
L’unica cosa che ebbe la forza di fare fu quella di telefonare al cellulare
di Fabio scusandosi con lui e raccontandogli la prima balla che le era
passata per la mente.
Sua sorella le avrebbe telefonato al negozio per dirle di correre a casa
perché non si sentiva bene.
In realtà Luisa le aveva sì telefonato ma per dirle di non preoccuparsi per
lei che avrebbe fatto molto tardi e che prevedeva di tornare a casa dopo
l’una di notte.
Luisa lavorava in un Pub normalmente fino alle ventidue ma alcune volte era
costretta a prolungare il lavoro ben oltre la mezzanotte e questo era il
motivo per cui da alcuni mesi la vedeva raramente di mattina e ciò era
capitato da quando Giulia aveva iniziato a lavorare.
Ernesto poi era quasi un fantasma.
Molto spesso rimaneva fuori da Vittorio Veneto per intere settimane portando
i TIR della Ditta in giro per l’Europa e questo avveniva anche d’inverno con
qualsiasi tempo.
Giulia era molto affezionata a suo cognato perché Ernesto era veramente un
uomo degno di rispetto e la coccolava, quando rimaneva per alcuni giorni a
Vittorio, con tenerezza quasi volesse far sentire a Giulia quel amore
familiare che le era tanto mancato in un periodo così delicato della sua vita
di adolescente.
Giulia distesa sul suo letto cominciò a sentirsi rilasciata.
Dopo una mezzora di sedette sul letto, prese il telefono e volle comunicare
subito a Luisa tutte le novità della giornata.
- Te l’avevo detto che noi dello Scorpione avremmo avuto un’estate colma di
piacevoli sorprese. Andrò dopodomani a Verona. Ho un invito personalizzato,
in prima fila per due persone all’Arena per la Traviata, offertomi
personalmente dalla protagonista dell’opera di Verdi il grande soprano Marta
de Santi. E’ stata molto carina con me e mi ha promesso di portarmi a cena
dopo la “Prima” ed in più che avrebbe fatto in modo che io potessi continuare
a perfezionarmi al sassofono raccomandandosi con la signora Carla di darmi
tutto lo spazio temporale di cui avessi bisogno. -
- Sono diventata una raccomandata di ferro e ciò non inciderà sul mio
stipendio perché Carla sarà ricompensata direttamente da lei, se me lo
merito! -
- Andrò a Verona o con te -e ciò sarebbe il mio sogno- oppure mi farò
accompagnare da Fabio! -
Fu impossibile per Luisa liberarsi del lavoro al Pub, anzi la implorarono se
avesse potuto rimanere fino alle due di notte per tutta la settimana con paga
raddoppiata.
Così a Giulia non rimase altro che chiedere a Fabio se egli avesse avuto
piacere di accompagnarla.
A Fabio non parve vero che Giulia lo pregasse per una cosa del genere e le
rispose che per lui sarebbe stato un onore esserle vicino anche se non gli
interessava affatto la musica lirica come Giulia ben sapeva.
Sarebbero partiti per Verona alle sedici con la sua Alfa 147 e sarebbero
tornati al mattino seguente con comodo a Vittorio Veneto dopo lo spettacolo
all’Arena e la cena con gli amici ed i giornalisti della famosa cantante.
Era scontato che non l’avrebbe lasciata sola e che la signora Marta De Santi
avrebbe dovuto invitare anche lui per il dopo “Prima”.
Giulia trovò in un negozio del centro un vestito adatto per l’occasione.
Non si trattava di un vestito da sera ma era ugualmente un incanto indossato
da Giulia, sufficientemente scollato e corto, fin sopra le ginocchia, di un
magnifico color rosa-pastello che mettevano in risalto il viso della ragazza
e la sua elegante silhouette.
Per questo e per un paio di scarpe nuove, spese un vero capitale raffrontato
alle sue finanze.
Giulia accettò da Fabio un profumo per il quale impazziva da sempre:il
Mitsouko di Guerlain che egli le aveva promesso per il suo diciottesimo
compleanno ed indossò, ringraziando la sorella che glielo aveva imprestato,
il girocollo d’oro bianco con un piccolo smeraldo pendente, regalo del marito
per il primo anniversario del loro riuscito matrimonio.
Quella serata a Verona fu per Giulia un inno alla felicità dell’anima ed un
fiotto di ossigeno per il suo cuore, a parte le lacrime versate copiosamente
nell’ultimo atto per la straziante morte di Violetta.
Marta De Santi e l’orchestra diretta magistralmente da un giovane emergente
ebbero un tripudio di applausi, ma tutto il Cast trionfò in quella magnifica
“Prima”, balletto e coro compresi.
Alla fine, asciugatasi gli occhi che giudiziosamente non aveva truccato, ebbe
il pass per il camerino del soprano colmo di rose.
Marta la riconobbe e la baciò soddisfatta che la sua protetta fosse venuta ad
onorarla.
Giulia le aveva portato un minuscolo mazzolino di rose bianche che lei prese
come si trattasse di una corona di alloro ed infine tutti furono accompagnati
in una grande villa fuori Verona per una cena a base di pesce, aragoste,
gamberi e caviale con abbondante champagne di annata.
Marta presentò Giulia a parecchie persone ed in particolare al direttore del
Conservatorio di Venezia, suo caro amico.
Gli parlò a lungo di Giulia e la sua raccomandazione ebbe l’effetto voluto
dal soprano: Giulia avrebbe avuto un’audizione a Venezia e se tutto fosse
andato per il verso giusto avrebbe potuto frequentare con una borsa di studio
il Conservatorio.
Fabio assistette muto a tutta quella festa. Si rese conto che non avrebbe più
potuto stare, come prima, vicino a Giulia e capì che forse l’avrebbe persa
per sempre.
NUMBER TWO
Erano le 7:29 ed in casa Ponente la sveglia tra un minuto avrebbe vestito
tutti, dopo la nudità della notte, delle loro maschere sociali.
Lorenzo era assopito sulla scrivania dello studio con la testa poggiata su un
cumulo sparso di fogli.
Si levò faticosamente in piedi, anticipando la sveglia e riassestando la
schiena spezzata ed affaticata dalla scomoda sedia.
Pochi attimi dopo, l’orologio prepotente iniziò a tintinnare petulante e
fastidiosamente, mentre la moglie Cristina già sbraitava isterica verso Laura
e Michele, i loro figli, non intenzionati ad alzarsi.
Vinto dalla madre, Michele si alzò sbuffando drogato dalle insopportabili
urla materne.
Si vestì con i primi abiti che gli capitarono a tiro, agitò con una mano i
capelli arruffati, sbadigliando prese le chiavi del motorino e si avviò verso
l’officina dove lavorava.
Laura era invece ancora comodamente distesa sul materasso.
Lorenzo le si avvicinò dolcemente e la supplicò di alzarsi prima di dover
subire nuovamente le ire di Cristina. La ragazza sbottò e si mise di fronte
all’armadio, ancora in dormiveglia, per cercare qualcosa di adeguato da
mettersi.
Per lei quello sarebbe stato un grande giorno: doveva infatti affrontare un
provino per un’importante scuola di recitazione.
Lorenzo andò in cucina e preparò il caffè da portare a Laura, ma per il
corridoio il liquido color pece si scontrò con la camicetta di Cristina,
innervosendola ulteriormente.
Stanco ormai dell’inutilità di sua moglie, Lorenzo si ritirò con un gesto di
stizza in cucina, a preparare un nuovo caffè per l’amata figlia.
In testa gli echeggiavano ancora le parole di Laura.
“Per me recitare è sentirmi viva. Adoro avvertire gli sguardi del pubblico
addosso, mi piace mascherarmi e camuffare la mia misera realtà e vivere
esistenze altrui. Recito per entrare nella mente di un criminale, per
indossare la pelle di un’anziana. Per me è importante entrare in quella
scuola. Mi capisci, papà?”
E lui, come avrebbe potuto non capirla? Lui che aveva dedicato la sua vita
all’arte, che amava la musica, la pittura, la scultura e tutto ciò che era
creatività!
Era un prestigioso docente ed amava gli occhi inebriati dei suoi allievi
quando udivano le sue parole così appassionate.
Quelli provavano la stessa emozione che provava lui da giovane. Ed anche,
nelle iridi di Laura, Lorenzo vedeva la stessa concitazione e lo stesso
amore.
Solo Cristina non capiva. Lei non poteva capire. Lei aveva cercato di
spegnere il fuoco di Lorenzo, aveva calpestato le sue ambizioni.
Cristina era un ottimo avvocato, dalla personalità apatica e concisa,
assolutamente inespressiva.
E se non fosse stato per la famiglia avrebbe già fatto successo in uno studio
associato di New York.
“Dannati figli e dannato pure tu!”
Queste erano le parole che urlava spesso a Lorenzo nei litigi furiosi di un
tempo.
Ultimamente non litigavano più: mancavano la forza e la voglia per discutere
in un rapporto nel quale la rassegnazione aveva preso piede, l’abitudine
regnava sovrana e l’amore chissà da quanto tempo era morto.
Il freddo bacio rituale di Cristina lo riportò alla realtà.
“Sono già in ritardo e tu stai qui come un pezzente con una tazzina di caffè
in mano?!? Almeno potevi portarmelo mentre mi preparavo!”
Prima che Lorenzo potesse dire qualcosa, Cristina aveva già finito di
sorseggiare, decisa, l’espresso e stava uscendo di casa.
“Ma era stato sempre tutto così?” si chiese Lorenzo.
Lorenzo prese la macchina ed accompagnò sorridente la figlia fino all’entrata
della scuola e dopo un forte abbraccio ed un deciso “in bocca al lupo”, si
diresse verso la paraplegia metropolitana.
Giunto all’Università, prima di scendere dalla macchina e mentre dalla radio
usciva la voce di Mina, il Professore Ponente istintivamente fece un gesto
che generalmente detestava: si guardò allo specchio.
Rimase a fissarsi per qualche etereo momento e scorse il ricordo dei folti
capelli neri, ormai schiariti dal tempo. Scese rapidamente dalla macchina e,
scacciando con vigore la nostalgia, radunò gli appunti ed entrò in aula.
Approdato con passo felpato a destinazione incontrò il suo assistente
Claudio, che lo accolse sorridente e loquace.
Claudio era stato in passato un ottimo studente di Lorenzo e vista la sua
spiccata attitudine per l’arte e la stima reciproca che legava i due, Lorenzo
decise di prenderlo sotto la sua supervisione come Aiuto.
Claudio era divenuto, con il passare degli anni, un prestigioso critico
d’arte riconosciuto a livello europeo e Lorenzo era davvero orgoglioso
dell’operato del suo protetto. Si sentiva in parte meritevole di lode per
l’ottimo insegnamento e le possibilità dategli e non conosceva sentimenti di
competizione con lui.
Claudio stimava il suo Professore, era rispettoso nei suoi confronti, sempre
garbato, puntuale e desideroso di apprendere ciò che ancora Lorenzo poteva
offrirgli.
Tra i due c’era un forte legame quasi familiare, a compensare - pensò
Lorenzo- la cialtroneria e l’arroganza del figlio Michele.
L’infinita parlantina di Claudio si arrestò bruscamente con alcune domande
che attendevano risposta: “Professore, scusi se mi permetto, ma sta bene? Ha
una brutta cera. E’ felice?”
Lorenzo lo guardò con occhi privi di vita e disse arrendevole: “Sto.”
Gli studenti avevano preso posto in aula ed attendevano l’inizio della
lezione.
Lorenzo iniziò la lezione preparata nella notte, mentre si chiedeva “Sono
felice?”
Mancavano venti minuti alla fine della dialettica lezione, quando
un’ausiliaria entrò rapidamente nella stanza ed informò Lorenzo che sua
figlia lo attendeva impaziente.
La intravide e si diresse verso quella allegria contagiosa.
Laura lo abbracciò gaia e gli comunicò con solarità di essere entrata nella
prestigiosa scuola di recitazione. Gli studenti guardavano la sua bambina con
occhio maschile e lui si rese conto che la sua Laura era cresciuta.
Una volta, quando gli dicevano che sua figlia era molto bella, Lorenzo era
solo un papà orgoglioso. Ora invece se ne preoccupava, perché ormai lei era
una donna completamente autonoma e libera in una città come Roma.
Lorenzo fu tuttavia pervaso da un senso di felicità immenso per la figlia e
per il suo successo; era l’inizio di una promettente carriera, nonostante i
sacrifici e le porte sbattute in faccia in cui sarebbe necessariamente dovuta
imbattersi.
Ma lei aveva talento. Lorenzo l’aveva sbirciata mentre studiava una commedia
di Oscar Wilde e lui si era commosso per la sua interpretazione. Era
bellissima. Era brava. Ma soprattutto era sua figlia.
Uscirono a passeggiare e si ritrovarono a respirare un po’ di verde; lei non
si era mai vergognata, neanche durante l’età dell’adolescenza, di passeggiare
con lui e l’uomo ne era davvero felice.
Lei era la proiezione di tutti i suoi sogni ed era la figlia migliore che
potesse mai avere.
Laura, un po’ rattristata, mormorò: “Mamma vive sempre con distacco la nostra
vita, come se non le appartenessimo.
Perché l’hai sposata?”
Lorenzo l’abbracciò e la rassicurò: “Tua madre ci ama moltissimo, è solo che
ha un modo insolito di dimostrarlo.”
“Papà, guarda in faccia la realtà. Lei non ha un modo inusuale di dimostrare
affetto, lei non lo dimostra e basta.”
Lorenzo tergiversò e chiese a Laura di raccontarle dell’audizione e delle
prospettive future.
Lei iniziò a chiacchierare con solare loquacità fingendo di dimenticare il
discorso precedente. All’improvviso però la giovane s’interruppe e disse:
“Che tardi! Ho un appuntamento con le mie nuove compagne di corso: usciamo
per una pizza per conoscerci meglio. Non aspettarmi sveglio, torno tardi.”
E, spalmandogli un bacio sulla guancia, la morbida ombra di Laura si inabissò
dietro l’angolo, di fronte gli occhi del padre.
Camminando verso casa con le luci crepuscolari in fronte, gli ritornò alla
mente la frase di sua figlia: “Perché l’hai sposata?”
Quando Lorenzo aprì la porta di casa vide Michele stravaccato che bivaccava
sul divano in pelle mentre Cristina mugugnò qualcosa verso il marito.
Lui la ignorò, prese pochi arnesi per apparecchiare la tavola e si sedette
solo.
La Signora Ponente non poteva sedersi col marito perché ciò era contro la sua
idea di dieta, ma intanto sbocconcellava gelato immersa nel freezer, nella
speranza di non essere scoperta.
Michele la rimproverò e lei avviò l’aria condizionata, si sedette sul sofà,
accese la televisione ed annoiata sfogliò una rivista.
Lorenzo intanto pensava a quelle due creature che di familiare avevano ben
poco: nessuno gli aveva chiesto come fosse trascorsa la giornata e,
avvenimento ancor più grave, nessuno si era preoccupato di Laura.
Cristina dalla nascita di Laura non aveva fatto altro che, bonariamente,
invidiarla.
Quella era una delle attitudini a cui sapeva meglio dedicarsi.
Il matrimonio sembrava essere caduto in frantumi dopo la nascita di Laura.
Lorenzo si dedicava alla piccolina, anima e corpo, senza farle mancare nulla
mentre in Cristina crescevano il risentimento e la gelosia, sempre covate e
mai espresse, tanto da decidere di non allattarla.
Michele invece era superficialmente menefreghista. Era suo figlio, eppure
Lorenzo non conosceva Michele.
Era sicuramente un bel ragazzo, e poi?
Nei pensieri di Lorenzo fece eco la chiave nella toppa che girava, simbolo
del rientro di Laura.
Lorenzo diede la buonanotte ed andò a coricarsi con il suo libro preferito.
All’arrivo di Cristina lui era sprofondato in una meditabonda lettura; lei si
gettò sul letto tentando di dargli qualche scapaccione e con le lacrime che
le rigavano il volto da perenne vittima, esclamò : “Mi conosci? Mi hai mai
amata?”
Lui non tentò di calmarla, ma rispose freddo: “L’amore c’era, ma non ricordo
quando.”
Lei si girò e smise di piangere. Lui le avvicinò un amorevole mano sulla
spalla che lei inizialmente respinse con rabbia, ma poi cercò.
Fecero sesso, e Lorenzo pensò: “Dov’è l’amore?”
NUMBER THREE
Non mi era mai capitato di partecipare ad un invito per un matrimonio
fantasma simile e questo avvenne, su proposta di un mio caro collega ed amico
a Taormina, tra il mare limpido e trasparente ed il massiccio imponente
dell’Etna, tranquillo ed aspro, in quel periodo, alla fine di maggio del
2004.
Il vulcano stava lì in silenzio, solenne ma sempre minaccioso, con le sue
bocche eruttive dormienti e tutto pareva, meno che facesse da contorno
silenzioso agli eventi attorno a lui.
Doveva convolare a nozze la nipote di Salvatore, la sua prima nipote figlia
di sua sorella Rosaria, una ragazza di ventiquattro anni talmente carina,
intelligente e modesta che era diventata, dal tempo che era una semplice
matricola diciottenne e che era arrivata piena di entusiasmo a Roma
appoggiandosi teoricamente agli zii, la cocca di mia moglie Anna.
Costei, col suo carattere dolce ed affabile e la sua innata tenerezza era il
maggior premio che avevo avuto dalla vita e non avendo avuto figlie femmine
ma soltanto un maschiaccio, si era letteralmente appassionata a quella
giovane siciliana.
Silvia si era iscritta nel 1998 alla “Sapienza” e frequentava nella Città
Eterna, dove risiediamo e dove io lavoro, la Facoltà di Giurisprudenza.
Salvatore l’aveva portata tante volte a casa nostra e per mia moglie era
diventata una di famiglia, forse nella speranza che quella moretta tutto pepe
e simpatia facesse lega con nostro figlio, Gianluca.
Diciotto anni compiuti da quattro mesi, era stata ammessa in Facoltà per i
suoi voti ed il giudizio finale di sessanta all’esame di Maturità classica.
Alta un metro e sessantasette, cinquanta chili appena superati, magrolina di
gambe e di cosce, aveva un seno ed un sederino prorompente ed una bocca
carnosa a cuoricino oltre che dei grandi occhi neri incorniciati da
lunghissime ciglia.
Più che una studentessa universitaria pareva una liceale degli ultimi anni.
Ma ciò che stupiva maggiormente, in particolare per chi la osservasse con
attenzione, era il suo pallido incarnato tanto che mia moglie, appena l’ ebbe
vista per la prima volta, mi disse.
- Dobbiamo invitarla spesso a mangiare da noi perché ho l’impressione che
Silvia sia un tantino anemica ed io le preparerò delle grosse bistecche al
sangue e tanti spinaci e verdura come contorno. -
Sapevo che Anna, quando si metteva in testa un’idea non l’abbandonava
facilmente e soprattutto per il quieto vivere della mia famiglia, già
sull’orlo di un esaurimento nervoso globale per colpa della maxi-moto di
Gianluca il quale- tra l’altro- si era convinto di tentare l’esame
all’Accademia Aeronautica per diventare pilota di Caccia da combattimento, la
volli accontentare e paternamente dissi a Silvia con un gran sorriso.
- So da tuo zio che ti arrangi a cena al massimo con qualche pizza. Dal
momento che Salvatore abita lontano dall’Università, nei pressi della quale
tu hai una stanzetta ed io invece ho l’appartamento a piazza Bologna, quindi
a due passi per modo di dire da Viale Regina Margherita, sarebbe il caso che
tu venissi molto spesso a cena da noi. Spero che questa idea sia di tuo
gradimento anche perché io e Salvatore siamo come due fratelli e quindi non
devi farti scrupoli di sorta. -
Silvia sgranò gli occhi dal colore carbone, si diresse verso Anna e le
schioccò un gran bacio sulla guancia.
- Lei e suo marito siete delle persone splendide, direi deliziose ed io sarò
felice di venire un paio di volte alla settimana a cena da voi. -
Poi, aggiunse, - non ho un ragazzo con il quale passare il poco tempo libero
dallo studio ma soltanto qualche collega di Università con i quali si finisce
sempre di parlare di esami. -
Sbirciò Gianluca arrossendo.
Quello era appena rientrato a casa, portandosi appresso il suo casco di
ultimissima generazione che aveva acquistato per le suppliche di mia moglie.
Sua madre se lo mangiava con gli occhi pensando già a quando avesse indossato
la divisa di Cadetto dell’Accademia.
Era già bello così, atletico e con i capelli castani tagliati a spazzola, ma
sarebbe diventato come Tom Cruise tra un paio di anni, nel suo immaginario
materno.
Gianluca aveva venti anni, un anno e mezzo più di Silvia ed Anna pensò, che
se si fosse messo con la nipote siciliana di Salvatore, avrebbe potuto
sposarla non prima di ventisette anni, soltanto dopo aver ottenuto tutti i
brevetti di volo per le varie specializzazioni che avrebbe ottenuto
certamente negli Stati Uniti ed in Inghilterra.
Gianluca, in quel frangente, degnò di un breve sguardo Silvia e trasformò il
rossore della ragazza in un pallore più intenso di quello suo naturale ma
ugualmente le disse.
-Vuoi venire, dopo cena, con me sulla mia moto? Ho un altro casco per te. Ti
porterò in giro per Roma e vedrai cose che nemmeno immagini tanto sono
stupende. -
Silvia scosse la testa e rispose che non se la sentiva.
Cenammo tutti insieme e facemmo onore al cibo di Anna felice di aver fatto
mangiare, a modo suo, Silvia.
Io non l’avrei mai immaginato ma da quel momento, seppi poi, che Gianluca e
Silvia avevano fatto coppia fissa e segretamente avevano avuto una storia
d’amore intensa e completa con Gianluca prepotentemente padrone assoluto
della ragazza, fino a quando non potette più frequentarla a causa
dell’Accademia.
Silvia si sprofondò sui sacri testi di Diritto ed un esame dopo l’altro
arrivò alla Laurea col massimo dei voti e con Lode.
Si era presa il titolo di dottoressa in Giurisprudenza nel novembre del 2003
mentre Gianluca si trovava nel Colorado nella più prestigiosa scuola da
guerra per i futuri TOP GUN.
Silvia piangeva quotidianamente per il suo grande amore svanito tanto lontano
da lei ma spinta dalla insistenza dei genitori si promise ad un vecchio amico
di Catania, che conosceva da sempre, ricco commerciante della zona.
Gli voleva bene ma era lontanissima dall’amore che aveva provato e che ancora
le bruciava nel cuore per Gianluca.
Io e mia moglie Anna, piuttosto triste per quelle nozze di Silvia, eravamo in
Sicilia già da una settimana ma in realtà per passare una vacanza al mare di
Taormina e per fare i primi bagni di stagione quando, in un pomeriggio
inoltrato, Silvia spuntò come una fata nella Hall dell’albergo a quattro
stelle dove ci eravamo sistemati.
Ci venne a trovare nella nostra spaziosa camera.
- Mia cara Anna, -mormorò con voce supplichevole, -sono qui per chiederti
consiglio. Non voglio sposarmi con il mio fidanzato tra sei giorni. Non lo
posso fare se voglio guardarmi allo specchio senza vergognarmi. Amo
perdutamente tuo figlio Gianluca e non sarò mai felice senza di lui! -
Anna prese le mani di Silvia. Erano madide di sudore e lei pareva più fragile
ed ancora maggiormente pallida di quanto lo fosse solitamente.
- Piccola mia, -rispose dolcemente accarezzandola, -adesso telefoniamo a
Gianluca. In Colorado sono le undici e mezza di mattino e Gianluca ed i suoi
colleghi hanno la pausa per il pranzo. Speriamo di essere fortunate e che
Gianluca risponda! -
In pochi secondi il contatto telefonico avvenne ed Anna raccontò al figlio
tutto quanto, un minuto prima, le aveva confessato Silvia.
.-Mamma cara , passamela per favore -esclamò d’un fiato.
.- Silvia, mio piccolo passerotto, anche io ti amo tanto e molto di più di
quando stavamo insieme a Roma. Non devi sposare quel uomo. Io sarò dopodomani
in Sicilia e parlerò con lui. Tu adesso devi rimanere con mia madre e mio
padre e non te ne importare affatto di quello che la gente potrebbe dire di
te! Tu sei l’unica donna che conta nella mia vita, arrivederci, Tesoro mio! -
Al secondo telefono della camera, collegato col primo, Anna sentì tutto
quanto Gianluca aveva detto a Silvia ed aveva sorriso.
Padre Pio le aveva fatto la grazia. Ora sapeva che il suo cuore di mamma era
stato accontentato e che il suo amatissimo figliolo avrebbe infine sposato
Silvia.
La promessa sposa sparì da quel momento nei confronti dei suoi parenti e di
tutti gli amici ed invitati. Si transennò nella camera di Anna, felice ed
ubriaca di dolcezza, dormendo sul terzo lettino.
Io ero rimasto di stucco ma in cuor mio ero soddisfatto per quel mio figlio,
quello scapestrato di figlio, che aveva deciso per mettere ordine nella sua
vita.
Sarei andato io soltanto ad attenderlo di ritorno dall’America ed avremmo
parlato come se fossimo soltanto due amici.
Ci volle poco perché ci capissimo al volo.
Gianluca ora tenente pilota dell’Aviazione militare era diventato, lontano da
me e da sua madre, il miglior pilota della Scuola di volo ed aveva messo la
testa apposto.
Gli mancava soltanto Silvia per essere l’uomo più felice del mondo e
l’avrebbe portata in America per sposarla subito, senza eccessive formalità e
di ciò aveva già parlato con i propri superiori che a lui, il più speciale ed
abile pilota degli F16, non avrebbero potuto negargli nulla.
Egli e Silvia sarebbero andati, poi per un anno, in Gran Bretagna perché in
quella Nazione sarebbe diventato caposquadriglia anche dei Tornado.
Gianluca si presentò a Silvia nella divisa di tenente pilota e quella sparì
letteralmente tra le sue braccia forti ed allo stesso tempo morbide.
Senza guardarsi in viso egli le bisbigliò tante parole dolcissime ed allo
stesso tempo ferme.
Le chiese in ginocchio se volesse diventare sua moglie e le consegnò, schivo,
un brillante di un carato incastonato in un anelo di platino.
Io ed Anna non avevamo mai visto piangere una ragazza a quel modo, tra il
silenzio e tra i singhiozzi impossibili a frenare.
L’invito di Salvatore era stato proficuo, salutare per tutti noi e
decisamente strano.
Mia moglie era la donna più felice del mondo e baciò quei due figli con tutto
l’amore possibile per una mamma, che aveva sempre vissuto per la felicità di
tutti noi.
Un anno e mezzo dopo ero diventato nonno ed Anna la baby-sitter della sua
nipotina, di nome Alessandra.
Silvia doveva fare il concorso e l’esame per diventare Avvocato e Gianluca,
ormai capitano, faceva l’istruttore a Gioia del Colle per il volo notturno ai
piloti di primo pelo.
Appena aveva due giorni liberi correva a Roma da Silvia e da Alessandra che,
nutrita e svezzata da mia moglie, era un bambolotto che tutti i conoscenti ci
invidiavano.
Alcuni, che non sapevano nulla di quella bambina chiedevano a mia moglie-
ancora molto giovane- quando avesse partorito e quando lei rispondeva che la
piccola era sua nipote, ognuno si complimentava per come Anna fosse stata
brava nel darle le pappe e fare di quel angelo la più bella pupa del
quartiere.
Silvia era una mamma fatiscente, in quel periodo assai impegnativo per lei,
anche se rubava le ore al sonno per starle vicina almeno di notte.
Un giorno Anna le dissi.
-Tesoro mio, diventa avvocato e non ti preoccupare per tua figlia, al momento
ci sono io che ti faccio da sostituta. Avrai tutta la vita per dedicarti a
lei. Adesso fammela godere e tu sai che è in buone mani. -
- Mia cara Anna, tu sei per me colei a cui devo tutto e quindi capisci bene
che io sono tranquillissima di avertela affidata per tutto questo tempo. -
- Sei una nonna perfetta ed io e Gianluca avremo sempre un enorme debito nei
tuoi riguardi. Ti voglio tanto bene e per me sei una seconda mamma.-
Le vidi baciarsi ed abbracciarsi l’un l’altra con tenerezza e subito dopo
Silvia scendere la scale di casa di fretta e di corsa.
Mi affacciai al balcone e seguii il passo svelto di mia nuora per prendere
l’autobus mentre sopraggiungeva a velocità folle una pantera della polizia a
sirene spiegate.
L’appuntato al volante vide Silvia in mezzo alla strada ma non riuscì ad
evitarla.
Il cuore mi si strinse in una morsa atroce quando capii che era morta sul
colpo, povera figlia mia, lasciandoci però una cosa preziosa del suo DNA :
Alessandra.
Al suo funerale il più coraggioso si dimostrò Gianluca pur avendo il cuore
straziato dal dolore.
Si rivolse ad Anna e semplicemente sospirò.
-Mamma cara, ti affido Alessandra ben sapendo che la ami tanto, forse con
maggiore intensità di me. -
.-Io non dimenticherò mai Silvia ma almeno so con certezza che questo fiore
di bambina crescerà con tutto quel amore e tenerezza che mia moglie non ha
potuto darle. Tu sarai la sua nuova madre e la saprai accudire e proteggere
mille volte meglio di quanto saprei fare io. La mia presenza sarà sempre
continua così lei potrà sentire, una volta meno bambina ed un po’ più matura,
dalla mia bocca quanto ho amato la sua mammina e come un grande amore possa
essere fonte di immense gioie ma anche di tremendi dolori. -
La marcia funebre, il secondo tempo della terza di Beethoven, accompagnò in
cielo l’anima pia di Silvia e con quella portò via un pezzo infinitamente
importante della mia vita.
NUMBER FOUR
Carlo aveva corso inutilmente verso un autobus troppo lontano ed ora, sudato
ed in ritardo all’appuntamento con Eva, si dirigeva verso la sua Alfa, dal
colore amaranto che difficilmente lavava.
Eva era una ragazza semplice e volgare, fantasiosa a letto ed indecifrabile
nella vita, in grado di stimolarlo come la sua Anna non era più in grado di
fare da troppo tempo.
L’aveva conosciuta in una festa di addio al celibato per Cristiano, suo amico
e collega di lavoro.
Aveva un bel fisico asciutto ma ciò che l’aveva colpito di più era quel viso
stanco, quasi vecchio ed esteticamente in contrasto rispetto al corpo ed in
contrasto anche con quelli occhi grandi, dallo sguardo triste.
Tra le tante bellissime ragazze pagate per quella serata lei era l’unica che
tutti evitavano. Tutti tranne Carlo.
Qualcosa di lei lo aveva affascinato.
Eva si muoveva sinuosamente, con movimenti lenti ed erotici da sballo e
nell’allegria generale era divenuto quasi simpatico quel suo viso così in
contrasto rispetto alla sua silhouette.
La ragazza era lusingata dagli sguardi di Carlo e si lasciò travolgere da un
improvviso desiderio, identico a quello dell’uomo.
Fecero sesso lungo una siepe e lui si sentì finalmente soddisfatto e pervaso
da un forte piacere.
Mentre Carlo si rivestiva in fretta sperò che quella prestazione non fosse
troppo cara.
Non si vergognò a urinare accanto al luogo dove aveva appena fatto quanto la
ragazza gli aveva proposto.
Poi, le chiese: “Quanto costa questo servizio completo ?”
Lei, rispose: “Offerta libera”.
Lui le diede cento euro. Eva prese il biglietto verde e vi scrisse sopra il
suo indirizzo e glielo restituì.
Lui la guardò sbigottito e prima che potesse emettere qualsiasi suono, lei
disse pacata: “Alla prossima.” Carlo si allontanò sistemandosi i pantaloni e
pensando: “Non la rivedrò mai più.”
Non immaginava quanto si stava sbagliando.
La noia e la stanchezza si fecero sentire nel susseguirsi dei giorni e,
ritenendo Anna sempre la solita sofisticata e banale, Carlo riprese in mano
la banconota e si diresse da Eva.
Era ormai trascorso un anno dal fortuito incontro con Eva e lei era stata
sempre in grado di mantenere vivi in Carlo lo stimolo, l’attenzione ed il
desiderio.
Ogni volta che l’uomo si presentava nell’avvilente catapecchia dove viveva la
giovane, il suo istinto maschile prendeva il sopravvento contro qualsiasi
razionalità. Al termine di ogni incontro prometteva a se stesso che sarebbe
stata l’ultima volta e che quella strega non sarebbe mai più riuscita a
sedurlo. Ma lei non era una strega e Carlo lo sapeva.
Lei era solo una donna sfortunata ed innamorata: da quando lui aveva scosso
la sua vita, Eva non faceva più la puttana con nessun altro. Inoltre Carlo
aveva scoperto sotto un cuscino una busta con tutti i soldi che le aveva
lasciato dopo ogni incontro. Non mancava neanche un centesimo.
Ma era giunto il momento di chiudere questa scomoda ma intrigante relazione.
Stavolta non poteva più rischiare.
Anna era divenuta sospettosa e lui le aveva regalato un costoso anello di
fidanzamento per tapparle gli occhi.
Carlo doveva sposare Anna, solo lei gli poteva garantire un ottimo prestigio
sociale.
Non avrebbe mai potuto né sposare né amare una prostituta. Anna era una donna
sincera, sicura ed affidabile. Con lei Carlo avrebbe vissuto un matrimonio
calmo e tranquillo, come la morte.
Accompagnato da questi pensieri, Carlo giunse in breve tempo a casa di Eva.
La colse seduta su un divano ultradecennale a mangiare un piatto di
spaghetti.
Spalancò la bocca all’arrivo di Carlo ed egli mangiò volentieri con lei.
Masticando grossolanamente, l’uomo si accorse che forse quella era la pasta
migliore che avesse mai gustato.
Dopo l’ultimo boccone, Eva si avvicinò seducente, ma Carlo la respinse più
volte. La giovane, ormai rassegnata, si sedette di fronte a lui, pronta ad
ascoltare le sue spiegazioni.
Il giovanotto, ormai uomo fatto, respirò profondamente e poi iniziò: “Sono
fidanzato e sto per sposarmi. Mi spiace di…”
Carlo non poté concludere la frase a causa di un sonoro schiaffone giunto
sulla sua possente mandibola.
Eva si alzò barcollando, scomparve in camera per riapparire nuovamente con un
foglietto in mano: sul pezzo di carta non c’era scritto molto, solo la parola
che Carlo non avrebbe mai voluto leggere: positivo.
Era un test di gravidanza.
Carlo boccheggiava disperato nella calura della sua anima, dimenticando la
scomoda presenza di Eva, che aveva cominciato a muoversi per casa nervosa,
evitando il peso specifico dell’uomo che amava.
Carlo rimase immobile per qualche momento immerso nei suoi pensieri cupi, gli
occhi appannati di sudore e la bocca informicolita.
Improvvisamente scattò verso l’uscio e si fermò all’udire una frase di Eva:
“Dio non ti perdonerà per avermi uccisa.”
Rimase in bambola qualche istante, di spalle al peccato. Poi uscì da quella
stamberga conscio del fatto che non l’avrebbe mai più rivista. Non immaginava
quanto si stava sbagliando.
Ritornato alla sua florida vita, Carlo si sentì rigenerato e trovò bello
perfino fare l’amore con Anna.
La abbracciò e la riconquistò con molte attenzioni, la viziò e la coccolò.
Carlo ed Anna passeggiarono lungo il mare di Sabaudia mano nella mano,
tentando inutilmente di ricordare persone e sentimenti persi chissà dove e
chissà quando.
Anna gli raccontò della sua monotona giornata da casalinga, di sua madre con
cui aveva discusso, di Lilla con cui era andata dal veterinario, di Sara con
cui aveva passato le ore al telefono.
E Carlo si sentì uno stupido, perché lui aveva tutto quello che un uomo della
sua età poteva desiderare. Certamente tutto ed anche di più ma non aveva
nulla di quello che realmente desiderava.
Ritornati a casa, Anna e Carlo si appisolarono sul divano sereni e
spensierati, come due innamorati dopo il primo appuntamento.
I giorni trascorsero lieti, ignari del futuro e coscienti del forte affetto
che li legava.
Una sera Carlo, rientrato dal lavoro, disse ad Anna: “Fatti bella stasera. Ci
vediamo alle 20 di fronte a “La Seta”
Senza attendere una reazione, l’uomo riprese la porta e si avviò verso quella
serata estiva, caliente.
Il problema Eva era la sua priorità, risolto quello avrebbe potuto dedicarsi
completamente ad Anna.
L’infedele giunse rapidamente da Eva e la trovò rivolta verso un minuscolo
ventilatore alla ricerca di refrigerio.
La ragazza non fece alcuna opposizione alla presenza di Carlo e lui le porse
un opuscolo informativo sull’aborto; a lei bastò leggere quella abominevole
parola per comprendere appieno che l’amore tra loro era stato solo una vana e
sciocca illusione.
Delusa e ferita, lo cacciò con cattiveria.
Egli fu accondiscendente, quasi sereno e si fece condurre alla porta,
credendosi ormai pulito da quella immonda situazione.
Riprese la sua “Alfa “ ed andò gaio e sorridente verso Anna, considerando Eva
qualcosa che ormai non gli appartenesse più.
Anna vestiva un abito rosato di taffettà e di seta e, dopo aver parcheggiato
frettolosamente la macchina, Carlo la raggiunse e le sussurrò amorevolmente
“Sei bellissima”.
Lei era davvero bella ed anche lui, nel suo completo gessato, appariva un
uomo affascinante.
Eppure, scrutandolo attentamente, Anna intravide qualcosa di strano nella sua
mimica facciale, ma non vi fece attenzione ed entrò con volto lieto nel
ristorante, accompagnata dal suo uomo.
Mangiarono festosamente e quando il cameriere portò la carta dei dessert ad
Anna, le labbra di lei sI dispiegarono in un sorriso radioso, mentre il
pensiero di Carlo si soffermò per un istante sugli occhi grandi di Eva, che
l’uomo ricordava essere molto più belli di quelli di Anna.
Scacciando violentemente la riflessione, Carlo avvicinò alla donna un
bellissimo anello firmato Damiani, materializzando così la scritta posta sul
bigliettino, fatto inserire nella carta dei vini.
Anna raggiante ed emozionata pronunciò un flebile, dolce e prevedibile “Sì”.
Quella parola era lo specchio di Anna: tenera, dolce e prevedibile e suonò
nel cuore di Carlo come “ campane intonate a morte”.
Lei sorrideva e lui rispondeva, credendo di essere felice. Non immaginava
quanto si stava sbagliando.
Il matrimonio si era svolto in una chiesa rustica con festeggiamenti in
grande stile, tipici di una cerimonia fiabesca realizzata su misura ai sogni
di Anna.
Per l’occasione erano intervenute molte persone e Carlo si sentì stranamente
a disagio nel pronunciare il “Sì” di fronte a tutta quella folla.
Decise tuttavia di ignorare ulteriormente questo segnale e sorridendo a
stento con un inadeguato senso di tristezza nel cuore, sposò la solare Anna.
Carlo desiderava che per lei fosse un bellissimo giorno di cui serbare, in
qualsiasi momento, un ricordo nitido e fantastico.
“Se lei è felice, lo sono sicuramente anch’io,” si ripeteva.
Ora stavano preparando in tutta serenità, con l’ausilio della madre di Anna,
le valigie per la loro luna di miele, consistente in una fredda crociera nel
Mare del Nord.
Carlo avrebbe sicuramente preferito un viaggio esotico, ma i desideri di Anna
avevano la precedenza su tutto, perfino sui suoi.
Egli si sentiva in dovere di farsi perdonare per qualcosa di troppo grave che
aveva commesso: aveva tradito la fiducia della sua donna, il suo amore; le
aveva tolto il rispetto ed anche se lei ne era ignara, Carlo era convinto di
averle fatto troppo male e che non sarebbe bastata un’intera esistenza per
placare, in lui, un infinito senso di colpa.
Mentre la moglie novella preparava le valigie, Carlo si introdusse in bagno
per cercare un po’ di quiete in quella nuova situazione a cui doveva ancora
abituarsi.
Seduto sulla tazza, scorse sul giornale un titolo inquietante “Giovane
prostituta incinta, suicida”.
Prese d’istinto il giornale, e lesse di una puttana e di un biglietto
stravagante lasciato prima di uccidersi: “Dio non ti perdonerà per avermi
uccisa.”
Carlo pisciò e pianse, pisciò e pianse sul suo benessere, sul suo matrimonio
con Anna, su un amore dalle forme tanto strane quanto quelle della sua Eva e
stavolta sapeva di non sbagliare.
NUMBER FIVE
Da quando si erano incontrate alla prima media nella stessa classe, Sara e
Katia erano diventate inseparabili. Avevano entrambe dodici anni.
Abitavano ad un tiro di schioppo l’una dall’altra a Monte Merlo in provincia
di Padova e le villette dei genitori, con i davanzali delle finestre piene di
fiori, erano colme di bambini, i fratelli e le sorelle di quelle, tutti più
piccoli di loro.
Fino a dieci anni, avendo frequentato le elementari, Sara dalle suore e Katia
nella scuola pubblica, si erano incontrate tante volte ma non si erano
affiatate tra loro e non si erano scambiate nulla di più di un saluto.
Le rispettive famiglie appartenevano a due ceti diversi : quella di Sara,
benestante, era incentrata su dei genitori laureati l’uno in Chimica
Industriale e l’altra in Farmaceutica tanto che la mamma di Sara era titolare
della Farmacia del paese dove affluivano quasi tutti gli abitanti dei piccoli
villaggi attorno e si vedeva da lontano che il tenore di vita di questa era
del tutto più florido rispetto a quello della famiglia di Katia.
Con diverse auto sistemate nell’enorme box, motorini e biciclette a iosa, a
Paolo e Francesca piaceva esibire a tutti il loro benessere economico tanto
che avevano acquistato, intorno alla villetta un grande appezzamento di
terreno, con prati all’inglese ed alberi sia da frutta che da
rappresentanza..
La casa di Katia, invece, era una villa antica ristrutturata per benino dal
momento che Tony esercitava il mestiere di carpentiere e sua moglie Giovanna
possedeva, molto più in là sulla strada per Abano Terme, una stalla con
mucche e cavalli ed un terreno da pascolo, il tutto ereditato dai genitori
ormai defunti, i nonni di Katia e che lei non aveva mai conosciuto se non in
vecchie fotografie.
Sara e Katia erano due ragazzine dal carattere allegro e dal fisico
speculare, alte tutte e due molto di più si potesse immaginare data la loro
età, diverse solo nel viso, essendo Sara una bella brunetta dagli occhi scuri
sognanti e Katia una biondina dagli occhi verdi, furbetti ed insolenti per
chi la osservasse attentamente quando non fingeva di sembrare un angioletto.
Le due amiche non soltanto erano come due sorelle inseparabili ma andavano
perfettamente d’accordo in tutto ma specialmente riguardo ai maschietti delle
superiori che le ronzavano attorno.
Non se li bisticciavano poiché ce n’erano tanti ed allora era estremamente
facile per le due sceglierne prima i più belli e poi i più intelligenti.
Riuscivano ad incontrare i propri spasimanti di nascosto dalle rispettive
famiglie e d’estate, quando il sole rimaneva alto nel cielo fino a tardi ed a
casa potevano tardare senza insospettire nessuno, passavano sempre un paio
d’ore, Sara con Giorgio e Katia con Federico nella masseria di questo ultimo,
scambiandosi baci e poi le prime timide toccatine.
Tornando insieme, una sera a casa, Sara disse all’amica.
- Lo sai cosa ha fatto stasera Giorgio? Mi ha leccato i capezzoli ed io ero
talmente ubriaca che non ho detto di no anzi ad un certo momento ho sentito
bagnate le mutandine ed un piacere che mi piegava le gambe. Meno male che si
è messo ad abbaiare il cane del guardiano e solo allora ho capito che stavo
andando in trance. Cosa mi è successo Katia? -
Alla domanda Katia rispose.
- Niente di grave, amore mio, sono gli ormoni che si stanno muovendo nel
nostro corpo. Tu vedi come ci è cresciuto il seno anche se ancora non abbiamo
avuto quello che le donne chiamano “ marchese “ma che noi due sappiamo ci
verrà presto. -
.- A proposito, so con certezza che quando questo arriverà anche a noi,
dovremo stare molto attente a non rimanere incinta se per caso Giorgio o
Federico ci infilassero dentro il loro pisello e ci schizzassero, sempre
dentro, il loro liquido che si chiama sperma! -
Sara si era spaventata moltissimo per le parole dell’amica e le disse.
- Ed io cosa dovrei fare dal momento che mi piace tutto quello che mi fa
Giorgio! -
.- Fatti toccare, baciare e ciucciare ma no farlo arrivare alla mona!.-
Sara rimase perplessa ma allontanò immediatamente dalla mente i pensieri
negativi, cullandosi invece nei bei ricordi che Giorgio le aveva lasciato in
quel tardo pomeriggio d’estate.
Per Sara e Katia tutto mutò due anni dopo quando le rispettive madri
pensarono che fosse giunto il momento che le due quattordicenni facessero e
la Prima Comunione e contemporaneamente la Cresima.
Le due adolescenti, ormai signorine d’aspetto e di fatto, dovettero ubbidire
senza nessuna possibilità di recriminazione ed anzi subendo una solenne
reprimenda dalle genitrici, cattoliche e pie donne di chiesa.
I problemi emersero nelle lezioni di catechismo propedeutiche ai Sacramenti e
quando dovettero confessarsi.
Il prete chiese sia a Sara che a Katia se avessero fornicato qualche volta da
sole oppure in compagnia e cosa avessero fatto.
Ognuna delle due rispose che non sapevano nemmeno il significato di quella
parola tanto difficile ma il prete insistette spiegando loro che, in buona
sostanza, quella che poteva sembrare una parolaccia non era altro che fare
atti contrari alla castità tra persone non sposate.
Sara e Katia risposero, senza consultarsi preventivamente, che erano caste e
pure come due angioletti ben sapendo che, se non avessero mentito, le cose si
sarebbero molto complicate sia perché il prete avrebbe chiesto
dettagliatamente cosa avessero fatto, sia perché probabilmente le loro mamme,
in qualche modo, avrebbero potuto conoscere il contenuto della loro
confessione essendo amiche di quel prete impiccione e che aveva anche la fama
di essere uno sciupa femmine.
Per quanto la loro coscienza fosse stata sottoposta ad una vera e propria
inquisizione non cambiarono atteggiamento e riuscirono a prendere i due
importanti Sacramenti senza nessuna battuta d’arresto.
Chi ci rimise furono Giorgio e Federico, che da quel momento furono costretti
ad andare a puttane sulla statale per Abano Terme con l’unica consolazione di
poterle scegliere tra slave, russe, marocchine ecc., unico modo per sfogare i
loro prorompenti istinti.
Fu quando le due amiche si iscrissero a Padova al Liceo Classico che gli
istinti giovanili tornarono a galla.
Durante gli ultimi due anni liceali furono preda di Saffo la somma poetessa
di Lesbo che, migliaia di anni prima avendo fondato nell’isola del mare Egeo
di fronte all’Anatolia, la famosa scuola di Poesia, Danza e Canto per le
fanciulle di Mitilene ma anche straniere, aveva cantato un Amore diverso e
che le due amiche non avevano fino allora conosciuto, ma che vivendo nella
medesima stanza della pensione di Padova e stando a stretto contatto di
gomito giorno e notte, acquisirono e forse subirono, facendosi una bella
esperienza di tipo omosessuale pur essendosi invaghite di due giovani
studenti della vicina Università.
Tuttavia non la seguirono completamente ed anche, se leggendario, non
imitarono il suo gesto inutile causato dall’impossibile amore per Faone e non
si suicidarono buttandosi nel vuoto dall’alto di quella rupe, fuori città,
che avrebbe potuto essere simile a quella di Leucade.
Lo studio di Saffo non fu però inutile per loro, avendo raffinato il loro
erotismo e portandolo a vette assai alte inimmaginabili a dodici, tredici
anni di età.
Erano divenute raffinate nei loro gesti amorosi, dolci e semplici e mai
volgari oppure crudeli, mentre la passione aveva preso il sopravvento sul
sesso e l’istinto veniva dominato dal pensiero.
Sara e Katia avevano acquisito una grandissima maturità intellettuale e di
spirito tale che ormai, quanto potesse offrire loro il maschio -uomo, era ben
poca cosa rispetto a quanto avrebbero desiderato.
Sara però aveva una specie di ossessione erotica nei riguardi di Katia.
Quando l’aveva avuta ai suoi piedi impotente ed innocua, solo capace di
accarezzarle con voluttà le gambe e le cosce glabre, si era sentita padrona
della suo corpo e della sua anima.
Senza dir niente, a proposito di quanto fosse deliziosa Katia
nell’accarezzarla e nel baciarla tra sospiri e minuscole risatine, Sara
sentiva la propria vita illuminarsi di una nuova luce mai conosciuta in
precedenza.
Katia la faceva impazzire per il godimento intenso, dissacrante che riusciva
a provocarle tanto che alla fine era sempre esausta, sfinita, incapace
addirittura di parlarle, di dirle grazie, di contraccambiare tutto quel
infinito piacere con qualche gesto di gratitudine.
Ma un giorno Katia le disse sorniona.
-Ti amo, tesoro, ti desidero ma non possiamo andare avanti così. Vorrei che
io e te potessimo mostrare in giro quello che in realtà siamo, due amanti che
in primo luogo si vogliono bene e che non possono nascondere agli occhi di
tutto il mondo il loro amore. Dobbiamo sposarci, dobbiamo avere il coraggio
delle nostre azioni e dei nostri sentimenti. Tra un anno diventeremo
maggiorenni ed andremo in Olanda con tanti soldi che guadagneremo qui in
Italia facendo le puttane. Faremo il minimo indispensabile a scuola per non
dare nell’occhio alle nostre famiglie e poi abbandoneremo gli studi
dedicandoci a mettere da parte ogni centesimo organizzandoci, perché non
voglio battere in strada ma su appuntamenti con uomini danarosi.
Saremo due squillo, due squillo di lusso, mia cara Sara! -
Tutto, Sara, poteva aspettarsi da Katia meno quella proposta così decisa e
così imperativa.
La guardò negli occhi verdi, velati di emozione e capì che veramente lei era
furiosamente innamorata, pensò un momento e dolcemente rispose.
- Mia Katia, ti rendi conto di ciò che mi proponi! Io non amerò mai nessuno
come amo te ma tra questo ed un matrimonio in Olanda, con denaro che dovremmo
procurarci qui facendo le squillo, ce ne passa di distanza. -
- Tu mi ubriachi di passione ma la vita non può basarsi soltanto sull’amore
ed anche sulle soddisfazioni sessuali e sull’erotismo. La vita significa pure
tante altre cose e poi io sono gelosa e non sopporterei mai e poi mai che tu
facessi la troia - ed io pure -quando invece potremmo essere furbe e tenerci
per noi il segreto che ci unisce. Se fossimo ricche di famiglia, le cose
potrebbero essere diverse e mutare il nostro stato civile. Questo non è
possibile, te lo assicuro, in quanto tutte e due, pur non morendo di fame,
non possiamo che studiare per crearci un avvenire dignitosamente prospero.
Poi si vedrà ! -
Katia, questa volta con occhi di fuoco, esclamò con un sorriso sarcastico.
- Addio mia bella Sara; da questo momento ognuno per se e Dio per tutte. Non
ti permettere più di avvicinarti a me perché ti ucciderei, come è vero che mi
chiamo Katia! -
Katia trovò una scusa con la sua famiglia per giustificare la rottura totale
con Sara.
Quest’ultima riferì ai genitori che l’amica non la faceva più studiare perché
interessata ad un giovane maturando e che lei non riusciva nemmeno più a
dormire a causa delle continue telefonate tra i due.
L’ardore della passione lentamente si allontanò dal cuore e dal cervello di
Sara ed altrettanto avvenne in Katia che ragionando con calma capì di essere
diventata, per solo questioni di sesso e di erotismo, succube di quella come
se l’avesse plagiata con l’aiuto di Saffo e delle sue poesie.
Non si guardarono più in faccia e cambiarono alloggio vivendo ciascuna per
conto proprio ma tutte e due ricordarono per tutta la vita quella esperienza
che, in qualche modo, le aveva completamente maturate.
NUMBER SIX
Le deboli luci del tramonto di quella grigia giornata invernale stavano
scomparendo dietro alti palazzi mentre Luca avvertiva il disagio ed il
desiderio di andarsene.
Il dottor Corsiero, psichiatra e psicoterapeuta, persisteva nella ricerca di
uno stimolo nuovo per Luca, che invece sembrava ostinarsi a non collaborare.
Era stata sua moglie Clara a volerlo aiutare ma lui ribadiva, violentemente,
di non aver bisogno di nessuno. Erano mesi ormai che la situazione persisteva
stabile in tutta la sua gravità.
Da quel maledetto 19 settembre, quando un imprevisto gli tagliò la strada
costringendolo ad un percorso alternativo, Luca ormai di uomo non aveva più
molto.
Quel 19 settembre, era una fresca mattinata e l’uomo aveva deciso di usare la
sua vecchia bicicletta.
Un ultimo tranquillo viaggio su quella amica di sempre, fino all’incrocio,
con un perverso destino.
Improvvisamente, uno squilibrato si era messo a sparare dal balcone ai
passanti ed un proiettile colpì la colonna vertebrale di Luca.
Una manciata di disgraziati secondi e le sue gambe diventarono aria. Il suo
corpo passò dall’asfalto alla camera operatoria e poi dalla camera operatoria
alla sua compagna di vita, la sedia a rotelle.
I suoi pensieri si erano depositati sull’asfalto e compito del dottor
Corsiero sarebbe stato quello di farli sollevare dal catrame e mostrare loro
nuovi orizzonti, a misura di Luca.
Nessuno conosceva quanto gli passasse per il cervello.
Luca era diventato un muro imperscrutabile, colmo di ombre e Clara, con la
sua dolcezza oppressiva, era la sua inconsapevole carnefice. La donna
riempiva la casa di fotografie che li ritraevano in momenti lieti e Luca
ricordava con amarezza che ora non era più quel uomo sano, che ora non era
più quel uomo normale.
Un’amarezza, che si trasformava in rabbia di fronte alla compassione, alla
pietà, alla commiserazione lo annientava.
Non era più autosufficiente, dipendeva anche nelle cose più banali da altri
che, mossi da un’infinita pietà, lo avrebbero aiutato per tutta la sua
miserabile vita.
Luca questo non lo poteva tollerare e pensava spesso che avrebbe preferito
che quel cecchino l’avesse ucciso.
Di notte, l’uomo si ritrova a fissare il soffitto nella speranza di non fare
più lo stesso sogno ripetitivo: un cecchino che gli sparava, ma non lo
uccideva e questo per la seconda volta.
Eppure, il dottor Corsiero aveva un animo diverso.
Non era mosso né da pietà né da finta carità pelosa e se riteneva necessario
essere duro e schietto, non si faceva alcuna remora, anzi.
Tentava di scuotere quello che rimaneva di Luca, senza mai arrendersi.
Quando lo riceveva, il dottore sorrideva ed era sempre in piedi. Anche Luca
pensava che avrebbe voluto salutarlo con un sorriso e soprattutto anche lui
avrebbe voluto alzarsi. Ma non diceva mai nulla e si limitava ad uno stizzoso
gesto di saluto.
Un giorno Luca scoprì che, al consueto appuntamento con il dottor Corsiero,
c’era a salutarlo un’altra persona, che sorrideva ma non si alzava in piedi.
Era anche lui su una sedia a rotelle.
Ma sorrideva, al contrario di Luca.
Luca si sentì adirato, preso in giro, come se fosse stato messo forzatamente
di fronte ad uno specchio, il suo specchio.
Ma non disse nulla e facendo il solito stizzoso gesto di saluto, ormai
rituale, entrò nella stanza dello psichiatra assieme a quel nuovo cliente
paraplegico.
L’altro uomo sembrava molto disinvolto: tentò di presentarsi a Luca, che
rimase del tutto indifferente.
Enrico era il suo nome.
“E’ un bel paralitico” pensò Luca.
Enrico sorrideva ed iniziò a raccontare ad alta voce la sua storia.
-“Inizialmente non accettavo la malattia ed avere fede mi costava una fatica
immensa. -
-Ero un calciatore ed essere affetto dal morbo di Lou Gehrig è stato per me
devastante. -
Poi continuò.
-Se ci fosse stata una soluzione reale, sarei stato pronto anche a volare pur
di guarire. Pensavo di essere solo
un condannato a morte e non sapevo del dono che avevo ricevuto! -
Luca aveva contratto tutti i muscoli facciali a causa del fastidio che gli
stava procurando quel tipo ma, come sempre, aveva taciuto ed aveva lasciato
che Enrico proseguisse.
-La prima notte dopo la paralisi ho fatto un sogno: c’era tutta la gente che
mi guardava stupita mentre io mi alzavo dalla sedia a rotelle ed incominciavo
a camminare con le mie gambe. Era un bel sogno. Alla scoperta che era solo un
misero sogno divenni una maschera di cemento. -
-Fui così per diverso tempo, finché un giorno conobbi la vedova Gibellin ed
allora compresi il dono che avevo avuto dalla sorte. -
Con la voce rotta dal pianto e le mani tremanti, mi raccontò di suo marito,
morto dello stesso morbo di cui ero affetto io, per i traumi al cervello
causati dai troppi colpi di testa dati ad un pallone.
Mi raccontò tuttavia che suo marito aveva amato la vita fino all’ultimo
istante: aveva imparato a gustarla da una nuova prospettiva e la raccontava a
chi si trovava in una situazione differente dalla sua.
Differente ovvero sana, ma non necessariamente migliore.
Una situazione sana era ritenuta una situazione normale, standard, tipica.
La sua invece era una condizione speciale perché lui era speciale.
Osservando il mondo da questa prospettiva riusciva a far apparire magiche
tutte le sue azioni.
Quando morì da “anormale” Gibellin sorrideva, ricordando che spesso i “sani”
muoiono tristi.”
Il sole era ormai scomparso ed incalzava il freddo.
Dopo le parole di Enrico, nella stanza del dottor Corsiero stagnava un gelido
silenzio.
Enrico guardò sorridendo Luca e gli chiese: “ Tu come stai?”
Luca lo fissò freddamente e replicò, con voce alterata:
“Come sto?!?
Te lo racconto subito come sto.
“Non sono più un uomo, non ho più nulla di uomo.”
“Ho quarantatre anni e sei di quelli passati con l’unica mia consulente,
questa sedia.”
“Prima avevo una macchina, io le davo gas e lei correva. Quando sono tornato
con la mia nuova compagna, le ho chiesto dove corresse, perché ogni strada
era destinata ad essere interrotta.”
“Mi sono sempre detto che avrei dovuto riprenderla in mano questa vita malata
e trasformarla, renderla migliore. Me lo sono detto. Ma non mi ascolto
nemmeno più. Passo gran parte del mio tempo a biasimarmi ed è questo il mio
passatempo migliore. Mi faccio pena da solo e gli altri, anche se fingono,
provano il medesimo sentimento. “
“Invece di andarmene, di sbattervi la porta in faccia me ne sto qui seduto,
paralizzato su una sedia a rotelle, fermo ed immobile, freddo e lontano dalla
mia passata vivacità di una vita normale ed un altro passatempo è quello di
osservare, in silenzio, gente normale.”
Luca riuscì ad accendersi una sigaretta, aspirò il fumo voluttuosamente.
Rilasciò con un atto di volontà i muscoli del collo. Brevemente sorrise
sardonico.
-Guardo e vedo in loro quello che io ero una volta. Soltanto e semplicemente
quello che ho smesso di essere.
Ciò che vedo è che sono qua. Seduto, paralizzato. E mi basta per concepire
che non sono più un uomo.
Talvolta sento la voce di mia moglie, pietosa come le altre, che si abbatte
addosso le pareti del cranio, insistente e noiosa e mi chiede di reagire. -
-Ma reagire a cosa? Reagire al fatto che non sono più io? E come si reagisce
a questo? Questa maledetta sedia la odio ma ormai mi sono assuefatto a lei e
questa a me. -
-Talvolta il mio essere uomo compare improvvisamente. Lo vedo. È immerso in
un vestito scuro, elegantissimo, un cappello si appoggia come un’ombra appena
sopra il suo sguardo, una sigaretta in mano avviluppa la sua essenza. Dice
che mi vede nudo e infante. Io mi siedo sulle sue gambe e mi lascio cullare
nella nostalgia dei ricordi, dei ricordi di quando ero uomo. -
-Poi rivedo gli occhi commiserevoli della normalità e m’incazzo con tutto il
mondo ma in particolare con me stesso, con il mio essere uomo che è andato a
farsi fottere troppo presto.
Ecco come sto. -
Luca uscì a fatica dalla stanza, sbattendo la porta di fronte agli occhi
comprensivi e commossi di Enrico e a quelli esterrefatti del dottor Corsiero.
Il dottore sobbalzò e prima che potesse parlare, Enrico ruppe il silenzio
dicendo:
“Credo che ultimamente avesse chiacchierato solo con chi lo potesse
comprendere ma non gli poteva rispondere. La sua sedia.”
“Ora ha sprigionato tutto ciò che nel migrare dei giorni ha custodito
gelosamente nel patto tra lui e la sua sedia. Teme che la sua compagna,
divenuta ormai parte di lui, si senta ferita e così si tratta molto
duramente, imputandosi inutili sensi di colpa.
Ma mi è sembrato una persona intelligente e credo che, dopo oggi, starà
meglio.”
Il dottor Corsiero scosse la testa.
Mentre i due uomini si congedavano, Luca stava tornando a casa lungo le
strade sempre troppo scomode per un disabile riflettendo su se stesso e su
quel pomeriggio. Da una viuzza spuntò angosciata sua moglie Clara, che gli
fece una lavata di capo degna di un bambino capriccioso.
Lui la guardò con occhi diversi e le chiese di poter tornare a casa da solo.
Lei con fatica e con preoccupazione acconsentì.
Giunto a casa, Luca sorrise, chiedendo a Clara di passargli l’elenco
telefonico.
Afferrata la cornetta telefonica, Luca disse:
“ Signor Enrico Ballesi? “
“ Sono Luca, ci siamo incontrati oggi nello studio del dottor Corsiero. Mi
piacerebbe rivederla.
Domani per pranzo? Va bene?”
Sospirando, prima di riagganciare, Luca sorrise e sussurrò: “Grazie.”
NUMBER SEVEN
Alla Giudecca, Carlotta riuscì nell’intento.
Il ginecologo l’aveva liberata dal pensiero che l’aveva turbata per un mese
intero; avere un figlio a soli diciassette anni non era certo cosa da poco ed
in più con i genitori che si ritrovava.
Pur avendola viziata in ogni modo, consentendole tutti i capricci che le
erano passati per la testa fin da quando aveva iniziato la scuola media e pur
ritenendola un impedimento alla loro completa libertà di esistenza, -tale che
la sua Tata sapeva di lei mille volte di più di quello che i due conoscessero
della propria figlia, - l’ avrebbero piuttosto uccisa piuttosto che accettare
un bastardo in casa.
Sì, era proprio così.
Carlotta avrebbe potuto usare estasi e cocaina in discoteca, non frequentare
l’Istituto Linguistico privato, scopare con tutti i suoi amici se l’avesse
desiderato, usare le carte di credito di platino per qualsiasi spesa anche
futile, ma non doveva procurare ad essi nessun pensiero e quindi doveva
assolutamente auto-gestirsi.
Carlotta da un anno lo faceva e di amiche ed amici ne aveva a bizzeffe pronti
ad approfittare di lei.
Tuttavia, ogni qualvolta aveva avuto bisogno di un consiglio, di una carezza
disinteressata o di fare ad un essere vivente una confidenza, si era rivolta
alla sua Tata, l’unica persona in grado di dirle una parola buona.
Anche quando aveva capito di essere rimasta incinta da Marco, aveva sentito
l’impulso di raccontarle il perché ed il per come.
Però questa volta, non aveva avuto il coraggio di farlo e si era tenuta tutto
dentro di se.
Marco l’aveva presa con l’inganno, le aveva detto che egli usava sempre il
preservativo ma non era stato così e Carlotta se ne era accorta
immediatamente dopo.
Si era lavata e stralavata per ore ma tutto era stato inutile anche per il
motivo che Carlotta, già da prima, era conscia come in quella occasione si
trovasse in pieno periodo di ovulazione.
Era andata da un medico compiacente. Questo l’aveva riempita di pillole, di
consigli su come fare per non fare attecchire lo spermatozoo all’ovulo. Tutto
era stato vano.
Ed era stato a quel punto che Carlotta avrebbe voluto sentire qualcuno che le
dicesse di proseguire nella gravidanza e di fregarsene se avesse dovuto
diventare una ragazza madre.
Ciò non avvenne e fu a quel punto che si rivolse a quella specie di
macellaio, di cui aveva sentito dire in precedenza, quel ginecologo della
Giudecca che per duemila euro l’aveva fatta abortire.
Nel complesso, l’intervento ed il post - aborto ebbero la durata di un paio
di ore e quando uscì all’aperto, con gli occhi umidi di pianto, comprese che
in quelle condizioni poteva soltanto rifugiarsi fino a sera in una qualche
Pensione per passare, su un letto, tutto il pomeriggio di quella giornata
piovosa e triste come lei stessa si sentiva.
I suoi genitori non l’avrebbero cercata, questo lo sapeva, ma Marianna
sarebbe stata molto in pensiero per lei se non le avesse almeno fatto un
colpo di telefono.
Nella tristezza che era divenuta atroce riuscì a riflettere, per qualche
minuto, sul perché la sua Tata le volesse tanto bene mentre poteva benissimo
fregarsene dal momento che aveva ben tre figli da far crescere
- Marianna, -disse con voce flebile, -non mi aspettare. Tornerò a casa molto
tardi stasera. -
- In che guaio ti sei cacciata questa volta Carlotta, tesoro mio, - affermò
agitata.
- Sono quasi le tre ed hai una vocina tremolante come non mai! Hai almeno
pranzato? -
- Certo che sì, - fece la diciassettenne, - ma adesso devo andare a studiare
da Angela. Anzi ti prego di non telefonarmi per nessun motivo. -
Angela era la sua compagna di classe, l’unica che si comportava come una vera
signorinella ma che Carlotta non filava nel modo più assoluto.
Angela, nell’Istituto Linguistico, non aveva amici ma solo qualche conoscente
e per giunta cafone come quasi tutti quelli della classe.
Era bellissima e portava in giro la sua bellezza con un grande distacco da
tutti.
L’unica cosa che Carlotta sapeva di lei, con sicurezza, era che voleva
diventare un’attrice e che studiava Recitazione. Oltre a ciò era sempre stata
la prima della classe.
Le era cordialmente antipatica ma era l’unica, al di fuori del suo giro, con
cui qualche volta parlava non di banalità ma di cose serie.
Abitava dalle parti di Rialto e come Carlotta era figlia unica ma con quale
enorme differenza!
I suoi genitori, commercianti di antiquariato pur essendo straricchi, non la
viziavano con il denaro ma con un amore del tutto profondo, quasi morboso e
le concedevano, quale premio per il suo profitto, unicamente dei bei vestiti
eleganti nonché indumenti intimi di classe con scarpe firmate.
D’estate la portavano con loro a Porto Cervo dove possedevano una villetta
sul mare.
Lì Angela, di anno in anno, aveva avuto la possibilità di conoscere gente
dello spettacolo e tutti rispettavano quella biondissima ragazza dagli occhi
verdi come il mare della Sardegna.
Anche quel anno, alla fine della scuola, sarebbe tornata in quei posti. Lo
aveva detto a Calotta due settimane prima provocando in questa una notevole
gelosia ed invidia e non per via di quel magnifico posto ma perché sarebbe
andata con la mamma e con il papà.
Carlotta, verso le sei, si ricordò di questo particolare e sentendosi molto
meglio, fisicamente, decise di recarsi a casa di Angela con un a scusa
qualsiasi e con la faccia di bronzo che tutti le riconoscevano.
Il fatto che avesse abortito al mattino, le era rimasto come un chiodo
ficcato nel cervello, ma come aveva superato altri brutti momenti in passato
non le avrebbe tolto la capacità, anche in questa circostanza, di auto
gestirsi da sola come al solito.
Carlotta aveva conosciuto la Signora Calò, avendola incontrata un paio di
volte a San Marco con Angela che gliela aveva presentata, con la squisitezza
che le era propria, come la sua cara amica e compagna di classe.
All’uscio dell’enorme appartamento, venne ad aprirle proprio la signora
Renata.
Con meraviglia, sorridendo a Carlotta chiese.
-A cosa devo la tua gradita visita, mia simpatica Carlotta? -
L’aveva fatta entrare in un grande salone tutto pieno di mobili antichi e di
quadri d’autore e l’aveva fatta accomodare su una poltrona di velluto di un
blu mare morbidissima e senza attendere risposta le domandò.
.- Tesoro, come sei pallida oggi , sei stata male in questi giorni? Forse hai
avuto le tue regole e quindi devi mangiare roba sostanziosa tanto che questa
sera desidero che tu sia a cena con noi. Adesso vado di là a chiamare Angela
che, in vista della fine dell’anno scolastico, devo strappare ai suoi libri.
-
Poi continuò, - a proposito dove vai questa estate in vacanza? Non mi
dispiacerebbe portarti in Sardegna con noi. Angela e sempre così sola un po’
per il carattere che si ritrova, un po’ per l’idiosincrasia che ha rispetto
ai suoi compagni di scuola! Tu però mi sembri una ragazza semplice e dal
carattere affettuoso, mi sbaglio oppure è così?!.-
Fa quella una delle poche volte che Carlotta si sentì piuttosto imbarazzata.
La madre di Angela poteva aver preso un abbaglio probabilmente per il suo
timido aspetto e per la pulizia del suo viso, senza ombra di trucco.
Anche Carlotta era una ragazza molto carina, dalla chioma abbondante castana
scura e raccolta in una unica treccia dietro la nuca. Era altresì evidente
che Angela non aveva mai parlato male di lei e questo fatto l’aveva commossa
come pochissime volte le accadeva.
In quel momento entrò nel salotto Angela in vestaglia arancione e senza
proferire parola andò verso Carlotta baciandola sulle guance diafane.
- Mi fa molto piacere che tu sia venuta a trovarmi, lo desideravo da tanto
tempo! -
- Sono qui per farti un pochino di compagnia e per chiederti un suggerimento
riguardo al compito di russo che mi ha totalmente messa in ginocchio. -
- Nessun problema, cara Carlotta, ti aiuto immediatamente in modo che finiamo
prima di cena. Mamma mi ha già detto che rimarrai a cena da noi e questo mi
gratificherà assai. Sono sempre sola ed è un miracolo che stasera ci sia tu a
mangiare con noi. -
Carlotta rimase di stucco. Non se lo aspettava di essere così ben accetta sia
dalla signora Calò, sia ed in particolare, da Angela che le era stata quasi
sempre sul cavolo ritenendola una ragazza snob.
Evidentemente quella di Angela era soltanto timidezza e lei aveva preso,
riguardo alla prima della classe, un grosso abbaglio.
Tutto filò liscio come l’olio sul mare ed inoltre fu proprio Angela ad
insistere con Carlotta affinché le promettesse che sarebbe andata in Sardegna
con lei, con la madre ed il padre, ospite gradita e piacevole.
Si fecero le undici in allegria anche se, di quando in quando, Carlotta si
azzittiva pensando a quel aborto che l’aveva moralmente distrutta.
In tre mesi le due ragazze divennero inseparabili e fu Carlotta che cambiò
disco rispetto al proprio precedente comportamento.
Come al solito continuò ad auto-gestirsi.
Sua madre e suo padre erano come due fantasmi sempre indaffarati in riunioni
di cui Carlotta ignorava ogni scopo o significato, tanto che vi fu un
periodo- di quaranta giorni- in cui, essendo del tutto scomparsi da Venezia,
pensò che li avessero arrestati.
Ma non era successo nulla di quanto Carlotta pensasse.
Era certa soltanto di una cosa : che avessero le mani in pasta con qualche
gruppo politico anche perché lo aveva sentito affermare spesso che con la
Politica avrebbero fatto un mucchio di soldi.
Quelli già non scarseggiavano tanto che poteva permettersi di viaggiare
insieme alla moglie in continuazione, andando spessissimo indifferentemente,
in Asia oppure in America.
Carlotta sapeva con certezza che commerciava all’ingrosso : in che cosa, lo
ignorava.
Aveva un numero telefonico di Milano, per eventuali gravissime urgenze, ma
allo stesso tempo le avevano anche detto di non chiamare né lui né sua madre
per nessun altro motivo.
Alla noia le avevano ripetuto che lei aveva un credito illimitato presso una
Banca di Treviso e che poteva indifferentemente usare tre carte di credito di
platino abbinate al conto corrente di sua madre.
Marianna era strapagata e per qualsiasi cosa o necessità di dialogo avrebbe
dovuto rivolgersi a quella donna di Pordenone che l’aveva, praticamente,
cresciuta dalla nascita.
A Marianna, Carlotta aveva detto unicamente che Angela sarebbe venuta a casa
in qualsiasi momento e che doveva trattarla con i guanti come se si trattasse
di un’altra Carlotta.
Angela aveva capito che Carlotta aveva cominciato a volerle bene davvero.
Il fatto era veramente strano dopo quei lunghi anni di reciproca indifferenza
ma era proprio così ed a lei soltanto, Carlotta cominciò ad aprire il suo
cuore ed a raccontarle di quanto fosse stato triste il vivere senza genitori,
senza coccole e soprattutto senza ricordi.
In tre mesi Carlotta divenne così preparata che gli altri in classe pensavano
che fosse impazzita.
Quando uscirono i quadri, risultò che la giovane dalla lunga treccia era
diventata, dopo Angela, la migliore della classe.
A metà luglio, Carlotta e tutta la famiglia di Angela partirono per Porto
Cervo. In Sardegna avrebbero passato una vacanza da sogno.
Prima di partire, Carlotta disse a Marianna di telefonarle ogni tanto sul suo
personale satellitare e di avvisare i suoi genitori che si sarebbero rivisti
probabilmente a settembre.
Fino all’inizio di agosto, Angela e Carlotta passarono nella graziosa e
comoda villetta un periodo molto salutare e tale da rigenerarle e nel corpo e
nello spirito.
Prendevano il sole sulla terrazza di casa senza subirne le conseguenze nocive
poiché il luogo era sempre sufficientemente ventoso e poi, a due passi, quel
mare verde-blu le invitava a piccole ma salutari nuotate.
La signora Calò, in attesa del marito che faceva il pendolare da Venezia e
che non mancava mai il sabato e la domenica, si comportava da perfetta
padrona di casa, gentile e premurosa ma inflessibile nel non permettere alle
ragazze di recarsi di notte nei locali notturni della zona.
-Non dovete credere che io sia bigotta, -disse una sera rivolgendosi a
Carlotta ed ad Angela, -ma voi due non avete ancora diciotto anni e quindi io
sono responsabile, di fronte alla legge, di qualsiasi cosa vi possa capitare.
-
Carlotta rimase turbata per tutta quella protezione, essendo stata abituata
da sempre di fare e disfare ogni cosa le passasse per la testa.
E così, il giorno dopo si avvicinò ad Angela e le sussurrò.
-Giorni fa ho conosciuto, andando in piazza a comprare delle bottiglie di
aranciata, un giovane austriaco, Franz Klein, che ci ha invitate sul suo
motoscafo d’alto mare a fare un giro lungo la costa. Che ne dici. Vogliamo
fare un piccolo strappo alle regole ferree di tua madre? -
Angela guardò negli occhi la sua amica, sorridendole.
- Ma sì, tra due mesi diventeremo entrambe maggiorenni. Che vuoi che siano
due mesi…Io ci sto e tu, Carlotta? Staremo attente ed unite l’una a l’altra.
Insieme, nessuno potrà permettersi di darci fastidio. -
Al mattino successivo, il mare era tranquillo ed una leggera brezza
spolverava l’aria di Porto Cervo quando le due ragazze presero posto a bordo
del motoscafo di Franz.
Con lui c’era pure un altro giovanotto che egli presentò come suo fratello e
che chiamò Walter. Entrambi erano aitanti ed abbronzantissimi.
Angela, prima di salire sullo scafo, ebbe un attimo di esitazione.
Aveva mentito alla mamma per la prima volta in vita sua, dicendole che lei e
Carlotta sarebbero andate a fare un bagno a tre chilometri a nord di Porto
Cervo, dove c’era una comoda scogliera ed il mare era assolutamente limpido e
trasparente.
Un dubbio l’aveva colta di contro balzo improvvisamente.
E se quelli si fossero comportati da farabutti…
Carlotta aveva capito al volo il pensiero di Angela ed avvicinandola le
sussurrò.
-Non essere preoccupata; io non temo nessuno! -
Il motoscafo prese velocemente il largo ed in un baleno si trovarono molto
lontano dalla costa.
Poi, improvvisamente Walter che lo guidava lo fermò e disse.
- Denudatevi pure tanto qui non ci vede nessuno. -
Quindi si portò verso Angela e le strappo di dosso il costumino nero a due
pezzi. La buttò sul pavimento della cabina ed afferrati i polsi con una mano
e stringendole il collo con l’altra, tentò usando tutta la sua forza, di
strozzarla mentre voleva violentarla.
Carlotta a tre metri di distanza si guardò intorno vedendo un coltellaccio a
sega da pescatore sporgere da una mensola e mentre Angela urlava con tutto il
fiato che aveva in corpo, chiedendo aiuto, si buttò con quel coltello addosso
a Walter trafiggendogli, con un solo colpo violentissimo, il cuore.
Quello stramazzò, in un lago di sangue, morto mentre Franz, allibito, disse.
-Cosa voleva fare questo stronzo di viennese dopo avermi pregato di portarlo
in barca con noi e che io, da perfetto idiota, vi ho presentato come mio
fratello!?. -
Angela intanto era svenuta e Carlotta tremava come una foglia al vento,
sudando sudore freddo.
Franz prese la radio di bordo e chiamò la motovedetta della polizia di Porto
Cervo che giunse sul posto in brevissimo tempo.
Mentre egli raccontava al tenente quello che era successo a bordo, una
seconda motovedetta portava in porto le due ragazze distrutte ed in preda ad
un panico allucinante.
Carlotta ed Angela furono trasportate all’infermeria adiacente e di
pertinenza alla polizia portuaria per essere prima assistite e curate e poi
interrogate dal magistrato che, sentita la testimonianza di Franz, formalizzò
la rapida inchiesta che si chiuse con il non luogo a procedere per Carlotta “
per avere commesso il fatto per legittima difesa putativa “.
Era sabato mattina e nella villetta dei Calò era appena arrivato il papà di
Angela.
Quel uomo alto e grosso, appena vide le due ragazze accompagnate da un
capitano della polizia, scoppiò in un pianto irrefrenabile.
Tutto quanto era avvenuto gli era stato, precedentemente, comunicato per
telefono.
Di slancio, con tutte le sue forze, le sollevò da terra abbracciandole
forte-forte ed in silenzio le fece sedere poi su quel divano a dondolo del
giardino, accarezzandole entrambe e coprendole di bacini tenerissimi.
Dopo più di mezzora con le mani nelle mani di sua moglie si rivolse a
Carlotta.
-Non ci sarà un solo momento nella mia vita che non penserò a te come a colei
che mi ha salvato Angela, forse da sicura morte. -
.- Io non vivo che per queste mie donne. Il resto è per me lo zero assoluto e
tu ora devi considerarti come una persona della mia famiglia come se fossi
una mia seconda figlia! -
-Cosa devo fare con i tuoi genitori, dolcissimo mio tesoro? Posso avvertirli
di venire qui da noi? -
Carlotta ebbe un momento di smarrimento, poi ironicamente affermò.
-Certamente, se riesce a trovarli. Qui c’è il mio telefono satellitare e
questo è il loro numero segreto! -
NUMBER EIGHT
Era un fresco martedì di giugno quando Giovanni bussò alla porta di Pietro il
quale, sempre garbato e gentile, fece accomodare il nuovo cliente e lo pregò
di raccontargli la sua storia e le esigenze che lo avevano spinto fin da lui.
Egli iniziò.
“Sono un uomo ricco e dicono pure affascinante, sposato da anni ed
affezionato moltissimo alla propria moglie.
Mi sono rivolto a questa Agenzia Investigativa perché ho un tarlo che mi
tormenta da ormai qualche settimana.
Generalmente sono pragmatico e concreto e quindi giungerò subito a
raccontarle il mio obiettivo.
Credo fermamente che mia moglie mi tradisca con un giovane galantuomo. Non
penso sia solo una storia di sesso, qualificabile come tutte le mie relazioni
extraconiugali, ma penso sia proprio innamorata!”
Giovanni si alzò di scatto dalla sedia dove si era accomodato ed iniziò a
gesticolare nervoso.
“Si rende conto di cosa significa questo per me?
Io sono ricchissimo, potente, importante e mia moglie non può innamorarsi di
un altro! ”
Pietro gli suggerì di calmarsi, di tornare a sedersi e di raccontargli con
calma tutto ciò che sapeva su sua moglie.
Giovanni, scusandosi, obbedì e raccontò:
“Mia moglie non la frequento molto di giorno perché io sono sempre in giro
per lavoro.
So che la mattina si sveglia presto per farmi trovare la colazione pronta, mi
sveglia ed io, sempre in ritardo, corro in ufficio. Spesso non mi presento a
pranzo ma quando ci va nostro figlio Luigi dice che ci sono certi
manicaretti! Poi il pomeriggio pulisce la casa e quando arrivo per cena, lei
ha già lustrato ogni cosa e preparato la cena. Dopo vediamo il telegiornale
insieme, io mi addormento guardando un film, al termine del quale, lei va a
letto ed io mi dedico un po’ al lavoro.
Se poi è sveglia, avvenimento raro, facciamo l’amore, altrimenti vado in
bianco.
Lei è cosciente che quando vado in bianco per più di una settimana, cerco
fuori ciò che lei non mi dà.
Inizialmente mia moglie soffriva molto della cosa, ma ora è diversa.
Distratta e sempre sorridente e felice
Talvolta suona il telefono e se rispondo io lo chiudono, mentre se risponde
lei si esprime solo a monosillabi, del tipo : “ok, va bene, a che ora?, Dove?
Ciao.”
Quando le chiedo chi è, lei dice sempre che è la sua amica Vanda. Tuttavia,
un paio di settimane fa, è uscita dicendo di dover vedere Vanda, ma dopo
qualche ora quest’ultima ha telefonato.
E quando le ho detto che mia moglie Letizia era uscita…”
Improvvisamente Pietro ebbe un giramento di testa.
Giovanni se ne accorse ed arrestò brevemente il suo monologo per chiedere a
Pietro se stava bene e se aveva bisogno di qualcosa.
Pietro lo ringraziò per la premura, si fece portare un bicchiere di acqua e
zucchero dalla sua segretaria ed esortò Giovanni a proseguire il discorso
mentre quello, senza nemmeno accorgersene e sentire le parole di Pietro,
continuava concitato la sua narrazione ed i pensieri di Pietro, distratto,
vagavano lontano.
“Lui è Giovanni, sua moglie si chiama Letizia ed ha un’apparente vita succube
del marito, la sua migliore amica si chiama Vanda.
La mia Letizia ha una storia analoga.”
Pensò Pietro.
“Quando la incontrai in internet era molto triste, il suo curioso - nick -
era “cameriera” e mi fece subito tenerezza. Mi raccontò di lei e dell’inferno
in cui viveva, che solitamente si chiama “matrimonio”.
La invitai a bere un caffè e lei accettò timidamente.
Era una donna elegante, raffinata e bellissima.
Il resto fu amore : la mia Letizia! ”
Giovanni, insistente, destò Pietro dai suoi pensieri:
“Mi ha ascoltato? Sta bene? E’ sicuro?”
Pietro pregò Giovanni di dargli le ultime coordinate per il pedinamento di
sua moglie.
“Io e mia moglie viviamo in Via Quattro Cantoni,12 qui a Roma.
Mia moglie si chiama Letizia Lordi ed ha 40 anni e nostro figlio, Luigi, ha
19 anni e vive in via Settembrini, sempre qui a Roma.
Le sue abitudine ordinarie gliele ho già narrate.
I suoi hobby sono la musica, l’opera e la “ chat “ in internet.”
Congedato il signor Lordi, Pietro affondò nella sua poltrona pensando.
“E adesso?”
Mentre Giovanni era bloccato nel traffico metropolitano, Pietro telefonò alla
sua Letizia.
“Tesoro, dobbiamo vederci al più presto.
E’ successo un casino: tuo marito è venuto da me al lavoro perché io
investighi su di te in quanto è convinto che tu abbia un amante.”
La donna, ancora scossa dalle rivelazioni dell’amato, rispose frettolosa:
“Domani mattina a casa tua. Sarò lì per le 11.” e riagganciò.”
Letizia aveva trascorso diversi anni in profonda sudditanza del marito ed
aveva sofferto molto al sapere che lui aveva diverse frequentazioni
extraconiugali.
Si sentì una donna fallita e cercò conforto in un “ forum “di un sito
internet che si occupava di psicologia femminile.
Lì trovò molte donne in grado di aiutarla, di confortarla e di farle
esprimere l’energia che reprimeva ormai da troppo tempo. Le consigliarono
anche una “ chat ”, protetta ed anonima.
Letizia, un po’ perplessa ma grintosa, si avventurò con leggerezza nella
nuova esperienza.
Inizialmente ricevette diverse proposte indecenti da sconosciuti e ne rimase
turbata, ma poi incontrò “l’uomo”, questo era il suo -nick -, che le spiegò
come debellare le fastidiose provocazioni.
L’uomo, attraente trentacinquenne, le raccontò dell’ unica storia importante
della sua vita, di quella donna che aveva amato con anima e cuore finché,
lentamente, l’amore che i due provavano si era affievolito fino a scomparire
nell’apatia e nella monotonia quotidiana. L’amore era semplicemente finito e
loro si volevano bene come due fratelli.
Non avevano sofferto per la separazione; erano solo un po’ inquieti e un po’
emozionati perché, d’ora in poi, avrebbero dovuto affrontare il mondo da soli
ed osservarlo non più con i quattro occhi di prima ma semplicemente con due
occhi, come tutti gli uomini e le donne avrebbero, prima o poi, dovuto fare.
“Cameriera” si commosse a leggere questa storia, degna di un romanzo Harmony,
e disse a “1’uomo” che era stato molto fortunato perché aveva incontrato
l’amore vero, quello tutto maiuscolo.
Lui le disse di non demordere, che nella vita l’amore è dietro l’angolo.
Basta saperlo accogliere.
Lei andò a letto serena e sorridente, ripensando alle parole del “1’uomo”.
Chiacchierano a lungo anche il giorno seguente in “ chat “ e “1’uomo”
raccontò a “cameriera” la sua passione per le mostre fotografiche in bianco e
nero che emanavano una poesia immensa, una dolcezza infinita di cui il mondo
era ormai scarno.
“Cameriera” gli scrisse della sua predilezione per l’opera e per la musica in
generale e di come questa sua debolezza fosse in grado di toccare le corde
più profonde e più gradevoli del suo cuore, nonostante il mondo la ritenesse
ormai una vecchia casalinga dai facili sentimentalismi.
Pietro chiese alla donna un appuntamento per un caffè, dicendole di non
dargli una risposta immediata ma di rifletterci con calma. Letizia, invece,
rispose immediatamente con un secco sì e decise di uscire il pomeriggio
stesso.
Chiamò con emozione Vanda per raccontarle le ultime novità della sua piatta
vita e questa si precipitò a casa dell’amica per saperne di più e per
consigliarla nei preparativi.
Dopo ore di prove, tra trucco e vestiti, uscì una Letizia completamente
trasformata, anima e corpo.
Eliminati i vestiti antichi e retrogradi, Letizia indossò un perfetto
vestitino a sottoveste color pastello, con borsetta, trucco e scarpe con
tacchi alti coordinati.
I capelli opachi e spenti erano solo un ricordo: ora la bellissima chioma
della donna era rossa, sfavillante e moderna.
Letizia era davvero bellissima.
Giunta a Trastevere, Letizia era tesa ed emozionata.
Pietro giunse in perfetto orario e stentò a riconoscere la donna, nonostante
essa gli avesse inviato il giorno prima la foto della carta d’identità.
Letizia pensò che un uomo così bello e giovane non avrebbe mai potuto essere
interessato ad una vecchiaccia come lei.
Lui si avvicinò timido, mormorò un “sei bellissima” e la invitò a
passeggiare. Lei sorrise acconsentendo.
L’amore era davvero dietro l’angolo e Letizia era pronta ad accoglierlo.
Erano le 11 e Letizia era appena giunta a casa di Pietro.
Lui la baciò con passione e lei si lasciò travolgere da quel impulso.
Si ricompose subito e gli chiese cosa intendeva fare.
Egli la guardò teneramente e rispose che tutto ciò che voleva fare era
amarla.
Fecero l’amore con intensità e dolcezza. Lei era raggiante e lui felicissimo.
Risero e scherzarono, lui andò a farsi una doccia e lei indossò una sua
camicia mentre si apprestava a preparare il pranzo.
A Giovanni, Letizia aveva detto che andava a fare una gita fuori porta con
Vanda e successivamente aveva avvertito l’amica del fatto, chiedendole di
reggerle il gioco.
Stavano pranzando allegramente quando Pietro pensò al suo caso lavorativo,
quello del signor Lordi. Raccontò divertito all’amata le espressioni alterate
del marito e lei rise sonoramente, immaginandosi le pacchiane espressioni del
marito che si dilatava dalla rabbia.
Pietro chiese consiglio alla sua Letizia sul da farsi e lei gli rispose
semplicemente di non preoccuparsi, che avrebbe risolto personalmente il
fastidioso inghippo.
Dopo una magnifica giornata, Letizia tornò radiosa a casa ed aperto l’uscio
incontrò le ridicoli ire del signor Lordi.
Lei lo prese per la mano e lo accompagnò a sedersi. Letizia gli si pose di
fronte, decisa e serena e raccontò al marito di essersi innamorata e che
avrebbe chiesto la separazione.
Lui rimase scioccato e dopo, qualche minuto di silenzio, iniziò a ridere di
una risata isterica, copiosa e pesante e le chiese di non abbandonarlo.
Lei gli accarezzò la guancia destra e gli disse che ormai del loro matrimonio
erano rimaste solo le foto e la loro miglior opera, il figlio Luigi.
Giovanni si arrese e si accasciò sul divano, dove si addormentò russando con
forza.
Letizia passò la notte preparando valigie e scatoloni. Poi, stremata, si
addormentò nel grande letto matrimoniale, divenuto tutto suo per quella
notte.
Al risveglio di Letizia, Giovanni era già andato a lavorare senza lasciare
tracce inusuali e la donna telefonò a Vanda, la quale decise felice di farsi
carico lei stessa del trasloco.
Letizia si vestì leggera e percorse a piedi tutta la strada che la divideva
dall’amore.
Aveva preso in affitto un appartamento sullo stesso pianerottolo del suo
Pietro ed era felice.
Sulla porta c’era uno zerbino con su scritto “Welcome”.
Pietro aprì l’uscio e le disse “L’amore è dietro l’angolo”.
NUMBER NINE
La prima volta che mi recai a Roma avevo diciassette anni e la vidi
inizialmente dal cielo, in quel mattino splendente di sole, con nemmeno una
nuvoletta a disturbare il panorama della città.
Avevamo attraversato quel cielo limpido e terso, da nord-est a sud-ovest
verso le dieci del ventidue dicembre, passando sopra edifici, parchi, chiese
e monumenti che mi sembrava di riconoscere, almeno in parte, dall’oblò
dell’aereo, avendoli studiati sui testi di Storia dell’Arte della
Professoressa Rossi al Liceo Classico “ Francesco Petrarca “ di Trieste dove
vivevo dall’età di sei mesi.
Ero rimasta intimidita dall’estensione della Città Eterna, dal verde dei suoi
Parchi, dalla maestosità di San Pietro, dall’Anfiteatro Flavio e dai Fori
Imperiali, da tutte quelle strade colme di pini marittimi, di magnolie, di
ippocastani e dai palazzi con gli attici pieni di fiori variopinti e poi dal
blu scuro del Tirreno sul quale facemmo una virata per prendere l’aerovia di
Fregane più verde che mai.
Era stato merito di mio padre, che portava quel turbo-elica della Compagnia
di Bandiera, se ero riuscita ad ammirare tutto quel ben di Dio.
Nella rotta di avvicinamento all’aeroporto di Fiumicino, aveva chiesto alla
Torre di controllo se avesse potuto sorvolare la città ad una quota di mille
e duecento piedi e quelli gli avevano dato l’autorizzazione, dal momento che
a quell’ ora non c’erano altri aeroplani né in partenza né in arrivo.
Quel viaggio era stato il regalo che aveva voluto farmi per le Feste di
Natale e di Capodanno e per premiarmi per il mio ottimo profitto scolastico.
Egli avrebbe proseguito per il Cairo, poi sarebbe andato ad Atene e quindi
sarebbe tornato a Trieste.
Ma non mi avrebbe abbandonata sola a Roma dove sarei stata ospite della
vedova di un suo grande amico,quasi un fratello per lui, con il quale aveva
volato per più di dieci anni e che aveva quattro figlie, due più o meno della
mia età, le altre più anziane di me, di qualche anno.
Ricordo molto bene l’effetto che Roma ebbe immediatamente su di me non appena
misi il naso fuori dalla carlinga.
Avevo lasciato Trieste immersa in un freddo da brividi e schiaffeggiata dalla
Bora a cento chilometri all’ora ma già a Fiumicino mi parve di respirare un
aria quasi primaverile.
Mio padre mi mise in un taxi e disse all’autista di accompagnarmi in Prati, a
metà strada tra Monte Mario e la Città del Vaticano, in viale Giulio Cesare.
Guardando fuori dal taxi, vidi ciò che non mi sarei mai immaginata : quasi
nessuno indossava un cappotto e nemmeno soprabiti oppure giacconi ed avevano
ragione, fuori mi sembrava il clima di Trieste ad aprile!
In sostanza, quello era il mio primo viaggio vero.
Prima avevo girato molto per tutto il Veneto ed il Friuli, avevo visitato
l’Istria sia sulle coste fino al bel golfo di Pòla ed a quello di Fiume sia
all’interno, conoscendo la grotte di Postumia con le sue meravigliose
stalattiti e stalagmiti ed avevo curiosato attraverso le Alpi Carniche,
Dolomitiche e Trentine ma non avevo conosciuto nessuna città importante ad
eccezione di Venezia.
Finalmente avrei goduto tutto ciò che c’era da godere a Roma e forse avrei
capito il mistero della innata simpatia dei romani, quelli come dicevano a
Trastevere “de Roma”, gente quasi in estinzione per l’invasione che vi era
stata negli anni precedenti della città di un vero e proprio altro popolo
proveniente da tutta l’Italia.
-Miranda, -esclamò la signora Evelina, spalancando gli occhi tristi ed
abbozzando un tenero sorriso mentre spostava gli occhiali che aveva sulla
punta del naso e mi scrutava curiosa da cima a fondo, -come sei cresciuta da
quando ti ho vista l’ultima volta a Trieste! -
Mentre la salutavo con sincera effusione, lei mi disse di entrare e di
mettermi a mio agio, quindi aggiunse.
-Mi piacerebbe che tu passassi queste vacanze con noi in allegria e
soprattutto vorrei che tu mi facessi un grosso piacere. -
-Mi dica signora Evelina, lo farò, ne sia sicura. -
In quel momento la sua voce divenne più calma e meno concitata.
-Mi piacerebbe che tu uscissi con Marina e con Luisa, le mie figlie più
giovani. Stanno sempre a casa sui libri di Ragioneria e sul computer e non
vanno mai a divertirsi. Marina ha la tua età mentre Luisa è nata soltanto un
anno dopo. -
-Sono due brave ragazze e carine come te, ma non è giusto che passino la loro
adolescenza in questo modo e questo per il motivo che le altre due mie figlie
lavorano da diversi anni e loro si vergognano di prendersi qualche svago
mentre le più grandi pensano a tutto per la casa. -
Era chiaro che la donna mostrasse, senza vergogna, un certo disagio ed allo
stesso tempo mi parlasse così semplicemente come se ci fossimo viste ogni
giorno, per anni.
In realtà ero stata avvisata da mio padre, di essere gentile e di portare
molta pazienza senza attendermi particolari festeggiamenti da lei.
Quando pernottava a Roma egli l’andava a trovare spesso ed io sapevo, da mia
mamma, come l’aiutasse con tanta generosità a causa delle sue condizioni
economiche non certamente floride.
Il marito era deceduto subito dopo la nascita di Luisa, lasciandole
unicamente il premio assicurativo che spettava ai piloti morti nell’esercizio
della loro professione e che era misera cosa per un nucleo di cinque persone.
Inoltre non aveva che una miserabile pensione di reversibilità.
Quelli erano tempi in cui lo Stato non interveniva per nulla e che la
pensione era legata al denaro versato, senza aggiunte di sorta. Esisteva, in
più, un modestissimo assegno mensile dell’Inail ma quello aveva la
consistenza di una vera carità pelosa.
Tale era la situazione dei piloti. Guadagni notevoli finché volavano poi, se
qualcuno ci lasciava la pelle un vuoto terribile, tanto che avevo capito il
perché mio padre pagasse ed avesse pagato personalmente grosse somme di
denaro alla RAS ed alle GENERALI, beneficiaria mia madre ed in sua mancanza i
figli in parte uguali.
Io e mio fratello Gianni, di quindici anni, avremmo potuto continuare a
studiare ed avere un certo benessere anche se mio padre fosse scomparso.
Così, sapevo benissimo che non sarei pesata- per quel periodo- economicamente
su loro ed anzi mio padre si era raccomandato di essere larga di manica
quando fossi andata per Roma con qualcuno di quella famiglia e per questo
motivo mi aveva riempita di soldi.
Non c’era nessun altro in casa quando entrai in quel appartamento e la
signora Evelina mi chiese se mi fosse dispiaciuto dormire nella camera di
Marina e di Luisa.
Naturalmente risposi che sarei stata felice di dividere la stanza con le sue
figlie nella speranza che quelle non si fossero trovate in difficoltà per la
mia intrusione.
Alle due in punto dopo mezzogiorno, bussarono Marina e Luisa. Evelina mi
presentò, finalmente rilasciata.
Pranzammo con molto appetito.
Alle tre, noi tre sembravamo vecchie amiche che si scambiavano confidenze e
sorrisi.
Alle sedici, proposi alle due giovani figlie di Evelina di uscire per fare un
po’ di shopping e così avvenne che l’amicizia, appena iniziata, si consolidò
cementandosi.
Ero sempre stata una attenta osservatrice e mi ci volle ben poco per capire
come tra le due fosse Luisa colei che era capace di prendere qualsiasi
decisione e che allo stesso tempo non aveva peli sulla lingua.
Come mi era stato detto aveva appena sedici anni, tuttavia ero certa che
Marina dipendesse da lei in ogni cosa ed allo stesso tempo non riuscisse ad
esprimersi al meglio per non suscitare reazioni o meglio per non dispiacere
la sorella più giovane.
Nel prepararsi ad uscire Marina si rivolse a me e con tanta dolcezza mi
sussurrò ad un orecchio.
-Miranda, non farci caso ma devo chiedere a Luisa cosa è meglio che mi metta
addosso. Abbiamo la stessa statura e la medesima taglia e ci scambiamo spesso
i nostri vestiti ed anche le scarpe. -
-Io l’accontento sempre anche se capisco di sbagliare. Poverina, lei non ha
mai voluto accettare la nostra indigenza ed io la capisco. Non è capricciosa
ma assai orgogliosa. Io mi accontento di essere sempre pulita e basta ma a
lei questo non è sufficiente perché mi dice che non è giusto, alla sua età,
uscire come una poveraccia. -
Così dicendo, si rivolse verso Luisa.
-Cosa ne pensi se io mi metto i tuoi blu jeans azzurri e le tue scarpe avana
e tu invece il mio completo di lana blu notte e le mie scarpe nere, quelle
con i tacchi alti? -
Luisa guardò la sorella maggiore e rispose.
-Perché non lo dici a Miranda che non abbiamo altro di presentabile oltre a
quelli stracci con cui andiamo a scuola? -
Pensai per un attimo, quindi intervenni ridendo.
-Esiste una seconda alternativa. Ho portato da Trieste un vestito nuovo di
zecca ma a me non piace molto. E’ un po’ pesante anche se molto bello.
Facciamo così, dal momento che anch’io non mi distinguo da voi per altezza e
fisico, tu ti metti questo, io i tuoi blu jeans e Marina il suo vestito di
lana blu? -
Con quel mio semplice sacrificio ero riuscita a fare ridere sia Luisa che
Marina ed alla fine, quando uscimmo da casa, eravamo veramente tutte e tre
molto graziose, direi anzi seducenti e con il sorriso stampato sui nostri
visi.
Con la scusa dei regali di Natale, riuscii a convincere le due belle
sorelline ad accettare, su incarico di mio padre, un vero e proprio
guardaroba e per me -continuando a mentire - presi-, sempre riferendomi a mio
padre, che avevo detto non ne capiva niente-, un elegante completo da mezza
sera che non avrei mai indossato, ma che avrei lasciato alle mie nuove
amiche, come mio personale ricordo, alla mia partenza per Trieste.
Nei giorni seguenti, non feci spendere nemmeno un centesimo alle mie amiche
ma in compenso queste mi fecero da guida, attraverso Roma, ai Musei, Piazze,
Fontane, Chiese, Catacombe, Parchi e così via.
Vedemmo insieme lo splendore di piazza di Spagna e Trinità dei Monti tanto
che sia Marina che Luisa sedute sulla famosa scalinata, mi dissero di non
avere mai visto tante cose stupende tutte insieme in così breve tempo.
Per Capodanno fummo invitate a casa di una loro cara amica, figlia di un
importante funzionario di Banca.
Eravamo ospiti graditi in una villa sull’Appia Antica con annessa piscina,
con almeno un centinaio di altre persone allo scoccare della mezzanotte,
quando avvenne un fatto imprevisto ma non impossibile.
Fummo circondate da uno stuolo di giovani universitari che, in piena allegria
goliardica, improvvisarono una serenata romanesca estremamente spiritosa a
base di fiori e sfottò che ebbi l’impressione di avere già sentita in TV,
cantata da Claudio Villa e Gabriella Ferri.
Vidi anche che Luisa era la più corteggiata con quel suo visino da bambina
con il nasino alla francese,capriccioso su un corpo snello e sinuoso e con
quel bel vestito che le avevo regalato in occasione del Natale e che faceva
risaltare, ancora di più, il nero dei suoi occhi oltre al bruno chiaro dei
capelli, ondulati e tagliati molto corti
Ma anch’io e Marina, con i nostri grandi occhi sognanti grigio perla e le
bocche, dalle labbra carnose e sensuali e quel sorriso che, mai si spegneva
sul nostro viso, ricevemmo la nostra parte di complimenti e di seducenti
approcci.
Era veramente un bel gruppetto di giovani pieni di entusiasmo e di voglia di
vivere spensieratamente, almeno in quel frangente.
Ci chiesero se noi due, somigliantissime, fossimo sorelle e Luisa una nostra
amica e noi rispondemmo, ridendo, che non solo eravamo sorelle ma gemelle non
omozigote tanto che, quelli, soddisfatti, ci dissero di avere scommesso su
questa ipotesi, strana dal momento che io avevo un accento nettamente del
nord est.
Il gioco continuò per un po’ed io mi inventai di essere vissuta nella Venezia
Giulia, separata da Marina, durante la scuola media per seguire mio padre
Giudice delle Indagini Preliminari.
Ma subito dopo, insieme, raccontammo la verità tra l’ilarità generale.
Fummo invitate a ballare ed io, che a Trieste avevo frequentato un corso di
balli modernissimi, spopolai e per la mia abilità e per la mia simpatia.
Fino alle tre feci copia fissa con Mauro, un futuro medico al penultimo anno
di corso.
Egli mi fece una corte irresistibile, direi provocatoria ed ottenne da me un
vero bacio, passionale.
Alle tre ed un quarto, chiamai a raccolta Luisa e Marina: avevo promesso ad
Evelina che, al più tardi saremmo tornate per le quattro.
Diedi a Mauro il mio numero telefonico ed il mio indirizzo e così, in questo
semplice modo, innamorata cotta trovai il mio uomo che oggi è mio marito.
NUMBER TEN
“Fabrizio cresce sempre di più ed è davvero bellissimo. Ti invierò sue foto
al più presto.
Ora mi dispiace ma devo lasciarti.
Con affetto, Vincenzo”.
Vincenzo aveva scritto in velocità queste ultime righe da spedire alla
sorella Adriana, magistrato veneziano, in quanto doveva prepararsi per andare
al lavoro.
La sua vita era dura da quando Melissa lo aveva abbandonato con Fabrizio.
Una sera aveva detto: “Esco a comprare le sigarette.”
Non era più tornata.
Ormai era più di un anno che Vincenzo si occupava da solo della crescita di
suo figlio; cercava di garantirgli una vita il più possibile conforme alla
normalità, ma all’asilo tutti i genitori lo guardavano con occhio
compassionevole e lo avvicinavano chiedendogli come facesse ad affrontare una
vita da ragazzo - padre.
I primi tempi erano stati un delirio: l’affitto era troppo costoso al centro
di Roma, il lavoro inconciliabile con le esigenze di quel maschietto e questo
piangeva e strillava sempre acutamente, desideroso della mamma.
L’uomo comprese di dover adattare le sue regole di vita a quelle di suo
figlio: chiese la mobilità per quanto riguardava il lavoro, ridusse al minimo
la vita sociale e si trasferì a Cerveteri, in Via Settevene Palo.
Non sempre era una vita facile, pensava spesso, ma per Fabrizio valeva la
pena viverla fino in fondo.
Era un frugoletto tenerissimo, con gli occhiali moderni e molto legato al
padre.
“Basta pensare, è ora di svegliarlo.” si disse Vicenzo .”.
Dolcemente l’uomo si avvicinò alla testolina di Fabry e, dopo averlo baciato
sulla guancia destra, iniziò dolcemente a fargli il solletico. Il piccolo
rideva divertito, si dimenava ed infine, dopo aver abbracciato una gamba del
suo papà, si alzò svelto dal letto e corse verso la colazione.
Pronti e ben vestiti, i due aprirono il portone e si affacciarono al fresco
settembre che li attendeva.
In macchina canticchiavano canzoncine infantili ed il sorriso del bimbo non
faceva trasparire alcuna ombra di malinconia.
“E’ il bambino più bello e solare che io abbia mai visto” pensò Vincenzo dopo
avergli arruffato i capelli.
Il traffico non era pesante e giunsero in breve tempo all’asilo, dove
Fabrizio avrebbe dovuto frequentare l’ultimo anno.
Scesero dalla macchina ed il bambino corse rapido verso i nuovi giochi ed i
vecchi amichetti, pronti ad aspettarlo in fila per l’altalena.
Vincenzo salutò il suo piccolo e si diresse verso la sua vettura, quando la
voce di Ilaria lo fermò.
“Ciao carissimo! Come stai?”
L’uomo si girò ad abbracciare la vecchia amica e rimase piacevolmente
sorpreso dal suo nuovo look.
Ilaria era una donna cicciotella, ma sempre elegante, ammiccante e simpatica
ed i due si erano conosciuti diversi anni prima, quando frequentavano la
stessa scuola dove ora stavano accompagnando i loro figli.
Congedatosi dall’abbraccio, Vincenzo rispose:
“Sono molto stanco ed impegnato, ma Fabrizio è una bellissima ventata di
freschezza.
E tu, cara mia? Sei una donna felice?”
Ilaria, smorzando un po’ il suo sorriso, disse: “Sono una donna? Sei l’unico
che se ne ricorda!”
Vincenzo si offrì di accompagnarla al lavoro e lei acconsentì.
Giunti al Museo Civico di Cerveteri, Ilaria ringraziò il suo accompagnatore
e, appoggiando le sue morbide labbra sulla sua guancia, gli regalò un
biglietto con su scritto il suo numero di cellulare.
Quando scese, la donna guardò in alto e sorrise.
Vincenzo, si fermo al vicino semaforo, Ilaria fece altrettanto.
Giunto al comando dei Carabinieri, l’uomo venne chiamato per un’uscita
d’emergenza in seguito ad una rapina ad un supermercato. Normale
amministrazione.
Nel viaggio di ritorno dalla sua missione ordinaria, ripensava ai tempi
immediatamente precedenti alla divisa, quando la sua Ilaria era davvero sua e
si amavano tanto.
Erano le 4:e 25 di una dolce alba quando Vincenzo, cullando nella sua nudità
la tenera Ilaria, le aveva detto.
“Mi arruolo come carabiniere.”
Lei si era destata all’improvviso. Lo aveva guardato con gli occhi lucidi ed
aveva mormorato.: “Perché?”
Lui le aveva detto
“C’è chi vuole fare il manager, chi il politico e chi il medico.
E poi c'è chi vuole fare il carabiniere. Perché?
Arruolarsi significa crescere, significa scappare e non sempre è una cosa
negativa lo scappare e iniziare una nuova vita. da soli,. essendo anche
trattati male, se serve.
E poi io voglio stare tra la gente, io amo la gente. Io amo la città, io amo
la strada, io amo sentirmi anzi essere utile. Fare il carabiniere in varie
situazioni significa stare tra la gente, aiutarla, risolvere i problemi e
rischiare la vita per il bene degli altri. Difendere gli altri.
Può anche significare finire in ufficio tra le cartacce. Cartacce però che la
gente compila per essere tutelata, da quella stessa Istituzione. in paradossi
della vita che si rivelano pericolosi, minacciosi, per una infinità di
persone.
Fare il carabiniere può significare avere una vita attiva. Per me significa
anche il solo fatto di portare una divisa, una divisa italiana. Dell'esercito
di quella nazione che adoro, di quel tricolore che adoro. Per il resto, nulla
conta.”
Il cervello di Vincenzo era diventato un turbinio di pensieri nostalgici.
“Se solo potessi tornare indietro e riprendermela quella nudità di Ilaria,
per abbracciarla e dirle che la divisa può andare pure a fare in culo, perché
lei è molto più importante,.”.
Una brusca frenata lo riportò alla realtà. Erano ritornati alla base.
Scese dalla macchina e, prima di rientrare in Questura, lanciò serio uno
sguardo verso il cielo.
Alle quattro e un quarto Vincenzo era all’asilo, pronto ad accogliere a
braccia aperte il suo Fabrizio ed a regalargli un cuore con due orecchie
pronte ad ascoltarlo ed, eventualmente, a confortarlo.
Fabry si avvicinò di fretta e dolcemente chiese al papà di poter giocare al
parco con Valter, il figlio di Ilaria.
Egli acconsentì ed in breve si ritrovarono tutti e quattro riuniti in
quell’enorme distesa verde.
I bimbi giocavano spensierati al pallone mentre i genitori parlavano
imbarazzati del più e del meno.
Ilaria, stringendosi i pugni sulle gambe e arricciando la seta della gonna,
prese coraggio e disse:
“Com’è la divisa?”
Vincenzo la fissò e le disse:
“Amo la divisa. Ma a volte credo che sia la mia prigione.
Per lei ho rinunciato a te, all’amore della mia vita, e quando ho sentito la
chiave che girava nella toppa ho capito davvero che la divisa non era la mia
casa ma la mia prigione.”
E tu? Moglie felice?”
Lei lo fissò intensamente ed esclamò con la voce che aveva assunto una strana
ma prevedibile tristezza. “Moglie.? Ma dimmi dove vivi?”
Fraintendendo la domanda, le rispose: “Qui a Cerveteri, in Via Settevene
Palo.”
Lei, con gli occhi lucidi, disse: “Volevo sapere a che piano si trova il tuo
appartamento.”
Vincenzo la guardò sempre più perplesso e le rispose: “Al primo piano.”
Lei, abbassando lo sguardo, sussurrò.:
“Io vivo invece all’ultimo, di una casa di otto piani e non puoi immaginare
quanto azzurro ci sia lì.”
Poi si alzò, richiamò il suo Valter e salutò frettolosamente Vincenzo e
Fabrizio.
Vincenzo prese in braccio il suo bambino e, guardando in alto, versò una
lacrima.
Ilaria s’incamminò nella direzione opposta e, guardando in basso, rispedì
indietro le lacrime.
NUMBER ELEVEN
- Salve ragazzi,-esclamò Roberta mentre entrava nel Pub stracolmo, impettita
e sculettando e facendo un gesto di saluto con ambedue le mani a quei due del
primo tavolo a destra del piccolo palcoscenico, dove lavorava ormai da un
anno, da cubista, dalla mezzanotte fino alle tre di mattina.
- Salve Roberta, cosa ci hai preparato per stanotte, angelo bruno? -
Chi aveva urlato, cercando di farsi sentire attraverso quel chiasso e quella
musica cubana, era Sergio che tutti indicavano come il figlio di un
“onorevole”e che non mancava, praticamente mai, alle nottate condite di
“salsa” di quel locale di Testaccio -sulla sinistra del Tevere -frequentato
da un sacco di bellimbusti “palestrati,” pieni di grana e di fuoriserie e che
facevano bella mostra di se insieme alle loro maximoto, parcheggiate lì fuori
e nelle vie attorno, fino a Porta San Paolo.
C’era gente di ogni categoria sociale nel Pub “ Romoletto” come del resto nel
quartiere di quella zona antica e collinosa di Roma, che una volta si
distingueva per essere la più popolare della Capitale.
I turisti erano una sparuta minoranza, tutti gli altri erano tronfi di essere
romani e della” Roma”.
Roberta non riusciva ancora a sapere come e perché fosse capitata in quel
locale.
A dire il vero era stata Sandra che l’aveva presentata al proprietario,
raccomandandola e dicendogli che, se l’avesse assunta come cubista, gli
incassi si sarebbero per lo meno triplicati.
Roberta aveva abitato appena fuori dal “Tuscolano” al Quarto Miglio, qualche
chilometro prima di Ciampino, nella casa dei genitori fino a diciotto anni.
Poi dopo avere frequentato, con mille speranze di diventare una ballerina
professionista, una scuola di danza sud- americana aveva sbattuto la testa,
diverse volte, nel tentativo di essere assunta alla Televisione.
I funzionari le avevano promesso mari e monti ma in realtà se la volevano
tutti scopare e basta.
Sandra, la sua amica di sempre, era invece una ragazza meno ambiziosa anche
se altrettanto brava nei balli sud-americani e glielo aveva detto che a lei
interessava soltanto lavorare perché andandosene via da casa esattamente come
Roberta, anche se a venti anni, aveva deciso di vivere da “single” in una
camera ammobiliata dalle parti della ex Borgata Gordiani.
Lo aveva fatto per dare uno schiaffo morale a suo padre, essere odioso e
manesco, nonché pieno di vizi e che faceva lavorare sua moglie come una
schiava per tirare avanti, con grandi sacrifici, la famiglia.
Sandra aveva suggerito a Roberta.
- Adesso che te ne sei andata via da casa, cercati un lavoro ma non
cominciare a fare la puttana anche per il motivo che una volta che ti
dovessero classificare come tale, sei finita! -
- Un lavoro redditizio te lo trovo io al Testaccio. Io lavoro là e ti
garantisco che il proprietario non sa che farsene di sciacquette. A lui
interessa unicamente spennare i suoi clienti che è gente dal portafoglio
gonfio di banconote e non è tipo di chiedere a nessuno come si siano
arricchiti. -
- Però su un punto è intransigente: le ragazze che lavorano nel suo Pub non
devono prostituirsi e se lo fanno perdono il lavoro. Lì si guadagna veramente
molto, quelli te le infilano nelle mutandine i bigliettoni ma nessuno
pretende niente, al massimo, una toccatine di straforo! -
Che il figlio dell’onorevole stravedesse per Roberta era lapalissiano.
Sergio ed il suo amico si sedevano, consumavano abbondantemente birra scura,
senza ubriacarsi ed applaudivano, spellandosi le mani, alle evoluzioni di
Roberta e di Sandra specialmente quando le due si esibivano, con stile da
vere professioniste, su ritmi brasiliani.
Sergio se la mangiava con gli occhi Roberta e le sorrideva ogni qual volta
lei voltava la testa nella sua direzione, mentre i loro sguardi si
intrecciavano in una complicità muta ma tuttavia eloquente.
Quel bel ragazzo che poteva avere, secondo Roberta non più di ventisette
anni, dai modi educati e signorili e che quasi si imbarazzava quando Roberta
gli si avvicinava ed egli metteva, nelle sue minuscole mutandine, il solito
biglietto da venti euro cominciava a piacerle ed ancora maggiormente il
giorno che le lanciò un profumato mazzo di rose rosse.
Anche Sandra era stata omaggiata con un mazzo di mimose di primissima qualità
e quello era stato il modo assolutamente delicato e gentile con il quale sia
Sergio che Flavio avevano voluto presentarsi alle due amiche.
Nel biglietto che accompagnava l’omaggio floreale, nel camerino dove le due
si spogliavano e si rivestivano, lessero.
- Stupende ragazze, che ne direste se voi due, dopo lo spettacolo, accettaste
di essere accompagnate ovunque lo desideriate? L’incipiente Primavera sta
coccolando Roma iniziando dal Granicolo fino a Villa Borghese e dal Palatino
fino a Monte Mario. Perché dire di no alla coppa di gelato che ci aspetta nel
magnifico Bar sotto l’Osservatori Astronomico! Noi due vi aspettiamo fuori,
appoggiati alla Volvo metallizzata di colore rosso amaranto, trepidanti.-
-Sergio e Flavio, i vostri entusiasti ammiratori. -
Oltre a Sergio, il cui nome le era familiare dal momento che egli lo aveva
ripetutamente dichiarato- quasi ogni volta che Roberta gli passava vicino-
con quel sorriso incantatore, Flavio doveva essere per forza il suo fedele
amico e non solo di tavolo, un giovane certamente coetaneo di Sergio ed
altrettanto dall’aspetto serio ed educato con il solo difetto fisico di
essere quasi completamente calvo.
-Cosa facciamo adesso, -esclamò socchiudendo i suoi occhi verdi e sbarazzini,
rivolgendosi con un’aria da furbetta a Sandra, -direi che potremmo accettare
l’invito tanto noi siamo in due e loro mi sembrano diversi da tutti gli altri
clienti, gente - secondo me -poco raccomandabile. -
.-Va bene! Non mi faceva paura mio padre, figuriamoci quei due “figli di
papà” -
Così, rispose Sandra pensando che quella sera avrebbero avuto un taxi privato
per tornare nelle loro rispettive dimore.
Il venticello che soffiava su Monte Mario, alle tre e mezza, era però
freddino tanto che i quattro preferirono accomodarsi all’interno del Bar, a
quell’ora desolatamente vuoto.
Sergio si sfilò la giacca e la mise sulle spalle nude di Roberta mentre
Sandra, tirando fuori dalla capace borsa un golfino di lana, se lo infilò con
manifesta soddisfazione mentre un brividino le correva lungo la schiena.
Non rinunciarono a quelle enormi coppe di gelato ma fecero aggiungere al
gelato una correzione superalcolica.
Per almeno un oretta chiacchierarono del più e del meno con affabilità e solo
quando Roberta disse che si sentiva veramente molto stanca, se ne andarono,
prima ad accompagnare Sandra e Flavio e poi sotto casa di Roberta, dove
Sergio la salutò con un romantico bacio e rammentandole che l’indomani,
lunedì, lei era libera dal lavoro come del resto era sicuro che ricordasse
bene.
Sergio prima di accomiatarsi le riuscì a strappare la promessa che il giorno
dopo avrebbero pranzato insieme, al Centro e che sarebbe passato a prenderla
a mezzogiorno in punto.
L’idea di passare il lunedì con Sergio la eccitò talmente che già alle nove
di mattino era già sveglia e si era già fatta una doccia calda e poi una
fredda come antidoto.
Roberta alle undici si guardò nuda al grande specchio della camera da letto.
Era soddisfatta del suo corpo slanciato e delle gambe perfette ma più di
tutto del suo viso che, pur senza l’ombra di trucco era davvero affascinante
e soavemente giovanile.
Disse “OK” e cominciò a vestirsi di rosa con un abito dello stesso colore di
come si sentiva lei, in quella giornata spendente di sole, sufficientemente
caldo, come il suo cuore nell’attesa di Sergio.
Aggiustò i capelli più neri che castani, ondulati al naturale, con un
acconciatura diversa dal solito e molto semplice in modo da mettere in
risalto il suo profilo pulito di diciannovenne.
Si mise dietro le orecchie un profumo al ciclamino che ancora non aveva mai
usato e che aveva acquistato nella settimana precedente in un negozio di via
Gioberti, dalle parti della Stazione Termini, a prezzo scontato e dopo aver
indossato un bel paio di calze autoreggenti ed un paio di scarpe con i mezzi
tacchi avana scuro, sprofondò in quella unica poltrona di velluto morbido che
rappresentava l’arredamento più costoso di quel modesto bilocale di Piazza
San Giovanni in Laterano.
Guardò l’orologio da polso, un piccolo Omega d’oro bianco e controllò di
essere puntuale all’appuntamento di mezzogiorno.
Immaginò Sergio, come al solito vestito impeccabilmente ed il suo viso
sorridente e disteso.
Come l’avrebbe salutato? Con una stretta di mano o con un piccolo bacio?
Questa idea stava diventando un vero dilemma quando squillò il cellulare.
-Mia piccola Roberta, buon giorno, sei già pronta oppure devo aspettare
ancora molto per vederti? Io sono sotto casa tua dalle undici, non ce la
faccio più! -
-Tu, Sergio? Pensavo che ti fossi scordato del nostro appuntamento! -
-Sono da te in un attimo non essere impaziente! -
Di sotto, Sergio, appoggiato al cofano della Volvo era raggiante. Aprì le
braccia per accoglierla sul suo vigoroso petto e le disse.
-Credo di essere innamorato di te, piccola, tanto che per prima cosa voglio
ringraziare la Madonna che ci ha fatti incontrare! -
-Mi ero ripromesso, tanti anni fa, che avrei portato la mia donna lì nel
quartiere dove sono nato. Se mi dici di sì, tra un quarto d’ora saremo a
Santa Maria in Trastevere, la più antica chiesa di Roma. -
Roberta era ammutolita.
Così in un attimo Sergio le aveva detto non solo di essersi innamorato di lei
ma pure che la riteneva la donna della sua vita e le aveva
svelato,incredibilmente, la promessa che aveva fatto alla Vergine.
Soltanto una cosa non riusciva a comprendere: come poteva, Sergio,
permettersi di correre con l’auto a quella velocità nel traffico caotico del
centro di Roma facendo mille infrazioni e sorridere?
La risposta venne quasi subito.
Due motociclisti della Polizia affiancarono la Volvo ed a sirena spiegate,
accompagnarono la Volvo davanti alla Chiesa di Trastevere.
Roberta era stupita ma non aveva fiatato, tanto era stata la paura di andare
a sbattere.
Appena usciti dall’abitacolo, Sergio fu salutato con grande rispetto dai due
motociclisti mentre egli rivolgendosi a Roberta mormorò a voce bassa.
-Amore, sono il commissario capo della DIA del Lazio e tutti riconoscono la
mia Volvo. In questo periodo, già da tre mesi, sono in convalescenza per
essermi beccato due proiettili in uno scontro a fuoco con mafiosi.
Sono stato in pericolo di morte per due settimane ed anche il mio alter ego,
Flavio, appartiene- come ispettore- alla DIA. -
-Nessuno conosce la mia identità e specialmente dove tu e Sandra lavorate.
Noi della DIA teniamo sotto controllo il PUB “Romoletto” da parecchio tempo
perché, siamo stati avvisati da un informatore, che lì si commercia in
cocaina e noi siamo interessati a trovare e scoprire chi tira le file
dell’importazione. Finora non siamo riusciti ad arrivare al bandolo della
matassa. -
-Ti può apparire strano che io mia sia confidato con te ma non è così, tesoro
mio. Tu diventerai mia moglie e non penso che vorresti rimanere vedova alla
tua età e vedermi cadavere a soli trenta anni. -
-Io ti amo e non ti perderò per nessun motivo. La voce che circola, al
“Romoletto”, che io sia il figlio di un onorevole é una balla fatta circolare
a posta per depistare e per giustificare il denaro che spendo! Sono figlio di
un commissario di Polizia morto nell’esercizio del suo lavoro. Ma adesso
basta con le chiacchiere ed entriamo in Chiesa. -
Passò un minuto che sembrava un secolo con Roberta davanti alla facciata
della Chiesa, decorata da uno splendido mosaico medioevale che rappresenta la
Vergine in trono col Bambino.
Poi, lei prese la mano di Sergio e scrutò profondamente i suoi occhi: erano
limpidi e sinceri.
Egli la introdusse dentro quella Chiesa iniziata nel terzo secolo e terminata
da Giulio Primo ma completamente rinnovata dal Papa Innocenzo Secondo,
trasteverino.
L’Apside con i mosaici di Maria , la minuscola Cappella del Tabernacolo in
stile rococò e quella Avita, considerata la più grande opera barocca- dopo il
Bernini - del grande Raguzzini, la fecero sentire piccolissima ed impotente
di fronte a quell’ uomo, a cui aveva erroneamente dato soltanto ventisette
anni.
Era dunque Sergio colui che il destino le aveva riservato come marito?
Ancora sentiva una grande soggezione ma altrettanto era certa di amarlo.
Allo strano modo che egli aveva avuto di dirle di sposarlo, Roberta sentiva
di non potergli resistere. Il suo carisma lo sentiva a pelle ed era proprio
il modo con cui si comportava che le aveva fatto girare la testa.
Dissero insieme ed ad alta voce una” AVEMARIA” e quindi ambedue felici
uscirono sulla piazza.
Durante il pranzo nel ristorante di fronte, Sergio e Roberta conversarono
fittamente.
Avevano da dirsi milioni di cose, a cominciare dal lavoro di Roberta che lei
avrebbe sicuramente abbandonato, alla data del loro matrimonio ed alla casa
che avrebbero abitato. Al come e quando avrebbero comunicato agli amici che
si sarebbero sposati oppure se avessero dovuto mantenere il segreto sulla la
loro nuova vita.
- Ne discuteremo più in là nel tempo, -affermò Sergio con il sorriso sulle
labbra, - adesso pensiamo a questa bella giornata e dimmi, conosci Roma? -
Roberta arrossì e rispose, dopo averlo baciato appassionatamente davanti a
tutti, -se te lo dico non ci crederai mai. Sono nata a Roma ma la mia vita si
è sempre svolta alla periferia. Della grande Roma, in pratica, non so niente
ad eccezione di quanto ho studiato sui libri di scuola. Sarai tu il mio
anfitrione e me la farai conoscere pezzo per pezzo. Io penso che ci vorrà una
vita intera .
Sergio pagò il conto, piuttosto salato, quindi rivolgendosi alla sua compagna
disse.
-Ho ancora più di un mese di convalescenza da sfruttare e non andrò più al
Testaccio come pure farai anche tu. Impiegheremo tutto questo tempo libero
per vedere le cose maggiormente caratteristiche di questa meravigliosa città.
Anzi cominceremo subito, faremo due passi qui intorno ed andremo a bere
dell’acqua limpida, pura e fresca alla Fontana della Tartarughe, dalle parti
di Piazza Mattei. -
- E’ famosa perché al disegno del Della Porta si sono aggiunte le tartarughe
create dal Bernini ma prima ti porterò alla piazza di “Campo dei Fiori” e lì
vicino a Palazzo Farnese, quello della Tosca. -
Sergio e Roberta, mano nella mano, fecero a piedi tutto quel tragitto e dando
pure uno sguardo a Piazza Navona dove si erano ripromessi, oltre che eterno
amore, di tornare per esaminarla tutta nelle sue eterne meraviglie.
Bevvero l’acqua fresca e trasparente della Fontana delle Tartarughe ma quando
stavano tornando sui loro passi per raggiungere la Volvo parcheggiata nella
Piazza di Trastevere di fronte alla Chiesa, Sergio si
accasciò morto, colpito alla schiena da una raffica di mitra.
NUMBER TWELVE
Rosa stava rientrando da una difficile mattinata di studio, quando scorse
nella sua cassetta della posta una lettera.
Sulla busta non c’era nessun mittente, e si affrettò quindi ad aprirla.
Quando lesse, i suoi occhi versarono lacrime salate.
Era questa la reazione che Andrea si aspettava non appena lei avesse letto la
sua firma su quel pezzo di carta. Non sapeva se Rosa avesse portato a termine
la lettura della sua missiva, ma ci sperava davvero.
L’aveva scritta con immenso rimpianto e farcita con un amore estraneo alla
sua persona.
La loro relazione era stata convulsa e spinosa.
Lei aveva nutrito il suo Andrea di un amore immenso, smisurato ed eterno.
Andrea rappresentava per Rosa il fulcro dei suoi pensieri, il raggio di sole
al mattino, un massaggio lieve sulle spalle, il piumone d’inverno ed il dopo
sole sulla schiena arrossata d’estate.
Lo vestiva quotidianamente di un amore tanto melenso quanto viscerale, in
grado di mettere a tacere i suoi mille segnali di soprusi.
Lui era un uomo rude, dai gesti volgari, di distratte attenzioni e di malsane
parole.
Lui amava i locali di spogliarello, le uscite con gli amici, le puttane ed il
mondo del perverso.
Lei sopportava, stanca ed addolorata, le mancate presenze di quel fantasma.
“Cambierà” si ripeteva illudendosi.
Si faceva forza prendendosi stupidamente in giro e dicendosi “Lui mi ama”,
quando neanche lei sapeva più cosa fosse, per lei, realmente l’amore.
Poi, una fredda mattina di gennaio, lei gli chiuse la porta a chiave e,
credendosi ormai al sicuro, si guardò allo specchio e si dedicò semplicemente
ad amarsi.
Inizialmente Andrea si godette felice e con spirito goliardico gli amici e la
carriera.
Fino ad una calda nottata di luglio, quando l’aria condizionata
spadroneggiava in un lussuoso locale romano dove Andrea festeggiava con gli
amici la sua promozione a dirigente.
Erano tutti allegri ed alticci e gli sguardi delle donne sedute ai tavolini
adiacenti dimostravano a iosa come trovassero ripugnante il loro essere
villosi, il modo avido di mangiare, le loro capacità comunicative piuttosto
scadenti, le urla assordanti ed il loro alito cattivo a dimostrazione delle
condizioni precarie del fegato intossicato da litri di vino d’annata e da
super alcolici.
Andrea appariva narcisista, incivile, barbaro e cafone.
Lo sguardo vanitoso di Andrea cadde su di una caviglia che gli apparve
stranamente familiare. Alzò rapido gli occhi ed incontrò il corpo di Rosa,
della sua Rosa.
La chiave di quella porta stava inaspettatamente girando nella toppa e,
contrariamente ai desideri di Rosa, stava riaprendosi.
Pier Francesco era un uomo stanco, arrabbiato con se stesso e con Dio, malato
da anni e succube delle cure del figlio, Andrea.
Non parlava mai e trascorreva le ore a leggere, utilizzando come segnalibro
una fotografia.
Quando era solo e cosciente di non essere scrutato, osservava quella porta
nella speranza che Lei entrasse.
Lei non era mai entrata mentre la morte si avvicinava, lenta ed implacabile.
Egli chiedeva soltanto al destino di rivederla, ma Lei non si era mai degnata
di andare da lui.
Con la mente risaliva nel tempo ai tanti pensieri delicati del passato,
ricordando con infinita dolcezza quella ragazza ed il loro primo incontro.
Una giovane graziosa, sorridente e garbata : la dolce fidanzata di suo
figlio.
Quel giovane scellerato non la meritava certo una fortuna del genere e tutto
ciò che Pier Francesco sperava era che il suo Andrea la trattasse almeno con
il migliore rispetto possibile.
Purtroppo però, era molto tempo che non aveva avuto modo di avere almeno sue
notizie.
Andrea era sempre stato schivo sull’argomento, liquidando la curiosità del
padre con un secco “Tra noi va tutto bene”.
Pier Francesco, ormai giunto allo stremo delle forze, pianse lacrime amare al
ricordo di quella fanciulla così soave ed educata.
Un giorno, sentendo arrivare la morte per ghermirlo, chiamò suo figlio e,
quando furono con gli occhi negli occhi, gli ordinò: “Devo rivederla.”
Pier Francesco stava forzando la serratura di una porta immaginaria e girava,
contro tutto e tutti, quella chiave con le sue ultime e misere forze.
Giuseppe era un uomo gentile, umile, generoso e fidanzato.
La sua donna era per lui la Dea dell’Universo.
Nonostante conoscesse bene il difficile peregrinare dei suoi giorni prima del
suo arrivo, Giuseppe aveva sopportato con pazienza il racconto di lei sul
quel passato così orribilmente scabroso, le aveva insegnato a vivere
all’insegna del sorriso e soprattutto le aveva insegnato nuovamente cos’era
l’amore ed il rispetto.
Attendeva impaziente l’arrivo di quel freddo pomeriggio per portare la sua
Principessa nella nuova tana, un comodo appartamento nei pressi di San
Pietro.
Sarebbe stata proprio una stupenda sorpresa, di quelle che la sua semplice
Rosa avrebbe decantato a tutte le amiche invidiose per tanto, tanto, troppo
tempo.
E che andassero a quel paese sua sorella ed il suo nuovo fidanzato, che
continuavano a ribadirgli la pessima idea di andare a convivere con una donna
dal passato così burrascoso e difficile.
Quando Rosa giunse da Giuseppe era in lacrime, terrorizzata ed insicura.
Lui le offrì una spalla su cui piangere e sfogarsi, una buona camomilla e
tutta la pazienza che possedeva di riserva per ascoltarla.
“Mi è arrivata una lettera oggi” sussurrò tra i singhiozzi Rosa.
Giuseppe le rispose preoccupato: “Di cosa si tratta?”
Lei, piangendo con forza, disse:
“E’ una lettera di Andrea, il mio ex.”
Giuseppe decise di lasciare il senso di collera per seguire il resto e di
ascoltare con calma ed attenzione il racconto della sua amata.
“E’ assurdo come quel uomo possa riuscire a scardinare, ogni qualvolta lui lo
desideri, la porta della mia vita.” disse con rabbia Rosa.
“Ti prego, spiegami cosa c’era scritto in quella lettera? ”
Rosa prese le mani del suo uomo e, stringendole, iniziò il racconto.
“Nella lettera Andrea scrive di essersi fidanzato ma non innamorato.
Dice che la sua donna è poco avvenente ma molto più giovane di lui.
Che la malattia sta inesorabilmente portando alla morte suo padre, Pier
Francesco, ma non passa giorno che quel pover’uomo non chieda notizie di me.
Andrea è un illusionista, ha illuso perfino suo padre.
Suo padre non sa la verità, nessuno sa la verità.
Andrea è fidanzato con tua sorella Stefania, ma non ama lei.
Lei è solo il miglior tramite che è riuscito a trovare per giungere a me.
E’ me che vuole.”
Giuseppe, stordito e disorientato, chiese a Rosa:
“E mia sorella cosa c’entra in tutta questa vicenda?”
Rosa proseguì.
“Tua sorella non è a conoscenza della verità, lei non sa che Andrea è stato
mio prima di essere suo.
Stefania è la maschera di Andrea che utilizza per Pier Francesco: Andrea
finge che lei sia io e suo padre crede che io sia ancora la sua donna.
Ora quest’uomo malato sta inevitabilmente giungendo al suo appuntamento con
la morte, ma prima che ciò avvenga ha chiesto ad Andrea di potermi
incontrare.
E lui ha dovuto togliersi la maschera con me.
E’ un mostro.”
Non riuscendo più a trattenere le lacrime, Rosa pianse disperata tra le
braccia furenti di Giuseppe.
Ormai la porta era stata completamente abbattuta.
NUMBER THRITEEN
- Dimmelo ancora una volta, -sospirò Licia mentre raccoglieva dall’erba i
propri indumenti sparsi e copriva la sua nudità con un minuscolo fazzolettino
di seta.
- Cosa dovrei ripetere… che già non sai, mio tesoro, -affermò perentoriamente
Raffaele, -che tu sei stata la mia prima donna o che hai una pelle talmente
vellutata da farmi impazzire quando ti accarezzo oppure che sei capace di
ridurmi senza forze ogni volta che facciamo l’amore!? -
- Certo tutto ciò lo so benissimo ma solo oggi ti sei deciso di dirmi che “mi
ami” ed una sola volta! -
- Questo mi addolora, mio caro Raffaele e tu nemmeno immagini quanto mi
rattrista; perché non dirmi mai che “ mi ami “ è un vero affronto alla mia
sensibilità femminile. -
Nel pronunciare questa ultima frase, Licia cominciò a piangere ed a
singhiozzare, finché affranta disse.
- Questa è l’ultima volta che ci vediamo. Non sono una puttana io e nemmeno
una libidinosa. -
- Ho bisogno di un uomo che mi ripeta all’infinito di amarmi e non di una
macchina per fare sesso! Del resto lo sapevi già di questa mia debolezza, non
ti ho mai nascosto nulla della mia vita né dei miei precedenti duri e
scabrosi. Nessuno mi ha mai amato cominciando da mio padre, quel grande
farabutto, lestofante e pedofilo.
- Avevo soltanto sei anni, te lo ripeto quando quello non faceva altro che
toccarmi e stuzzicarmi nei punti più sensibili! Poi, dopo lui mio zio e mio
fratello! -
Licia sembrava a Raffaele sull’orlo di una crisi epilettica tanto si
contorceva per terra, e sbavava dalla bella bocca dalle labbra sottili ma
anche sensuali.
Raffaele cominciava a spaventarsi pensando a quanto le potesse succedere
conciata in quella maniera ed allo stesso tempo cosa avrebbe potuto
raccontare a qualsiasi persona che si fosse avvicinata.
Lo avrebbero preso per uno stupratore o peggio per un serial-killer se Licia
fosse morta per soffocamento.
Doveva immaginarselo prima, appena conosciuta, che quella mezza pazza di
Licia avrebbe potuto metterlo in un vero casino, un casino dal quale gli
sarebbe stato particolarmente difficile- se non impossibile- uscirne illeso e
pulito.
Certo la ragazza gli piaceva.
Le aveva dato non più di venti anni quando l’aveva incontrata, per la prima
volta, assopita in sonno profondo alla periferia della fattoria di suo padre
- tre ettari di terra coltivata a granturco -mentre egli stava cacciando,
assieme alla sua fidata bastardina, le quaglie molto numerose da quelle
parti.
Gli era sembrata un angelo biondo in un vestitino verde pallido troppo corto
per la sua età, con le braccia e le mani sotto il capo e le gambe incrociate
l’una sull’altra, abbandonate ed indifese.
Scalza e bagnata dalla rugiada del mattino, pensò che si trovasse là per puro
caso, forse perché si era persa nella notte calda vagabondando tra un paese e
l’altro della campagna tra Cividale ed Udine.
Raffaele si era chinato su di lei, dopo avere delicatamente appoggiato il
fucile per terra, nell’attesa che quella giovane donna si svegliasse e si
spiegasse.
Soltanto dopo più di un ora, quando il sole era spuntato all’orizzonte ed era
gia abbastanza alto in cielo, la biondina aprì gli occhi e vedendo Raffaele
piegato, a non più di un metro da lei, gridò.
-Non farmi del male giovanotto, sono una poveraccia e non ho un centesimo. Mi
chiamo Licia e posso solo dirti che sono scappata da casa una settimana fa. -
-Non chiamare i carabinieri, per favore, e dammi un pezzo di pane che sono
due giorni interi che non mangio. -
- La mia famiglia non esiste e nemmeno io esisto! Tutti mi odiano e vogliono
la mia morte. Ho paura della morte ma ancora di più ho paura di vivere come
sono vissuta fino adesso, stuprata da ogni uomo che ho incontrato, da mio
padre all’ultimo contadino che mi ha conosciuta. -
-Vorrei proprio sapere che male ho fatto per essere ridotta così ed ancora
che gusto provate voi uomini a violentare le donne! -
Era una storia completamente inventata oppure vera?
L’uomo propendeva per la prima ipotesi ma stranamente si accorse che parlava
un italiano pulito e senza inflessioni dialettali, cosa questa davvero
incredibile.
Raffaele, riflettendo con la massima calma, decise che quella doveva essere
una debole di mente e che vagabondava soltanto per il motivo che nessuno
aveva pensato di curarle un evidente stato depressivo forse per ignoranza
oppure per menefreghismo. A naso, Raffaele ebbe l’impressione che si
trattasse di una sindrome maniacale con annessa ipocondria.
Non sapendo che fare, ma incantato dalla sua morbida bellezza, Raffaele la
portò con se nella casa al centro di quel appezzamento di terreno.
Raffaele viveva da solo ma c’era un vecchio mezzadro che badava alle
coltivazioni e gli faceva guadagnare dei bei soldi alla fine di ogni anno.
La battuta di caccia era andata a farsi friggere, altro che quaglie!
Licia era molto meglio di venti quaglie ed una volta fatta una bella doccia
rigenerante, essersi pettinata ed avere indossato una vestaglia vecchia ma
pulita di Raffaele, che le arrivava fino ai piedi ora indossanti degli
zoccoli scovati in uno sgabuzzino, aver bevuto una tazza di latte bollente e
mangiato dell’ottimo pane con marmellata, si mise a raccontare.
- E’ la prima volta, in vita mia. che un uomo mi tratta così gentilmente
senza chiedermi nulla in cambio. Tu hai davanti una semianalfabeta che ha
seguito - e male- soltanto le Elementari! Ma se tu mi avessi conosciuta molto
tempo fa ti saresti meravigliato di quanti libri abbia letto, in pratica
soltanto quelli sono stati i miei unici amici. -
- Dopo tutto quello che ho passato nella mia infanzia e nella mia
adolescenza, sarei impazzita se non avessi avuto le mie letture che una
veccia saggia del mio paese mi passava periodicamente, io credo, unicamente
per pietà. -
- Credo di essermi ammalata di dolore e non parlo di quello fisico ma in
particolare di quello spirituale e sono convinta di essere diventata per metà
pazza. Ho un’idea tutta mia dell’amore. Questo deve essere durevole,
faticoso, difficile e se potessi esprimere un desiderio direi “ sofferto “e
talmente profondo da diventare anziana ed anche vecchia amando un solo uomo,
diverso da me ma capace di integrarsi in me”.
- Voglio essere amata e sentirmelo dire ogni minuto ma credo che tutto ciò
sia una pia illusione. -
Raffaele era rimasto silenzioso nell’ascoltarla,
Quella ragazza doveva essere molto intelligente, molto di più di quanto
potesse dire la sua non comune avvenenza. Gli pareva che, se fosse stata
veramente sincera nei suoi racconti, non avrebbe mai più potuto incontrarne
un’altra simile.
Le prese le mani ruvide e cominciò ad accarezzarle con tutto il sentimento e
l’affetto che lei era riuscita a fare emergere dalla sua anima inaridita da
quella vita che a trentadue anni aveva condotto sempre in solitudine e
talvolta piangendo.
Raffaele era orfano di ambedue i genitori e finché era sopravvissuta la
nonna, nella sua vita c’era stata almeno una donna.
Poi si era chiuso in se stesso e tirava a campare senza pensare a nulla ad
eccezione del come sbarcare il lunario anche se il suo mezzadro era una
persona onestissima e molto legato a quel giovane uomo.
Raffaele aveva sempre pensato “meglio soli che male accompagnati “ ma ,
quella mattina, pensò invece “meglio rischiare piuttosto che morire di
inedia”.
Per farla breve, Raffaele disse a Licia di sentire una enorme tenerezza nei
suoi confronti, che non voleva sapere altro della sua vita passata e che, se
anche lei fosse stata d’accordo, l’avrebbe accolta come una principessa nella
sua casa come la sua fedele compagna.
I due cominciarono così a vivere insieme ma mentre Raffaele continuava la
vita che aveva sempre condotto, Licia perdeva ore ed ore a leggere e
scrivere, su dei quadernetti, fitto- fitto.
Raffaele era felice che Licia si impegnasse tanto per migliorarsi e per
sopperire da sola alle lacune di un curriculum scolastico tra i più poveri.
Poi, Licia era diventata sorridente ed all’uomo sembrava che stesse guarendo,
in modo spontaneo e da sola, dall’ ansia depressiva suo punto debole
caratteriale.
Tra l’altro, quel quotidiano impegno riusciva a renderla ancora maggiormente
gradevole e bella, simpatica e tenerissima amante.
Un giorno lei gli disse che aveva scritto il Romanzo della sua vita,
suscitando l’ilarità di Raffaele e che sarebbe andata in città da un editore
per vedere se quello intendesse pubblicarlo.
Quando tornò a casa, Licia entusiasta disse.
- Ecco il contratto. Farà una prima edizione di diecimila copie ed a me
spetterà un euro a libro. Capisci cosa significa questo? Se le cose andranno
bene, pubblicherà anche una seconda e poi una terza edizione, ciascuna di
venticinquemila copie ma io non incasserò più un euro a libro, ma due. -
Raffaele era rimasto come una statua di pietra, annichilito. Non poteva più
fare a meno di Licia ma adesso con tutti quei soldi…, cosa avrebbe partorito
il suo cervello?
Proprio il giorno prima si era ricordato della minaccia che lei gli aveva
fatto, mesi prima sul prato, dichiarando a Raffaele che se ne sarebbe andata
se lui non le avesse detto ogni minuto “TI AMO” e che non era una puttana!
Raffaele accarezzò dolcemente i capelli lunghi e biondi di Licia, prese un
cartone ed uno spago e se lo legò al collo. Ci aveva scritto un minuto prima,
con un pennarello rosso.
“ LICIA ; AMORE MIO; IO TI AMO MA TU DEVI LEGGERE OGNI MINUTO QUESTO CARTELLO
CHE NON MI LEVERO’- NEMMENO DI NOTTE -DAL COLLO “.
Otto anni dopo, quando Licia era divenuta una scrittrice famosa - aveva anche
vinto il premio “Bancarella”- ed erano andati ad abitare a Udine in un
attico-superattico di tutto rispetto, lei, mentre faceva distrattamente all’
amore con Raffaele e questo non la finiva più di dirle il monotono “ ti amo
“,improvvisamente esclamò.
- Raffaele adesso ne ho abbastanza di sentirtelo ripetere ogni minuto! Pensa
invece a fare l’amore come si deve perché io sono stufa del tuo tran-tran
ripetitivo, inventati qualcosa di maggiormente eccitante almeno che tu non
desideri diventare il più grande cornuto di Udine! -
Raffaele strabuzzò gli occhi e smise di colpo il “ti amo” che aveva sempre
odiato. Smise pure di fare sesso ed avvicinatosi con la bocca alle orecchie
di lei, sussurrò.
- Non mi ero sbagliato sul tuo conto: tu sei pazza da legare ed io sono stato
ancora più pazzo di te nello sposarti. Adesso chiederò il divorzio per colpa
tua e mi manterrai con i tuoi soldi, passandomi fior di alimenti essendo io
il soggetto economicamente più debole tra noi due. Così dice la legge e così
farò alla faccia tua. -
Non c’era ombra di stizza in quelle parole ma soltanto la nostalgia del tempo
in cui era solo ed andava a caccia di quaglie nella penombra del granturco
della sua fattoria con la sua bastardina.
NUMBER FOURTEEN
Quel bastardo!!! Lei lo aveva sempre saputo, non ne conosceva la ragione ma
ne era sempre stata certa.
Marta si prese la testa tra le mani accasciandosi seduta sul letto, con il
capo all’ingiù. I suoi lunghi capelli neri si mossero all’unisono,
verticalizzandosi, vinti dalla forza di gravità.
Come sempre faceva nei momenti di crisi o nervosismo, senza accorgersene,
iniziò a mordicchiarsi le sue belle labbra carnose che, a pensarci bene,
erano così “cicciotelle” probabilmente proprio a causa di quel “tic nervoso”
che la possedeva sin da bambina.
Un solo pensiero balenava in quella mente: lei aveva avuto sempre ragione!!!
Tony era stato sempre molto furbo, l’aveva fatta franca per anni… ma ora lei
sapeva, a ragione, di non essere la “pazza gelosa” che tutti quanti
credevano.
Un passo falso! Aveva finalmente fatto un passo falso. Marta sentiva
risuonare nella testa le voci delle sue amiche che Le dicevano: “Basta, sei
troppo gelosa! Lascia in pace quel povero Cristo innocente che un giorno o
l’altro, se continui così, ti tradisce veramente con la prima venuta”.
- Vipere!!! – urlò di colpo – Bastarde e vipere!!! Vi ricaccerò in gola tutto
quello che mi avete detto in questi anni!!! -
Poi, sfruttando tutta la potenza dei suoi tricipiti femorali allenati da
centinaia di ore di “Spinning” e “G.A.G.” (ndr. Ginnastica specifica per
glutei, addominali e gambe), si alzò di scatto dal letto afferrando
repentinamente, con la mano sinistra, la cornice d’argento di Zia Alba
(argento vero, falso?... boh, mai saputo) in cui era riposta e conservata,
quasi come una reliquia, la sua prima foto insieme a Tony.
Guardò intensamente quel bel “quadretto felice”… così intensamente che gli
parve di scorgere, finalmente, un sorrisetto ironico (a mo’ di Gioconda) di
Tony, di cui mai si era accorta prima.
Si’ pensò, lui già da allora mi tradiva! Ne ero certa.
Prese la cornice annessa di foto e con un movimento plastico degno del
miglior Joe Di Maggio la scaraventò sul muro.
La cornice non si ruppe e cadde, integra, a terra.
Come la cornice, quasi in un gesto estremo di emulazione, anche Marta si
accasciò per terra completamente nuda e bagnata così com’era uscita dalla
doccia appena qualche minuto prima.
Era una fallita, non era riuscita nemmeno a portare a termine una cosa così
semplice come spaccare una stupida cornice.
Improvvisamente si mise ad inveire urlando:
- Bastardo, proprio oggi che avremmo potuto festeggiare il mio contratto da
vice-redattore col giornale!!! Ho fatto bene a non dirti niente, tanto a te
ti frega solo di te stesso!!! Vigliacco e carogna… -
Era stato il destino ad aprirle gli occhi, facendole trovare il cellulare di
Tony proprio lì sulla lavatrice, vicino la sua schiuma da barba alle essenze
di Aloa, così emollienti per la pelle.
Certo, Tony sapeva che lei era completamente negata con qualsivoglia
diavoleria tecnologica… microonde, computer, telefonino… ma avrebbe dovuto
immaginare che la sua curiosità sarebbe stata più forte ed avrebbe avuto il
sopravvento sulla sua “ignoranza”.
Tony doveva stare più attento…
Cosa dire, era stato relativamente semplice.
Prese nuovamente il telefonino di Tony dalla tasca del suo accappatoio e, per
la seconda volta di lì a pochi minuti, spinse MENU - MESSAGGI - LEGGI
MESSAGGI.
Tra i messaggi scelse “AMOUR” e pensò tra sé e sé “Che stupido bastardo, ha
pure registrato in rubrica il suo “nomignolo”… era proprio sicuro che non lo
leggessi! Che imbecille! “
Poi spinse “OK” per visualizzare il messaggio e lesse, lesse di nuovo…
Da: Amour
Tutto a posto x l’app.
di stasera alle 21.00.
Ci vediamo nel posto stabilito.
Cherì Mon Amour
Eccola lì la prova… davanti ai suoi occhi… pensò ancora “Quella melensa
figlia di puttana lo chiama pure Amore… in francese… io odio i francesi”
Tony doveva pagare per tutto. Per le bugie, per i tradimenti negati in tutti
questi anni, per averla fatta sentire 1.000 volte stupida ed inadeguata a
causa di quella gelosia che lui definiva “una malattia”.
- Ipocrita bastardo - sussurrò da terra mentre il rivolo di una lacrima le
raggiunse la bocca - stasera pagherai tutto. -
Non fece in tempo a finire la frase che il telefono di casa suonò.
Marta si alzò e, con un movimento quasi meccanico, si avvicinò al telefono e,
contrariamente al suo vero stato d'animo, rispose pacatamente:
- Pronto? -
- Ciao amore, sono io. Esco proprio ora da un cliente e sono in macchina -
- Stavo facendo la doccia - la voce di Marta era quieta, gelida, non tradiva
emozione alcuna.
- Marta, ti sento strana… che c’è, tutto ok? -
- Si, Tony - mentì - Ho solo freddo, vengo dalla doccia e sono ancora
bagnata. Dimmi. -
- Senti, scusa ma stasera faccio un po’ più tardi che devo sistemare una
faccenda del negozio. Facciamo così - aggiunse - tu rilassati un po’ davanti
alla televisione… appena finisco arrivo e mangiamo insieme. Ce la fai a
resistere? -
“Stronzo” pensò Marta “…prima ti fai la tua amichetta e poi vieni da me a
concludere la serata.”
- Certo amore - disse Marta - ma potresti passare prima di qui per vedere la
doccia? -
Improvvisò.
- L’acqua calda non esce quasi per niente ed io sono rimasta ancora
insaponata. -
- Marta, è proprio necessario?... Ho un paio di cose urgenti da fare. -
- Dai amore, - sussurrò Marta sforzandosi di ottenere una voce che potesse
apparire la più dolce possibile - vieni qui… 5 minuti soli, poi torni dai
tuoi clienti -
- Ok piccola, lo faccio solo per te. Tra mezz’ora sono lì. -
- Ciao -
- Ciao -
Marta chiuse il telefono. Aveva solo 20 minuti per preparare tutto e lei non
si ricordava dove diavolo aveva messo i cacciavite piccoli!!!
Puntuale, mezz’ora dopo, Tony arrivò.
Marta sentì il tintinnio metallico prodotto dalle chiavi che si percuotono
l’una contro l’altra mentre Tony inseriva la chiave nella serratura. In quel
istante preciso capì che oramai doveva arrivare sino in fondo. Mai più
nessuno l’avrebbe fatta sentire stupida!!!
- Amore, ciao… - disse Tony sorridendo - Dai, che sono di fretta… devo fare
quelle cose importanti di cui ti dicevo prima al telefono-
Lei abbozzò un mezzo sorriso e pensò “So io cosa devi fare, porco bastardo.”
- Certo Tony, andiamo in bagno. Se ti sbrighi riesco a finire la doccia… come
vedi ho ancora l’accappatoio e sono tutta insaponata. Mica potevo lavarmi con
l’acqua gelata in pieno inverno! -
- Ok, ci penso io -
Tony si diresse diritto verso il bagno e non fece certo caso allo sguardo
della sua Marta, uno sguardo intralice, senza emozioni, quasi assente.
Tony entrò nel box della doccia. Con un gesto veloce e sicuro aprì il
rubinetto “rosso” dell’acqua calda e fece anche in tempo ad esclamare:
- Ma qui l’acqua esce!!! -
Marta, in quel preciso istante, spinse l’interruttore dello scaldabagno su
“ON”.
Dopotutto non era poi così stupida ed incapace ad usare tutto ciò che era
“elettrico” come diceva il “suo Tony”…
I fili dello scaldabagno erano stati collegati in modo esemplare sulla
calotta metallica della doccia e l’elettricità alternata da 220 Volt stava
viaggiando perfettamente dai fili alla calotta, dalla calotta all’acqua,
dall’acqua alle mani di Tony.
Tony morì senza nemmeno un urlo, forse perché la sua dipartita finale era
stata troppo “veloce”, forse perché la lingua, dal calore della scossa, gli
si era “saldata” al palato impedendogli di proferire parole o suoni di sorta.
“Tutto sommato una morte veloce ed abbastanza indolore, consona ad un
bastardo traditore come lui” pensò Marta.
Dopo una trentina di secondi Marta spinse, con la punta di una penna “Bic”,
l’interruttore dello scaldabagno su “OFF”.
Tony aveva smesso di tremare già da una decina di secondi… era certamente
morto.
Ora Marta doveva preparare la “messa in scena”, svestire Tony, avvitare
nuovamente i fili elettrici sullo scaldabagno, ripulire il vestito di Tony e
metterlo in ammollo nella bacinella con quel famoso detersivo che smacchia…
insomma, doveva procedere con molta precisione per rendere credibile una
disgrazia… e doveva farlo velocemente!!!
Mentre stava armeggiando col 2° filo, quello rosso, sullo scaldabagno squillò
il cellulare di Marta.
Le fu subito chiaro che doveva rispondere. Avrebbe potuto eventualmente
rendere più reale quella scenografia raccontando all’ancora anonimo
interlocutore qualche particolare non richiesto… che ne so… della macchia di
Tony, del suo rientro… oppure… non lo sapeva neanche lei.
Decise che avrebbe improvvisato.
Rispose.
Era Luca, il socio di Tony.
- Marta, ciao! Senti, volevo dirti che ieri ho incontrato Valeria, la tua
collega del giornale. Mi ha detto del tuo contratto… complimenti!!! Ora sei
una “vice-redattore d.o.c.” a tutti gli effetti!!! -
Poi continuò - Devi scusarmi, ma non ce l’ho proprio fatta a trattenermi… ho
detto tutto ieri sera a Tony… era contentissimo e credo che voglia farti
qualche sorpresina! -
Marta ascoltò tutto ma non proferì parola,… né Luca gliene diede
l’opportunità.
- Va beh, ora ti lascio, ancora tante congratulazioni e auguroni per la
serata con Tony. Un bacio. Ci sentiamo. Ciao.-
- Ciao - fu l’unica parola che Marta riuscì a dire.
In un momento, senza spostarsi da dov’era, frugò in tasca dell’accappatoio
che ancora indossava. Il telefono era ancora lì.
Lo prese, lo accese e spinse MENU - MESSAGGI - LEGGI MESSAGGI.
Si portò su “AMOUR” e spinse OK per leggere nuovamente il messaggio:
Da: Amour
Tutto a posto x l’app.
di stasera alle 21.00.
Ci vediamo nel posto stabilito.
Cherì Mon Amour
Questa volta fece caso a quella minuscola freccia diagonale posizionata nella
parte inferiore destra dello schermo LCD del cellulare di Tony.
Spinse sulla tastiera il tasto corrispondente alla freccia verso il basso.
Il messaggio aveva un’altra schermata.
La lesse.
Da: Amour
La ringrazia per aver scelto il suo servizio di catering a domicilio
Customer Service
Cherì Mon amour S.r.l.
In un istante realizzò.
Si accasciò per terra e, mentre singhiozzava disperatamente, Le vennero in
mente quelle parole che il suo amore, Tony, le aveva detto così tante volte:
- Marta, Marta, sei troppo superficiale… Hai sempre troppa fretta di
adoperare le cose elettroniche che compri… e poi va a finire che non riesci
mai ad usarle bene... -
- Amore, ricordati sempre… prima leggi le istruzioni!!! … prima leggi le
istruzioni!!! -
NUMBER FIVETEEN
A Francesca Corsi, una volta superato l’esame di maturità, al Liceo
Scientifico “ Augusto Righi” di via Boncompagni di Roma con un bel “60”, si
prospettarono due possibilità entrambe piacevoli.
Una era quella di farsi assumere, con la raccomandazione pesantissima di suo
padre l’ing. Valerio Corsi, amministratore delegato della SPA “ Chicchi di
caffè Roma Rio ed Arabia Saudita “, come impiegata di secondo livello con uno
stipendio iniziale di almeno mille e settecento euro al mese, con tredicesima
e quattordicesima -oltre al mese di ferie all’anno garantito ed alcuni premi
“ una tantum “ - e quindi essere costretta a sposarsi il più presto possibile
con Renato Fosco, quel commercialista - amico di famiglia - e gradito al
padre ma specialmente a sua madre Marta che per lui stravedeva, l’altra era
di oziare e fare l’amante - fino a che fosse durato - dell’unico uomo al
mondo in grado di farle perdere la testa, il giovane ad aitante vice
direttore del Reparto Politico del Carcere di Rebibbia sulla via Tiburtina,
il dr. Vincenzo Paolini, figlio del costruttore edile più ricco e conosciuto
di Roma.
Con Vincenzo, si poteva levare qualsiasi sfizio anche molto costoso ma non
avrebbe mai potuto sposarlo, perché quello aveva già una moglie alla quale
era assai legato, a causa delle due gemelle di soli due anni che amava
perdutamente e delle quali era senza dubbio succube.
Però questo, per Francesca, non era un problema anzi si presentava come un
vantaggio.
Il vantaggio di potere comportarsi come un lussuoso giocattolo per lui alla
stregua, per dire, di una fuoriserie di gran nome oppure di uno yacht d’alto
mare, oggetti questi desiderati da ogni uomo ricco e sempre disponibili ma
senza pretese ulteriori e soprattutto muti, silenziosi e fedeli che mai
avrebbero potuto infrangere il suo matrimonio.
Francesca desiderava essere viziata e levarsi tanti sassolini dalle scarpe
con i suoi capricci costosi e che lui mai rifiutava di esaudire.
Ben altri erano i suoi problemi
Sessualmente andavano d’accordo, anzi l’erotismo tra la coppia arrivava a
limiti del tutto assurdi.
Egli però era un uomo che mentre amava sentirsi libero con ogni donna con cui
andava a letto impazziva al solo pensiero di essere tradito.
Al contrario, Francesca aveva la mania di essere spensierata e desiderava di
non condizionare la propria vita con legami troppo impegnativi
Vincenzo voleva, - e su questo era categorico, - essere il solo uomo di
Francesca, quella diciannovenne tutto seno e sedere che egli pretendeva solo
per se, comprese le scenate di gelosia che erano per l’uomo all’ordine del
giorno, come condimento al piatto forte rappresentato da quella perfetta
femmina.
Scartando entrambe le due possibilità più semplici Francesca, dopo attenta
riflessione, decise di prendere la strada maggiormente ardua, faticosa ed
allo stesso tempo più impegnativa.
Si sarebbe laureata velocemente in Psicologia Criminale e non avrebbe del
tutto tagliato i ponti con Vincenzo che l’avrebbe aiutata, una volta
laureata, ad entrare in una ottima posizione lavorativa - come consulente -,
nel Carcere romano.
Francesca conosceva molto bene come era fatta ed altrettanto bene era capace
di distinguere i propri pochi pregi dai molti difetti.
Era certamente una ragazza assai intelligente e dotata di un ottimo sex
appeal. tremendamente menefreghista nei confronti di tutti i suoi coetanei,
vogliosa di stupire tutti, ambiziosa ed allo stesso tempo in grado di
schiacciare chiunque potesse ostacolarla nei suoi progetti, fossero costoro
soltanto conoscenti, pseudo amici oppure addirittura familiari.
Del resto era sempre stata così fin da piccola ed unicamente sua madre,
Marta, l’aveva analizzata fin nel profondo sperando però che un bel giorno
potesse cambiare.
Ed era per questo motivo che era stata insistente con sua figlia nel tentare
di combinarle un matrimonio con Renato Fosco.
Tutto era stato inutile, con Francesca fermamente decisa di seguire una
strada nuova completamente in autonomia, col solo onere per la famiglia di
mantenerla agli studi universitari ancora per quattro anni.
Non aveva voluto dare altre spiegazioni né tanto meno parlare del suo privato
ignorato totalmente anche da suo padre.
In fondo, Francesca era una ragazza ultra moderna, non unica nel suo genere
dal momento che anche altre ragazze della sua età agivano e si comportavano
più o meno nella stessa maniera.
C’era però nel suo carattere un fatto che la rendeva speciale: la tendenza ad
analizzare l’animo ed il cervello di tanti uomini e donne che, per motivi
inspiegabili e talora conditi da ideologie le più varie possibili, erano
diventati dei veri mostri.
Prima ancora di iscriversi a Psicologia, aveva letto tutto su Cesare Lombroso
che, partendo da una concezione del tutto materialistica dell’uomo, aveva
cercato di spiegare con anomalie fisiche (caratteri degenerativi lombrosiani)
la degenerazione morale del delinquente, tale da provocare tra l’altro
l’ottundimento della sensibilità dolorifica.
Soltanto in seguito le tesi di Enrico Ferri e di altri riuscirono a fare
breccia nello stesso Lombroso che, (senza tuttavia tradire le sue prime
intuizioni) accanto ai fattori individuali, sottolineò anche l’importanza dei
fattori sociali e politici nelle sue ulteriori ricerche sull’Antropologia
Criminale.
Fu in quel momento che Francesca capì - leggendo “Genio e Follia” e
“l’Etiologia del Delitto”- come il suo interesse si stava allargando, dalla
criminologia politica a quella, inconcepibilmente in forte aumento,
riguardanti fatti orribili della comune cronaca nera quotidiana.
A quel puntò, Francesca capì anche che sarebbe stato riduttivo laurearsi in
Psicologia poiché avrebbe dovuto, invece, diventare Psichiatra - il che
comportava un vero scombussolamento nei suoi precedenti piani-.
Era necessario dipendere dai genitori non più per soli quattro anni ma almeno
per dieci, tanto ci voleva per ottenere prima una laurea in Medicina e poi
una specializzazione in Neuro-Psichiatria.
Fu molto difficile mantenere il ritmo degli esami a Medicina.
Il tempo era ristretto tra un esame e l’altro e Francesca che aveva preso
alla “garibaldina” e di petto il programma e le scadenze stava diventando,
senza accorgersene un’altra persona.
Giocoforza, passava più tempo a studiare ed a frequentare le corsie che a
distrarsi almeno un pochino.
Anche le frequentazioni con Vincenzo erano rare e cosa che la meravigliava
immensamente era che i precedenti desideri sessuali stavano del tutto
scomparendo.
Francesca credeva ciecamente che poteva oltre che doveva diventare prima di
tutto un ottimo medico, senza tuttavia perdere di vista la specializzazione,
che le era entrata nell’anima, di capire il perché un sacco di gente
continuasse a delinquere in modo strano ed allo stesso tempo senza pentimenti
di sorta.
In famiglia tutti la elogiavano ma sua mamma, al solito, era sempre molto
preoccupata per quella immensa fatica che non sfuggiva alla sua attenzione.
Qualche volta le aveva detto che sentiva dentro di se che non sarebbe mai
diventata nonna ma erano soltanto attimi di confidenza che Francesca
palesemente non gradiva.
Quella figliola, sempre così difficile da interpretare, sembrava essere
drogata da quella passione che di istinto aveva avvertito improvvisamente e
Marta, non vista, spesso piangeva pensando come Francesca stesse
inesorabilmente allontanandosi dal mondo reale.
Dieci anni dopo, esame dopo esame, perizie dopo perizie Francesca era
diventata un pozzo di scienza in neuro psichiatria consumando sui libri quasi
tutta la sua gioventù.
Mancavano pochi mesi al suo compleanno: avrebbe compiuto trenta anni
esattamente il 10 dicembre, inaridita e sola come un cane.
Era tutto colpa sua ma con la vita che aveva condotto, quel compleanno
sarebbe stato il più triste ed orribile della sua vita.
Senza amici, senza lasciarsi andare nemmeno con i suoi colleghi alla minima
confidenza.
Con i genitori ormai alle soglie del rincoglionimento totale a causa, sia
degli affari che non andavano più bene -tanto che suo padre avrebbe dovuto
difendersi dall’accusa di bancarotta fraudolenta assieme al suo amato
commercialista Renato Fosco -e sia a causa di quella figlia che consideravano
ancora più pazza dei suoi cari pazienti, reclusi a Rebibbia, dove quello che
era stato il suo amante era stato - già da sette anni -trasferito al
Penitenziario di Porto Azzurro all’isola d’Elba.
Francesca cercava di non pensarci.
Era solamente una idiozia farsi il fegato amaro per un semplice ed idiota
compleanno, tuttavia di notte- sola nel suo letto - non riusciva a dormire
tranquilla, anzi in quelle poche ore di sonno strappate all’insonnia con una
doppia camomilla, il tempo era riempito da sogni angoscianti, ricorrenti.
Il peggiore era quello di vedersi il viso in uno specchio che le deformava i
lineamenti.
Zigomi sporgenti, naso camuso, fronte bassissima, mento sfuggente ed occhi
piccoli ravvicinati erano quelli che erano stati descritti dal Lombroso come
segnali inequivocabili di una personalità deviata e criminale.
Dunque, anche lei era tra coloro che erano segnati dalla follia omicida!
Lentamente, Francesca, pur continuando a fare il suo lavoro di psichiatra al
servizio dello Stato, si era convinta di essere in procinto di scatenare
improvvisamente la sua deviazione genetica su qualche essere umano senza
alcuna motivazione.
Penosamente Francesca giunse al dieci dicembre ed in quella data in una
solitudine lacerante, per colpa dei suoi studi e dei convincimenti tratti dai
testi sacri della Psichiatria Forense, prese dall’armadietto dell’infermeria
di Rebibbia tutto il contenuto di un flacone di Roipnol ed in silenzio,
chiusasi nella sua personale stanzetta di medico, morì dormendo il sonno dei
giusti.
NUMBER SIXTEEN
Il bel viso disteso di Noemi cambiò bruscamente di espressione divenendo non
solo preoccupato ma anche spaventato quando sentì aprirsi l’uscio della suo
studio, l’ultima stanza a destra del corridoio.
Il colore azzurro chiaro degli occhi prese una sfumatura più scura, la bocca
assunse una piega amara e la fronte le si aggrottò mentre le mani eleganti,
dalle dita lunghe ed affusolate, si strinsero in due pugni troppo piccoli per
qualsiasi tipo di difesa.
Il pensiero fu più veloce dello sguardo nel raggiungere la porta che stava
per spalancarsi mentre Noemi si era alzata di scatto dalla poltroncina di
pelle nera, dietro la pesante scrivania di noce massello, dove fino ad un
attimo prima stava scrivendo la lettera di addio a suo marito, Paolo
Francisco.
Non aveva avuto nessun dubbio, era proprio lui Paolo Francisco quello che le
si presentò, arrogante e spavaldo, davanti.
-E brava la mia adorabile moglie!
Esclamò Francisco in evidente stato di ubriachezza accostandosi a Noemi
tremante.
-Io ti uccido, maledetta, sei stata tu a rovinarmi l’esistenza con quel tuo
aspetto angelico, falso ed ipocrita e con la tua maledetta musica e tutti
quei maledetti soldi che mi hanno costretto ad una lotta impari con te. -
- Hai creduto, cretina, che ti avrei seguita come un cane bastardo in giro
per tutti i tuoi concerti idioti in mezzo a quelle capre dei tuoi fanatici
ammiratori. -
Francisco, paonazzo, si fermò quasi ansimando. Prese fiato e prendendola per
le spalle scuotendola urlò.
-Cosa credevi, minorata psichica che io, Paolo Francisco Perez , discendente
dei conti delle Asturie, avrei potuto sopportare la condizione di mantenuto
di una borghesoccia di quattro soldi? -
-Per questo tu, infame, mi hai costretto prima a buttarmi negli affari
-riguardo ai quali sono negato- e poi a tentare la fortuna nel gioco
d’azzardo. Adesso che sono sul lastrico, per completare il quadro, ho saputo
che mi vuoi pure lasciare! -
Noemi, investita da quella tempesta di frasi, aveva fatto appena in tempo di
ridurre in una pallottola di carta la lettera che stava scrivendo e di
gettarla sotto la tenda che copriva le grandi finestre della stanza.
Poi, riacquistando il suo normale sangue freddo, aveva deciso di cambiare il
tema della furente discussione.
Sorridendo prese dalla scrivania un bicchiere, metà pieno, di caffè freddo e
disse con la sua voce dolce e suadente.
-Che dici mai, amore mio, devi bere questo caffè sono sicura che ti farà
molto bene. Forse hai bevuto un po’troppo a pranzo e forse ora sei troppo
stanco, in ogni caso ti giuro che non ho mai nemmeno lontanamente pensato di
lasciare te, l’uomo che ho sposato soltanto per amore e per il quale sarei
disposta di fare qualsiasi cosa. -
-Non ti preoccupare, tesoro, hai perduto molto questa notte? Dimmi quanto, ti
faccio subito un assegno e per il resto devi ricordarti che io sono la tua
micia e tu il mio bel micio spagnolo. Se qualcuno sparla di me tu non
ascoltarlo ma “guarda e passa”: l’importante è che io non posso vivere senza
di te. -
Noemi aveva studiato canto ma non recitazione. Era soddisfatta di se stessa e
quasi si pentiva di non avere tentato anche la carriera dell’attrice.
Era sicura di avere salvato la pelle con un semplice assegno di centomila
euro, il suo cachet per una sola serata.
A sistemare Paolo Francisco avrebbe pensato in un altro momento. Quel verme
lei non solo non lo voleva più tra i piedi, meglio se fosse morto!
Paolo Francisco si era tranquillizzato nel breve spazio di tempo di un paio
di giorni mentre Noemi, che aveva nel frattempo disdetto i propri concerti
per due settimane, aveva deciso - ma non sapeva ancora come -di sbarazzarsi
in qualsiasi maniera di lui.
Non era una cosa molto semplice studiare un piano perfetto ma Noemi sapeva
che, anche se tutto poteva sembrare impossibile, lei ne sarebbe stata capace.
Noemi studiò più di una possibilità ma, pur passando pure le notti in bianco,
ne aveva già scartate più di una decina anche se, in verità, ad una possibile
costruzione omicida si era affezionata.
Lo avrebbe ucciso e nessuno avrebbe mai potuto scoprire il colpevole e tanto
meno avrebbe potuto pensare a lei, nemmeno per pura ipotesi.
Intanto, per prima cosa, era necessario che Paolo Francisco si fidasse di lei
nuovamente e ciecamente e così la bionda Noemi pensò di non ricorrere al
fascino dei suoi grandi occhi azzurri ma piuttosto al proprio irresistibile
sex appeal.
Paolo Francisco non aveva mai visto fino a quel momento, per tante volte al
giorno, il corpo affascinante della moglie, nudo o quasi, girare per casa con
l’esibizione impudica del suo bacino provocante e di quelle lunghe e perfette
gambe talmente lisce da sembrare coperte di seta!
Tutta la rabbia e l’odio che le aveva manifestato, soltanto pochi giorni
prima, erano svaniti nel nulla.
Nella mente del nobiluomo era subentrato prepotentemente il desiderio di
possederla anche quattro o cinque volte al giorno col risultato, previsto da
Noemi, che egli non risultasse più potente sessualmente.
Paolo Francisco assumeva già da circa un anno, dopo un attacco lieve di
angina dei farmaci a base di nitroglicerina di nascosto- almeno così credeva
- di Noemi, come ad esempio la trinitrina.
Noemi lo provocava incessantemente anche con atteggiamenti inequivocabilmente
erotici e questo incalzandolo, pur vedendo come l’uomo si fosse ridotto al
lumicino.
Così, il giorno in cui Paolo Francisco disse, - Noemi, per favore, facciamo
una sosta, ti prego, vestiti un pochino di più tanto ho capito che mi ami
perdutamente ,- lei, ormai certa che il suo piano sarebbe andato in porto
felicemente, rispose, manifestando il suo disappunto.
-Proprio adesso, tesoro, che mi sono rodata al punto giusto mi vuoi mollare
mentre ardo come tu non puoi nemmeno lontanamente immaginare!-
-Prenditi qualche pillola di Viagra, amore. -
-Fuori città, a metà strada dal mare, mi hanno riferito che esiste una
Farmacia che te lo può passare anche senza ricetta medica, Stai tranquillo,
io ti aspetto qui in ansia. -
Paolo Francisco, il discendente della nobile famiglia spagnola delle Asturie,
a quel punto prese la sua veloce decappottabile e senza badare affatto ai
limiti di velocità, in pochissimo tempo, si trovò dentro la Farmacia
indicatagli dalla moglie.
- Dottoressa, -mormorò gentilmente, - mi dia tre scatole di Viagra. -
-.Tre scatole, - chiese quella che pareva una vecchia zitella, -ma cosa ne
deve fare, amico, non ha l’impressione di esagerare? -
- Lei non conosce Noemi,- rispose l’uomo, dal momento che in quel momento non
c’era nessun cliente ad ascoltare, -è una vera Circe anzi peggio, è una
piovra oceanica affamata e capace di stritolare chiunque! -
- Mi ascolti mio bel signore, - affermò la zitella vestita del camice bianco
sorridendo e mostrando tutte le sue rughe, -se vuole un consiglio glielo do
subito; adesso le preparo una mia pozione, una specie di sedativo sessuale
che io stessa ho inventato ed anche sperimentato…-
- Diventerà un agnellino innocente ed in particolare frigido ed innocuo! -
La vecchia zitella sogghignò quasi tronfia di se stessa.
Stava pensando a se stessa ed in qualche modo voleva vendicarsi di quella
sconosciuta Noemi che stava mandando al massacro quel distinto signore,
poverino, così sciupato.
Quel tipo col pizzetto ed i baffetti le piaceva veramente tanto. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa per lui.
Entrò nel retrobottega, prese una bottiglietta di vetro e la confezionò con
camomilla, zucchero ed un flaconcino intero di digitale- che avrebbe ucciso
anche un terranova per arresto cardiaco-, applicando in fine una etichetta
scritta a mano con la parola “Camomilla “ .
La vecchia farmacista pensò tra se e se, mentre salutava affabilmente Paolo
Francisco: “cara Noemi piuttosto di dartelo a te, ti faccio fuori con questa
mia camomilla corretta! “
Un ora dopo Paolo Francisco era già di ritorno e mentre oltrepassava il
portone, prese due compresse del farmaco appena acquistato e ridendo si
accostò a Noemi, come al solito lasciva e discinta. Esclamò.
-Eccomi, adesso ti faccio vedere io l’effetto del Viagra! -
Paolo Francisco non sapeva che tra le controindicazioni del Viagra c’era pure
quella di non somministrarlo a chi facesse uso di nitroglicerina.
Si spogliò anche lui nudo come un verme ed in breve tempo la donna cominciò a
vedere il turgido membro, rosso ed affamato.
Noemi, mentre la saliva le era del tutto scomparsa dalla bocca, ebbe soltanto
il tempo di riflettere in un attimo -“oh Gesù, ma io scherzavo ed ora che
faccio…”-, che girandosi verso il comodino, intravide la bottiglietta di
vetro con la scritta in ben evidenza “Camomilla”.
La magnifica bionda, superdotata, ebbe l’idea di eliminare contemporaneamente
sete ed agitazione approfittando di quella camomilla.
Allungò la mano verso quel liquido e d’un fiato lo trangugiò tutto e
completamente.
Paolo Francisco e Noemi si avvinghiarono l’uno all’altra ,come se fossero
incollati, per buoni dieci minuti e poi, stramazzando non ebbero nemmeno il
tempo di emettere un pur minimo suono, dalle loro bocche serrate,
comprensibile.
Quando la cameriera non avendo udito nessun rumore, da lì a poco, entrò
sbatacchiando la porta nella camera da letto per riordinarla, urlò come una
indemoniata.
Alla Squadra della Polizia , immediatamente chiamata, si presentò una scena
che se non fosse stata macabra aveva tutta l’aria di essere esilarante: i due
erano entrambi morti ma non separabili perché uniti, da una specie di vite a
pressione, nelle parti intime.
Il sostituto che venne subito chiamato archiviò il caso “come morte
accidentale durante la copula”.
Nessuna ulteriore indagine venne fatta e così finì amaramente la storia tra
Noemi ed il nobiluomo Paolo Francisco.
NUMBER SEVENTEEN
Un paio di chilometri oltre largo Prenestre, la Borgata Gordiani non esisteva
più.
L’avevano rasa al suolo ed al suo posto era stato costruito un bel
Parco-Giardino con alberi, viottoli, prati verdi e giostre.
I tanti abusivi di quelle vecchie baracche erano stati smistati in altre case
costruite dall’ICIAP in zone molto lontane e più che periferiche della città.
Tony e la sua famiglia invece non avevano voluto abbandonare quella zona,
dove come tanti altri “romani” vivevano i più disperati e maldestri- figli
del Cupolone-, quelli che venivano dal vecchio centro di Roma e che privi di
lavori remunerativi, dopo avere intascato una buona uscita in denaro contante
si erano costruiti una baracca alla Gordiani e perlomeno non avevano più il
pensiero di pagare un affitto come invece succedeva a Trastevere dove Tony ed
i suoi fratelli e sorelle, in tutto tre di cui due femmine, erano nati.
Il padre di Tony aveva trovato un piccolo appartamento al “ Quarticciolo “,
relativamente poco distante dalla ex Borgata Gordiani e lì quello era
cresciuto tra gente nuova ma romana verace come tutti della sua famiglia.
Tony era l’amico prediletto di tutti i coetanei ma in particolare di Teodoro,
un vero indiscusso boss.
- Vacce piano a coso… lo voj sdrumà? -
Il buttafuori aveva preso per il bavero della giacca Tony e strattonandolo,
con una abile mossa di Karatè controllata, lo aveva disteso per terra
semisvenuto.
Chi era intervenuto, apostrofandolo, era stato Teodoro -per gli amici e
nenici “Teo il rosso”-, l’inseparabile compagno di sempre di Tony, quello che
era considerato il capo o meglio super-boss da tutti i ragazzi della borgata
romana del “ Quarticciolo”in fondo alla via Prenestina prima del raccordo
anulare.
“Il rosso” aveva continuato,
-Nun fa’ er cojone, mica semo ‘mmigrati meridionali. Semo de Roma e nun te
volemo fa’ casino! -
-A bellooo…, te vojo dà ‘n consijo….: tu e li amici tua, nun ve mettete
contro de noi o so’ cazzi amari! -
Teo era veramente un capo e lo si vedeva specialmente quando la sua banda si
muoveva di notte e non per fare rapine ma soltanto per rompere le scatole a
quelli di “ San Basilio”.
Quelli di San Basilio, erano considerati da loro” romani da generazioni” dei
figli di puttana: discendenti da nuclei di calabresi, siciliani, abruzzesi,
molisani ed altri ancora i quali, approfittando dell’esplosione edilizia
della città - quaranta anni prima - si erano impossessati di mote zone
periferiche di Roma trasformandole in una vera fabbrica di drogati, troie e
loro protettori oltre che di rapinatori assassini.
Per essere onesti e sinceri, i primi arrivati erano poveri cristi, quasi
tutti manovali o al massimo muratori, morti di fame e quasi tutti sposati con
un mucchio di figli piccolissimi lerci ed affamati.
Ma proprio quei disgraziati dei loro figli tradendo anche i loro genitori, si
erano scatenati, una volta divenuti adolescenti ed adulti, diventando dei
veri e propri banditi.
Nemmeno la Polizia ed i Carabinieri riuscivano ad arginare le loro azioni più
che delittuose e quindi quelli del Quarticciolo si erano imposti una regola
ferrea.
Nessuno di San Basilio poteva girare, in particolare di notte, per la via
Prenestina ed in particolare i drogati e gli spacciatori, nonché quelle troie
delle loro donne.
Una volta Teo lo aveva detto al commissario del Quadraro.
-Ci dia carta bianca e nel giro di tre mesi non esisteranno più drogati da
queste parti e nemmeno quelle che battono da qui fino a tutta “Tor Pignatara”
e lungo la “Tuscolana”, impestando la nostra gente con lo scolo, la sifilide
o peggio con l’AIDS.-
Quello dell’AIDS era per Teo, Tony e tutti gli altri del suo gruppo un
pensiero fisso.
Se la era presa Pietro, il giovane che abitava nel suo stesso edificio e
soltanto Teo e pochi altri sapevano che morte orribile avesse fatto: la
candidosi gli aveva distrutto tutto l’apparato digerente ma quella era stata
una cosa minima in confronto alla Toxoplasmosi del miocardio e cerebrale!
Non lo avrebbe mai più dimenticato Pietro, quel ragazzo che era stato con lui
alle elementari ed i suoi genitori poveracci, gente che tirava a campare con
una bancarella di frutta a Piazza Vittorio.
Teo e Tony lo avevano assistito al “Ramazzini” fino alla fine quando la
polmonite e l’herpes se lo erano portato via!
Teo e Tony tra l’altro sapevano che “quelli di San Basilio” avevano
l’abitudine di fornirsi di soldi con svariate rapine e che spesso il rapinato
ci lasciava la pelle.
Il commissario del Quadraro conosceva Teo ed anche Tony ed avrebbe potuto
giurare che, in fondo, erano due bravi ragazzi.
Così, a quella richiesta impertinente di Teo, aveva risposto.
-Ragazzi, facciamo così, voi indagate e poi mi riferite. Instauriamo una
collaborazione ed io vi prometto che avrete la mia protezione, non solo, ma
che qualche soddisfazione potrete prendervela da voi stessi.
-Allora,- rispose Teo,-noi dobbiamo dare una lezione al buttafuori della “
PERA MATURA “, è uno di San Basilio e sono sicuro che spaccia droga ai suoi
amici della Discoteca: quindi lei ci promette che non farete una retata…? -
-Va bene così, - affermò quello,- darò ordini precisi ai miei agenti ed
all’ispettore che li comanda. Però mi raccomando ragazzi niente armi di
nessun genere! -
Teo era riuscito a coprire le spalle al nostro gruppo. L’azione che si era
prefissata era di scovare il porco che forniva l’eroina, la coca e l’estasi
in quel locale dove di ”roba” ne girava tanta .
Il piano era di provocare una rissa col buttafuori all’esterno del locale,
possibilmente sulla strada che quello faceva prima di cominciare a lavorare.
Questo si serviva di una Honda 750 per i suoi tragitti, il gruppo di Teo e di
Tony di scooter di cilindrate inferiori ma anche queste veloci e molto più
agili della maximoto del figlio del calabrese, da tutti conosciuto come “il
carpentiere dalle mani d’oro”.
Così, tre giorni più tardi, di venerdì, Antonio fu in trappola sulla strada,
piuttosto buia ed isolata, che dalla Tiburtina costeggiava Ponte Mammolo
mentre verso le ventitré si dirigeva velocemente alla “PERA MATURA”.
Un grosso tronco mimetizzato, messo di traverso alla strada, l’aveva
costretto non solo ad una brusca frenata ma pure a buttarsi sul prato alla
sinistra della carreggiata.
I ragazzi di Teo gli furono immediatamente addosso col volto coperto dai
caschi e mentre lo pestavano di santa ragione con calci e pugni, lo
perquisirono trovandogli addosso almeno dieci bustine di eroina e circa una
cinquantina di pastiglie di estasi.
Teo, camuffando la voce, disse.
- Adesso, almeno che tu ne abbia a sufficienza di campare, devi sputare e
subito i nomi di quei maiali che ti forniscono le dosi. Se parli hai salva la
vita, inventati qualsiasi cosa ma devi essere chiaro ed esauriente e non
raccontarci balle perché altrimenti, la prossima volta che ti becchiamo, sei
morto. -
Nel dire così, Teo gli sferro due pugni micidiali, in pieno stomaco ed in
bocca, tali che Antonio vomitò sangue ed un paio di denti.
Antonio si era pisciato addosso per la paura che quel gruppo appartenesse
alla Sezione Antidroga della Dia e piangendo e lamentandosi che comunque gli
altri lo avrebbero ammazzato come un cane, disse due nomi e due indirizzi,
supplicando che non facessero in ogni caso il suo nome.
Come erano giunti in quel posto come fantasmi sbucati nella notte buia, così
il gruppo di Teo svanì nel nulla.
Passarono la notte a casa di Fabio, dove quello viveva solo, aspettando il
giorno dopo per recarsi dal commissario del Quadraro.
Ci sarebbero andati, oltre a Teo, anche Tony con tutta la “roba” sequestrata
e con quei due nomi ed indirizzi forniti da Antonio.
Ci pensò la Squadra Antidroga ad arrestare i grossisti con tanto di mandati
del P.M., ma il nome di Antonio non venne mai a galla.
Quello era il compenso che il figlio “del”carpentiere dalle mani d’oro” aveva
ricevuto per aver collaborato ma in più, per merito di Teo, egli mantenne il
posto di buttafuori nella stessa discoteca “LA PERA MATURA” che aveva
cambiato immediatamente di gestione ed era stata acquistata, in una asta
giudiziaria da una Società appartenente alla CRIMINAL POOL.
Teo e Tony fecero il concorso alla Polizia di Stato e i due giovani del
Quarticiolo divennero, col tempo, i migliori agenti alle dirette dipendenze
dell’ex commissario del Quadraro, promosso- per meriti speciali- a Vice
Questore di Roma.
Teo e Tony ebbero ciascuno due figli, un maschio ed una femmina.
Questi si sposarono tra loro e così i due amici che erano stati due
possibili, futuri e tremendi mezzi delinquenti divennero con suoceri oltre ad
essere sempre stati compagni inseparabili.
Oggi a Roma quasi tutti conoscono la storia del Gobbo del Quarticciolo,
riguardo al quale si è creata una vera leggenda e sul quale anche CINECITTA’
ha prodotto un famoso film, ma solo pochi le imprese del nucleo antidroga nel
quale hanno dato un grandioso contributo quei due amici che, come semplici
agenti e poi appuntati, hanno ripulito con il loro pericoloso lavoro, mal
pagato, interi quartieri di quella Roma sconosciuta ai più.
Soltanto quando “Teo il Rosso” morì in un conflitto a fuoco ingaggiato dalla
banda della Magliana, qualcuno si ricordò di consegnare una medaglia
d’argento alla sua vedova e questa di raccontare come sia possibile vivere
anche in una grande città onestamente e morire per servire lo Stato ed i
propri concittadini.
NUMBER EIGHTEEN
Ignazio aveva trovato refrigerio nella sua chiesetta di Venezia ed era
inginocchiato con la sua recente tunica nera quando arrivò a fargli visita il
giovane Luciano, amico d’infanzia.
“Carissimo, cosa posso fare per te?”, chiese premuroso Ignazio.
“Ignazio, sono qui nella speranza di non far vacillare la tua fede,” gli
disse triste.
Il prete, preoccupato ed esprimendo tutto lo sgomento che sentiva salirgli
dentro incupendo il proprio sguardo, chiese all’amico di proseguire nel
racconto.
“Ignazio, ti prego, siediti. E’ davvero una questione delicata, oppure credi
che io stia esagerando?.”
Quando il religioso si accomodò, Luciano cercò di trovare le giuste parole,
adeguate a spiegare la situazione in tutta la sua drammaticità.
“Ti ricordi di Lara?”
Ignazio, con una nuova e più sofferta ombra nello sguardo, assentì guardando
dritto negli occhi il giovane amico e toccando il rosario che gli cadeva
penzoloni dalla cintura lo pregò di continuare.
“Come potrei mai dimenticare quella adorabile ed amabile creatura? L’ho amata
con tutta la mia anima, ma poi Dio ha bussato alla porta della mia vita ed ho
scelto lui come compagno. Non posso immaginare quanto sia stata grande la
delusione e la sofferenza del suo cuore ma lei, generosamente, ha cercato di
comprendere e di accettare la mia volontà con un gran segno di altruismo. Era
con certezza la donna della mia vita.”.
Accortosi di essere caduto in difficili sentimentalismi, Ignazio s’interruppe
e chiese al suo interlocutore cosa le fosse successo.
“Lara ha rivisto Giuseppe, dopo molto tempo, l’altra sera ed hanno avuto una
violenta discussione. Lui, insistentemente, voleva ricominciare con lei ma
Lara gli ha spiegato che stava soffrendo ancora per te, che voleva dedicarsi
a se stessa e che comunque non gradiva le minestre riscaldate.
Lui ingannevole, cambiando repentinamente atteggiamento, si era proposto di
accompagnarla a casa e lei, ingenuamente credendo che avesse capito e
dandogli comunque fiducia, accettò,
Di colpo, come se fosse stato preso da un raptus, improvvisamente Giuseppe
aveva stretto Lara per le spalle e l’aveva spinta verso un percorso lontano
dalla sua abitazione.
Lara si era trovata sbattuta in una buia calle con il respiro di quel animale
addosso.
E’ stata ritrovata stordita, quasi esamine, all’alba della mattina seguente
con i vestiti strappati ed il sangue che le cospargeva gambe e corpo.
E’ stata accompagnata in ospedale dove hanno confermato la violenza e lo
stupro.“
Don Ignazio, sconvolto ed impotente, si era inginocchiato con le lacrime che
gli rigavano il viso ed aveva chiesto al suo Dio una qualsiasi spiegazione
valida.
“Lara è l’essere umano migliore del mondo”, mormorò, “perché le vuoi
distruggere, anima e cuore?”
Così facendo, alzò lo sguardo verso l’iconografia di Gesù .
Lara era sdraiata, immersa nel profumato bagno schiuma, dentro la vasca con
gli occhi puntati nel vuoto verso ciò che era stato e che non sarebbe stato
più, quando udì la voce di sua madre parlare mestamente con un uomo. Balzò in
piedi nell’udire la voce concitata ed allo stesso tempo rabbiosa di Ignazio.
Era lui.
Non aveva dubbi.
Indossò, rapida, un morbido accappatoio fresco di bucato e si chiuse alle
spalle la porta, correndo poi lungo il corridoio ed introducendosi nella sua
camera, dove regnava il buio e dove nessuno poteva vederla così prostrata
dalla violenza subita.
La speranza di non sentire più addosso il sudiciume che sentiva accompagnarla
da quella maledetta notte e che non riusciva ad andarsene e la sua tristezza
incommensurabile erano utopie che non potevano svanire.
Il suo viso si bagnò di lacrime nella speranza che tutto quel pianto salato
potesse levarle di dosso l’odore di quella bestia ed i suoi gesti.
Sua madre cercò di interrompere i suoi pensieri e, con una tenera voce
dall’altra parte dell’uscio, le propose inutilmente di vedere Ignazio che la
attendeva impaziente ed emozionato in salotto.
Rassegnata, la signora Arianna si rivolse al prete spiegandole che sua figlia
viveva come se avesse fatto piazza pulita degli ultimi anni della sua
esistenza e fosse tornata ad essere una bambina.
Lara, attaccata al muro di cartongesso, ascoltava i discorsi della mamma.
Era vero: gli ultimi anni della sua vita era come se non li avesse mai
vissuti. Aveva fatto un enorme sforzo di volontà per poterli distruggere,
come se fossero stati un sogno angosciante ed era ciò che, almeno, avrebbe
voluto fare credere a tutti!
Un momento dopo, sentì Ignazio raccomandarsi di aver cura di Lara e di
chiamarlo in caso di necessità.
In casa cadde il silenzio.
Nella mente di Lara il silenzio però non esisteva più e probabilmente non
avrebbe potuto mai più esistere; c’era insistente solo il respiro affannoso
di Giuseppe, i suoi occhi rossi di lussuria ed i suoi violenti rumori.
Raggomitolata in quel letto troppo stretto per lei ed il suo compagno di
vita, quel senso d’immondo che ancora la perseguitava, riprese a piangere a
dirotto. Poi sospirò cercando di trovare pace.
Don Ignazio passeggiò lentamente lungo le umidi calli di Venezia.
Ora non aveva più fretta, non aveva più fretta di tornare da Dio.
“Perché Lara non ha accettato di vedermi?
Se ci fossi stato io a proteggerla nessuno le avrebbe mai messo le mani
addosso.”
Calmatosi, si rivolse nuovamente a Dio.
“Perché mi stai facendo affrontare questa prova così dura?
Ho sacrificato una vita di successo, con la donna che amavo, per cosa?
Per un Dio che ha permesso che Lara fosse violentata?
Perché mio Dio, perché?”
Don Ignazio, giunto a fatica nella sua chiesa, incontrò il vecchio parroco,
Don Luigi.
Sperando che Dio avesse messo quell’uomo sulla sua strada per poter
rispondere alle sue domande, gli sorrise. L’anziano sacerdote disse.
“Sei turbato, Ignazio?”
“Si padre.
Amavo una donna.
L’amavo profondamente, come se lei potesse essere la mia compagna di vita.
Poi però è arrivata la chiamata di Dio.
Siamo stati ad un battesimo della sua nipotina Veronica ed io ero emozionato.
Credevo fosse per quella piccola bimba, invece Dio mi si stava manifestando.
Lara voleva sempre fare l’amore e pretendeva le mie attenzioni.
Io la desideravo eppure sentivo nell’anima qualcosa di sbagliato, qualcosa
che potesse ferire Dio.
Poi, c’è stata la morte di mio padre Duilio.
E’ stato un infarto fulminante per entrambi: Dio si è completamente scoperto
a me e mi ha invitato a seguirlo nel suo cammino, per divenire “pescatore di
uomini”.
Ignazio rimase silenzioso ed assorto per qualche lungo minuto. Poi prese a
mormorare.
“Ho abbandonato Lara, mia madre tanto bisognosa di me, per quella vocazione
verso Dio.
Ed ora quella che doveva diventare mia moglie è stata violentata da un bruto
e soffre davvero troppo.
Perché Dio ha permesso che una donna di elevata integrità morale come lei
fosse calpestata ed umiliata?
Perché ha dovuto punirla in questo modo così atroce ?
Se Dio doveva mettermi alla prova, perché ha scelto Lara?”
Padre Luigi, allungando la mano e disse:
“Dio opera in modo imperscrutabile.
Non è una punizione, devi lasciarti cullare nelle mani del Creatore.
Lui sa e può tutto.
Lui ama te e Lara e soffre con voi.
Tu sei un granulo del suo mosaico, sei un colore del suo magnifico disegno.
Tu sii solo la mina della matita, e lascia che sia Dio a dipingere il suo
quadro eterno.”
Ignazio sorrise a Luigi e, uscendo dalla cappella, alzò gli occhi al cielo.
Nella mattina seguente Padre Ignazio preparò il confessionale per tutte
quelle anime desiderose di essere perdonate.
La prima persona che si presentò fu, come spesso accadeva, il signor Aldo
Gilberli, un simpatico settantenne desideroso di confidare al prete la sua
quotidianità con sua moglie Ada.
“Padre, stanotte quella vipera di mia moglie mi ha mandato a dormire sul
divano perché russavo eccessivamente.
Poi, quando non riusciva più a dormire e si lamentava del mio profondo
russare, è venuta a svegliarmi tirandomi per i piedi. Ma si rende conto?!?”
Don Ignazio, a cui scappò un lieve risolino, si fece intrattenere ancora un
po’ dalle avventure di quel semplice vecchietto e poi lo assolse,
rimandandolo a casa da quella paziente e dolce padrona che era poi sua moglie
da più di cinquanta primavere.
Mentre il signor Gilberli procedeva verso l’uscita della chiesa, Ignazio
avvertì un senso di malinconia verso ciò che aveva perduto con quella tunica.
Il signor Aldo fu seguito da un uomo giovane, trasandato e dall’aria poco
rassicurante.
Si inginocchiò maldestramente e chiese al prete di assolverlo dai suoi
peccati.
Ignazio replicò che prima di poterlo sollevare dai suoi falli doveva sapere
di cosa si trattava.
L’uomo prese la parola:
“Io amavo quella donna, la mia donna.
Poi lei ha chiuso il nostro rapporto bruscamente dicendomi di essersi
avvicinata ad un altro uomo.
Io ho cercato di lasciarla libera, libera di vivere, libera d’amare.
Ma mentre lei viveva io non vivevo, mentre lei amava un altro io amavo lei.
Quando l’ho rivista, l’ho pregata di amarmi ancora.
Ma quella mi ha respinto con violenza e così è esploso il mio lato maschile:
l’ho violentata.”
Ignazio, visibilmente turbato, uscì rapidamente dal confessionale e l’uomo
paonazzo ed in preda ad un attacco isterico corse via, allontanandosi nella
calura delle calli veneziane.
Lara spuntò da un calle opposta a quella da cui scappava Giuseppe, ignara di
ciò che era appena avvenuto.
L’espressione d’Ignazio mutò dall’indignazione alla felicità.
Prima che il prete potesse dirle qualsiasi cosa, la donna corse da lui e,
nonostante la tunica, lo abbracciò e lo baciò a fior di labbra.
NUMBER NINETEEN
L’ingegner Mario viveva una vita pianificata e tranquilla con due figli ed
una mogliettina ideale, la signora Amanda, fin quando un’avvocatessa di nome
Carlotta attraversò la sua vita sconvolgendola.
La giovane giurista stava per convolare a giuste nozze con Ezio, imprenditore
nel campo dell’abbigliamento, amatissimo dai genitori della ragazza per le
sue tante qualità ed i suoi sani principi tra i quali, la sua ineccepibile
condotta.
Anche l’ingegnere era considerato una persona pacata e dalla vita ordinata,
ma nessuno sapeva come quella reputazione fosse sbagliata addosso a lui.
In casa di amici, Mario incontrò Carlotta: si cercarono, si accarezzarono
lievemente il corpo, bevvero insieme e risero divertiti e complici.
Non un colpo di fulmine, qualcosa di più.
Qualcosa di poco gestibile, qualcosa che sconquassava le loro vite agiate ed
organizzate, qualcosa che annullava i loro freni.
Non c’era tempo per riflettere.
Si videro segretamente l’indomani ed erano già così fisicamente vicini, in
modo appassionato e primitivo, da essere spaventati dagli impulsi che i loro
bollenti corpi emanavano.
Si amavano di un amore folle, difficile, di un amore che avrebbe potuto
essere disprezzato, condannato ed infine invidiato se fosse stato reso
pubblico.
Mario era allegro e gioviale: poco importava se per una volta alimentava di
meno il lato professionale della sua vita. Vi ci si era dedicato talmente
tanto che, per un breve periodo, poteva anche concedersi qualche piccola
distrazione: ora era innamorato e niente era più magico che trovarsi mano
nella mano con la sua Carlotta.
La relazione tra i due iniziò presto a sbattere contro molteplici spigoli.
Carlotta si trovò davvero presa dalla nuova situazione.
L’industriale, un po’ in ritardo, se ne stava rendendo conto e, proprio in
virtù dei sani principi da tutti tanto decantati, si inalberò.
Velocemente, la notizia più che gustosa, non ebbe confini.
Nell’udire come la situazione stesse cambiando anche i genitori della legale
si offesero per la scelta operata da Carlotta che, a parer loro, aveva
dimenticato gli irreprensibili concetti di moralità per avventurarsi con uno
scellerato sposato, con figli.
Le intimarono quindi di abbandonare qualsiasi frequentazione con quel tizio e
di cercare di farsi perdonare da quello che veramente era con sicurezza un
uomo onesto cioè , Ezio.
Carlotta cercò di piegarsi al volere dei genitori e con estrema fatica cercò
di scoprire quel poco che rimaneva in lei di Ezio, mentre Mario, essendo più
grande e maturo, cercò di prendere in mano la situazione ed interrompere quel
loro amore tanto clandestino quanto intenso.
Carlotta si chiese: “Cosa devo fare?”
Girandosi nel letto con una lacrima che formava un rivoletto fino alla sua
fossetta destra, si rispose: “La futura moglie.”
Mentre Carlotta si accingeva a scegliere la data delle nozze, Mario senza lei
era caduto in un forte e scomodo sconforto.
Saperla di un altro, mentre lei desiderava solo lui, era un pensiero
raccapricciante.
Poi incontrava gli occhi di suo figlio Antonio e, sperando di aver fatto la
scelta corretta anche nel suo nome, giocava con lui rivivendo le storie dei
cartoni animati giapponesi.
Sua moglie cercava le attenzioni di suo marito, ma lui ormai non riusciva a
guardare oltre alla sua bella e fiammeggiante passione.
Coricarsi a letto con la moglie, con il cuore altrove, era un rituale che
faceva soffrire molto l’ingegnere.
Fino ad un venerdì, nel quale comprese di avere un destino segnato. Un
destino dal nome Carlotta.
Era ormai trascorso poco più di un mese da quella lontananza, quando trovò
risposta alla sua solita domanda notturna: “Cosa devo fare?”
La risposta era semplicemente “Amarla.”
Un piovigginoso sabato notte, Ezio rientrò tardi da una serata del “solito
lavoro”.
Carlotta, che lo aveva pazientemente atteso, non lo aveva accontentato come
quello avrebbe desiderato.
Ezio, dopo poco, ricevette un’anonima telefonata alla quale rispose soltanto
a monosillabi.
Insospettita, Carlotta gli chiese spiegazioni.
Lui la liquidò dicendo: “Sempre lavoro, non ti preoccupare.”
Il telefonò squillò nuovamente all’improvviso e, con voce inusuale e ben
alta, Ezio annunciò di doversi occupare di un’importante trattativa
internazionale e quindi, per quel motivo si sarebbe recato a Londra per
qualche giorno.
Carlotta preparò le valigie del convivente, lo baciò e all’udire la sua
frase, “Quando torno ti sposo”, le venne un colpo al cuore.
Ezio partì felice per la sua destinazione nel vedere la reazione della sua
giovane avvocatessa, essendo ormai certo di aver avuto una visione
completamente distorta e che si sarebbe conclusa per il verso giusto.
Carlotta invece aveva avuto quel comportamento istintivo perché i suoi
pensieri erano andati tutti verso Mario. Lei all’altare con Ezio con ci
sarebbe mai arrivata.
Ora l’aveva davvero capito.
Carlotta era arrivata alla conclusione che anche le pressioni dei suoi
genitori erano sempre state di natura egoistica, non pensando che la vita di
quella figlia fosse un magico impasto tra amore. attrazione fisica e passione
Era passata mezzora meditando e mentre la giovane stava per dirigersi
assonnata verso il letto, il citofono prese a suonare insistentemente,
Si diresse calma verso l’uscio e, convinta che Ezio avesse dimenticato il
beauty-case, aprì il portone senza chiedere chi fosse.
Sbalordita e felicissima, trovò al cospetto dei suoi occhioni spalancati la
bella figura di Mario, interrotta in parte da una grossa scatola di
cioccolatini.
Carlotta prese i cioccolatini, gli buttò le braccia al collo e lo strinse
talmente forte da rendergli quasi difficoltosa la respirazione.
Mario ricambiò mentre Carlotta lo accoglieva nella sua casa, divenuta per
quella notte un nido d’amore clandestino.
Carlotta esclamò stupita: “Come facevi a sapere che Ezio non c’era e che io
avevo bisogno di te?”
Mario rispose innamorato: “Un amico inglese mi doveva un favore”.
Sorrise furbescamente, poi riprese: “Siamo legati da un amore talmente forte
che quando io avverto il bisogno di te, so che tu vivi la stessa necessità”.
Si gettarono nel letto e cosparsero quella notte di tutto l’amore di cui
erano stati privati.
Carlotta, accoccolata fra le braccia del suo uomo, gli chiese:
“Ed ora, cosa faremo?”
Lui, accarezzandole i capelli, rispose “Gli innamorati”.
La sveglia puntata alle 5:30 riportò Mario alla realtà.
L’ingegnere salutò dolcemente Carlotta e ritornò a casa sua, pronto a
chiedere il divorzio.
Giunto da Amanda, l’uomo trovò una tavola ben guarnita da una colazione
preparata con amore e, a capo tavola, la moglie sorridente come se fosse
stata la loro prima notte.
Mario, lacerato dai sensi di colpa, decise di tacere la situazione ad Amanda
e di intraprendere l’argomento separazione in un momento più propizio.
Mentre succedeva questo da Mario, l’allegria in casa di Carlotta era
palpabile e lei si sentiva più innamorata che mai.
Ezio fu di ritorno per il primo pomeriggio del lunedì seguente, felice per
l’ottimo affare concluso ma titubante per il carattere bizzarro della sua
fidanzata.
Cercò quindi, con aria innocua, indizi che portassero alla presenza di Mario.
Tutto era stato perfettamente occultato dai due innamorati clandestini ed
Ezio sorrise orgoglioso della sua fidanzata e della sua bravura di averla
rimessa sulla retta via.
Tempo mezz’ora o poco più e Carlotta e Mario erano nuovamente al telefono,
pronti ad incontrarsi cercando di dribblare ogni possibile ostacolo.
Quel giorno sarebbero riusciti a pranzare insieme.
E mentre i due innamorati consumavano leccornie, segretamente in un
agriturismo fuori città, Carlotta avvicinò il suo braccio alla mano di Mario
e gli sussurrò: “Ho un ritardo. ”
L’ingegnere, felice ma spaventato, spalancò gli occhi e strinse forte la mano
di quella donna che amava con tutto il suo cuore.
Poi mormorò: “Di quanto?”
“Di due settimane e mezzo”.
Uscirono, andarono a pagare il conto e si abbracciarono con una mano sulla
pancia di lei.
La mattinata seguente Carlotta, preoccupata e nervosa, decise di acquistare
il test di gravidanza.
Uscita dalla farmacia, telefonò al suo amato per chiedergli un appuntamento.
Riattaccato il telefono, la donna si mise alla guida verso la casa di Mario.
Il taxi di fronte a lei accompagnava un uomo ed una donna, che amoreggiavano
come due piccioni in calore, alla stazione.
Grande e piacevole fu la sorpresa, visibile sul suo volto ed anche
piacevolmente soddisfatta, quando Carlotta vide uscire dalla vettura Ezio con
una giovane ed avvenente, molto elegante ed assai signorile.
Carlotta corse dal suo Mario ed i due si strinsero appassionatamente le mani
mentre la verità si rivelava in tutta la sua fantastica nudità: un figlio.
Fecero l’amore con passione e complicità.
Coperti da un lenzuolo rosso, i due innamorati-amanti si guardarono negli
occhi con infinita emozione.
“Che faremo?” chiese titubante Mario.
Carlotta lo baciò e gli disse: “I genitori.”
NUMBER TWENTY
Giovedì il cellulare di Sabrina segnala un nuovo sms.
E’ Serena, amica d’infanzia.
Le propone una serata speciale: “Che ne dici se domenica sera andiamo a
mangiare una pizza con quelli delle scuole medie?”
Sabrina ha gli occhi lucidi dopo la comunicazione della ragazza ed acconsente
entusiasta.
Domenica arriva in un baleno: il ritrovo è alle otto meno un quarto alla
Corte Sconta ai quattro cantoni.
Serena e Sabrina arrivano insieme.
L’organizzatrice è bellissima nei suoi nuovi jeans targati Miss Sixty
abbinati ad una canotta a fru fru azzurra. Le scarpe sono decoltée nere, come
la borsettina.
L’abbronzatura dorata risalta dalla scollatura della maglietta ed anche le
sue grazie sono ben evidenziate.
Gli orecchini sono lunghi ed azzurri e danno ancor più vita a quei lunghi
capelli mossi.
Il sorriso di Serena attira sguardi: in parte è merito di madre natura, in
parte dell’ottimo trucco acqua e sapone che le evidenzia i grandi occhi
azzurri.
Un camionista suona il clacson e Serena non lo degna nemmeno di uno sguardo.
Sabrina è in piedi di fronte a lei a raccontarle la sua felicità e le sue
speranze per la serata.
La giovane narratrice è appoggiata sui tacchi a spillo siglati Laura
Biagiotti.
“La slanciano molto.” pensa affettuosa Serena.
Non immagina però quanto facciano male.
Sabrina veste un abito di garza azzurrino in perfetto stile anni ’60 e tiene
in mano una borsa poco capiente in perfetta concordanza con il suo
abbigliamento.
Mentre le due discutono su quanto possano essere diversi gli altri, arrivano
in una Peugeot 307 CC Riccardo, Luciano e Nicola.
Riccardo parcheggia con grande destrezza e si accinge a scendere.
Sabrina e Serena si guardano con fare complice: sui banchi di scuola tutte
litigavano per quel bellissimo tedesco bruno.
Il tempo non ha mutato il suo fascino, l’ha solo reso più cosciente della
bellezza che possiede.
Luciano e Nicola sono invece sempre introversi ed inizialmente timidi, ma
anche loro sapranno apprezzare la serata.
I vecchi amici iniziano a chiacchierare delle vacanze mentre all’orizzonte
spuntano nuove presenze.
Dalla via Circonvallazione spuntano le gemelle Claudia e Michela in compagnia
di Barbara.
Da Zelarono, invece, arrivano Ivan e Manuel.
Iniziano tutti a salutarsi con i due baci rituali sulla guancia e qualcuno
falsamente dice “Come stai bene così” quando invece pensa “Guarda questa come
si è conciata.”
In breve tempo sopraggiungono gli altri: Giada, la solita mattacchiona,
seguita da Elisa, la puntigliosa e secchiona del gruppo.
Mentre i ragazzi cercano di ricordare chi ancora manca, spunta da dietro
l’angolo Selenia e attraversano, al semaforo, Valentina e Federica.
Sono tutti. Chiacchierando e sorridendo entrano nel locale.
Una cameriera molto carina indica loro un tavolo all’aperto sulla destra.
Con agilità tutti trovano posto, cercando di non stare accanto alle persone
frequentate abitudinariamente.
A capotavola c’è Ciano, innamorato dei motori.
Alla sua sinistra Rick, il rubacuori.
Al suo fianco Sere, la grande amica di Bri.
Poi Giada, la matta.
Sabrina è al suo fianco.
Accanto a Bri c’è Ely, sempre precisissima in tutto.
“ Non è cambiata di una virgola, è sempre la solita studiosa con la puzza
sotto il naso,” pensa Manuel mentre ride divertito dalle battute di Ivan.
Alla sua destra è seduta la timida Selly, imbottigliata nella parte più
noiosa della tavolata.
Di fronte ha Claudy e Micky, quasi immutate, sempre casa e chiesa. Forse un
po’ ingrassate.
“Fumano? Quelle due? Incredibile!”
Pensa tra se e se Serena quando le vede passarsi l’accendino.
Accanto a loro Babi, amica di casa e chiesa.
“Ha i capelli tinti arancione. Che schifo!”
Pensa Elisa facendole i complimenti per l’ottimo colore moderno ma sorridendo
ricordandosi di quando quella l’aveva apostrofata per l’unica volta che aveva
avuto il coraggio di annodarsi i capelli come una mulatta.
Vicino a Babi, di fronte a Sabrina, si sono accomodati Ivan e Manuel.
“Ivan sembra che ci sappia fare con le donne, è cresciuto bene,” pensa Bri
aspirando la sua Marlboro Light.
Poi c’è Nicola.
“A quanto dicono ha messo la testa a posto,” pensa Elisa sogghignando.
Ed infine Federica.
Manuel non le toglie gli occhi di dosso mentre sussurra ad Ivan “Si è fatta
proprio figa la Fede!”
Eccoli là, catapultati dai banchi di scuola della terza A ai tavoli di una
pizzeria, cinque anni dopo.
C’è qualche assente, ma non se ne sente la mancanza.
Massimiliano era impegnato.
Alessia è a Praga con il suo nuovo fidanzato.
Elena è in viaggio con il suo vecchio fidanzato.
Sara ha detto che aveva la febbre.
Claudia non ha neanche risposto.
Ludovico era impegnato anche lui.
Arianna è stata marchiata come “non gradita” e non è neanche stata avvisata.
I presenti chiacchierano anche sugli assenti.
“Elena è ingrassata ancora?” Chiede scherzoso Manuel.
“Qualcuno ha più visto Arianna?” Domanda curiosa Barbara.
“Chissà perché Massi non è venuto?” Chiede a voce bassa Bri.
Micky coglie la domanda e risponde che aveva una cerimonia con parenti.
Fede aggiunge
“Ad Alessia dispiace di non essere potuta venire e saluta tutti.”
Manuel inizia a bere litri di birra, Ivan scrocca con classe sigarette a Bri,
che ascolta divertita i loro racconti.
La pizza arriva rapidamente e calda, è molto buona e viene assaporata con
gusto.
Poi tutti parlano di cosa hanno fatto al Redentore.
Erano quasi tutti lì, a Punta Sabbioni, con le tende.
Alcuni vicino alla bandiera della Jamaica, altri vicino a quella che portava
la scritta “Olmo City”.
Ivan racconta la sua disavventura.
“Erano le quattro del pomeriggio e mi sono messo a scavare una buca per il
falò della sera.
Il sole picchiava e c’era molta afa.
Ho faticato, davvero, a sterrare quella cavità e sul più bello, mentre mi
asciugo i sudori, arriva un cane e ci fa i bisognini dentro!”
Scoppia il fragore generale. Serena ha le lacrime agli occhi dalle risate.
Manuel tenta di emulare le risate provocate dall’amico con una barzelletta.
I risultati però sono abbastanza compassionevoli.
Poi però si rifà raccontando un’altra peripezia del Redentore, ovvero quando
Ivan era talmente ubriaco da non accorgersi che la ragazza con cui stava
parlando era svenuta di fronte a lui.
Ciano si intromette dicendo che la ragazza di Nicola lo ha lavato con la
vodka e gli ha tirato dietro le uova.
L’allegria è generale e l’atmosfera è molto fresca, nonostante il caldo
torrido.
Di comune accordo i giovani decidono di farsi portare il conto e di andare
altrove.
Ancora indecisi sulla prossima meta, escono dal locale sorridenti e
divertiti.
Camminano continuando a chiacchierare.
Approdano così in una gelateria dall’altra parte della città.
Continuano a ridere e scherzare, a ricordare i momenti più divertenti
trascorsi insieme.
Serena ricorda quando Bri spiava in gita i ragazzi dell’albergo di fronte e
lei, tirandole una sberla sul fondoschiena e facendole sbattere la testa
sulla maniglia della finestra.
O ancora quando, sempre in escursione, la professoressa di matematica fosse
scomparsa in piena notte con le tenerezze al cioccolato della Fede.
Tutti ridono divertiti completamente dimentichi dell’afa opprimente.
Tutti guardano anche la faccia della luna che sembra vicina ma anche tanto
lontana dai loro ricordi.
Nessuno pensa ai problemi che ha lasciato a casa, ognuno è tornato indietro
di cinque anni.
E non importa se ora ci sono nuovi amici, nuove scuole , nuovi professori.
Il ritrovarsi è più bello di prima. Se c’erano stati degli screzi tra loro
erano completamente dimenticati!
Poi iniziano i progetti.
Una giornata al mare, una serata in discoteca, magari una vacanza.
Ma è tardi, e piano piano la gente va via.
Anche Sabrina e Serena devono andare. Prima però tutti si scambiano i numeri
dei cellulari con chi li ha cambiati da poco e promettono di mantenere i
contatti.
Bri e Sere se ne vanno con una felicità dentro immensa: nulla è come la terza
A.
Bri ricorda a Sere che quando facevano educazione artistica lei era tra Ivan
e Manuel e si divertiva come una matta.
“A cena li avevo di fronte ed era come quando eravamo sui banchi a
dipingere”, sospira appena Sabrina.
Non importa se la maglietta di Serena è sporca di gelato ed i piedi di Bri
sono distrutti dalle vesciche della Biagiotti.
Bri chiude piano la porta e corre a mettersi i cerotti per le vesciche,
felice.
Sere manda un sms a tutti per esprimere la gioia di averli ritrovati.
Riccardo ha il vento che gli passa tra i capelli e chiacchiera con Ciano e
Nicola delle ragazze.
Ivan e Manuel tornano a casa divertiti e sorridenti.
Claudy e Micky, arrivate a casa, raccontano ai genitori ancora svegli la loro
magnifica serata.
Elisa è felice di aver rinunciato ad uscire con il suo nuovo ragazzo per quel
magnifico incontro.
Fede torna a casa allegra e spera di rivedere tutti al più presto.
Vale apre l’uscio della sua abitazione assetata e mentre sorseggia dalla
bottiglia acqua gelida decide di voler organizzare una serata con loro, in
discoteca, il più presto possibile.
Giada ripensa al suo rapporto con la classe ed avverte un po’ di nostalgia.
Babi ha un appuntamento con il suo fidanzato, al quale dice di essere gioiosa
per aver ritrovato antiche amicizie.
Selenia arriva a casa assonnata e si dice,“pazienza se domani mattina
faticherò ad alzarmi per andare a lavorare, ne è valsa la pena.”
C’è solo un pensiero triste che attraversa in un lampo la mente di Sabrina
intenta a curarsi i piedi.
-Quando i ricordi ti sovrastano e li preferisci significa che inizia già una
maturità troppo precoce quasi sproporzionata all’età e che il tempo “delle
mele”sta per finire per sempre. –
NUMBER TWENTY-ONE
Al Pincio, ogni domenica, suonava la Banda ora quella dei Carabinieri ora
quelle di ogni altro corpo dello Stato, Marina ed Aviazione comprese.
Nel grande spiazzo sotto gli ipocastani e tra pini marittimi, abeti, querce
secolari, magnolie e pioppi, tante sedie di legno a semicerchio erano un
invito per tutti ad ascoltare la musica di quelle orchestre, dagli strumenti
a fiato, dirette in generale da un sotto ufficiale o ufficiale, professore
d’orchestra.
Spesso, anzi comunemente, oltre alle innumerevoli fanfare e marce militari si
spandevano nell’aria - generalmente tersa - le note di brani d’opere liriche
ed addirittura di sinfonie tra le più conosciute.
Mio zio di secondo grado, diplomato a Santa Cecilia, era il Maestro e
Direttore d’orchestra della Banda dei Pompieri ed io ero uno dei suoi più
grandi ammiratori.
Se lo meritava davvero.
Aveva la stoffa del vero artista ma era orgoglioso di avere accettato quel
ruolo, stretto per lui, che aveva vinto più di un premio nazionale come
promessa sicura di una carriera folgorante.
Mi aveva dato un pass a sedere per ogni concerto, anche se non diretto da
lui, ben conoscendo il mio amore per la musica classica che non mi faceva mai
mancare, al Teatro dell’Opera ad ogni replica lassù nel Loggione oppure tra
gli ultimi posti di Caracalla o ancora alla Basilica di Massenzio.
Di famiglia povera, Tito si era arruolato nei pompieri subito dopo il Diploma
a Santa Cecilia e rapidamente era divenuto maresciallo maggiore con
l’incarico di creare, in pratica dal nulla, la Banda che stava spopolando tra
i romani e non, e che dirigeva con rara maestria.
Ma egli sarebbe rimasto a quel posto ancora per pochissimo tempo. Si sarebbe
dimesso dai pompieri e quindi da Direttore della Banda entro tre giorni per
passare, armi e bagagli, alla Direzione del “corso di Maestri – Concertatori”
della sua amata Santa Cecilia.
Era stato mio padre, suo cugino, colui che dall’età di cinque anni mi aveva
iniziato a quel tipo di musica e lo aveva fatto senza forzare la mia natura,
nel poco tempo a sua disposizione a causa del lavoro, quando era libero da
impegni e rimaneva a casa ad ascoltare centinaia di dischi.
Ascoltare musica classica era per me il più grande divertimento che potessi
desiderare e volere e non che disdegnassi di andare a giocare a pallone
oppure al mare a fare le mie prime nuotate ed i miei primi tuffi.
Ricordo che per emulazione prendevo in mano uno spaghetto crudo, lo tagliavo
a metà e volevo dirigere io quei brani dei dischi.
A sei anni ero arrivato a distinguere se quella sinfonia fosse diretta da
Toscanini oppure da Herbert von Karajan e quel pianista fosse Kempff o il
grande Artur Rubinstein.
Quando mio zio Tito veniva talvolta a trovarci rimaneva sbalordito da quel
nipote di secondo grado che, secondo lui, aveva un orecchio perfetto ed una
memoria musicale eccezionale.
Lo aveva ripetutamente detto a mio padre ma io non avevo nessuna intenzione
di studiare musica e quindi, pian piano, avevo dato altre soddisfazioni ai
miei genitori riuscendo, studiando con accanimento ad ottenere il Diploma
Liceale a soli diciotto anni, appena compiuti.
I pochi soldi che mi passava, come paghetta settimanale, mio padre che io
adoravo e rispettavo per la sana ambizione, la serietà di vita e la meta che
si era prefissata di essere un pioniere dell’idraulica civile, era per me il
maggiore sprone per fare sempre meglio.
Nessuna cosa però mi avrebbe allontanato dalla musica ed anche quella
domenica di maggio ero lì, al mio posto al Pincio, a gustarmi la Pastorale di
Beethoven, quando vidi vicina al mio posto la tentazione fattasi donna,
quella semplice e pulita ragazzina, Ginevra, con gli occhi umidi di lacrime
silenziose.
Seppi poi che era una studentessa del Conservatorio di Santa Cecilia e che
poteva permettersi di frequentarla soltanto per meriti e con una borsa di
studio creata dalla RAI per giovani talenti.
Ne avevo conosciute di ragazze più o meno della mia età, alte e sinuose,
basse e tonde, belle od orribili, more
o bionde, ricche e povere dal momento che il mio carattere estroverso me le
faceva incontrare a bizzeffe, specie nello sport dove primeggiavo, allora,
nel nuoto e nella ginnastica artistica ma nessuna, tranne Ginevra, era stata
in grado di fulminarmi con il candore e la profondità dello sguardo e
l’estasi innocente degli occhi grandi, sognanti, grigio perla e dalle tante
pagliuzze verdi nell’iride.
Tutti questi particolari del viso mi si erano manifestati quando lei si era
rivolta a me con quel nasino regolare dalle narici tagliate a sbieco e
dandomi del tu spontaneamente al termine della sinfonia.
-Tu sei Aldo! Me lo ha detto tuo zio Tito giorni fa quando mi ha invitato al
suo concerto qui al Pincio dicendomi, “ ti darò un posto vicino a mio nipote,
quel musicologo esperto ma incapace di studiare la musica al contrario di te,
Ginevra, che tra due anni sarai una grande pianista”.-
Mi sussurrò, un po’impertinente.
Meravigliosamente, quella ragazzina dall’età apparente di sedici anni, mi
aveva parlato arrossendo appena mentre, fino ad un momento prima, avrei
scommesso un esame al biennio di Ingegneria che non si sarebbe mai nemmeno
accorta della mia esistenza.
-Quindi tu saresti una futura concertista di pianoforte?
Chiesi tanto per attaccare discorso, mentre non riuscivo a scollare lo
sguardo da quel viso che mi pareva, simile ad una buona litografia di Renoir:
quella delle due ragazze al piano mentre la biondina suona e
contemporaneamente legge lo spartito e l’altra, castana. osserva rapita ed
assorta lo stesso spartito.
Idealizzai Ginevra nella fanciulla del dipinto conservato al Louvre.
Anche Ginevra era bionda con i capelli lunghi ed il nastrino verdolino alla
nuca con un vestito azzurro tenue, lungo sotto le ginocchia.
-Forse, - mi sussurrò avvicinando la sua bocca al mio orecchio, - forse se
continuerò a studiare tanto e con passione come sto facendo adesso…!-
Ginevra si alzò in piedi, era molto più alta di quanto pensassi.
Le gambe poi, lunghe e tornite con quelle ginocchia piccole e perfettamente
tonde, a dispetto del vestito da educanda, non potevano essere nascoste.
Le presi il braccio sinistro e lentamente, sentendo nel frattempo il suo
respiro, mi avvicinai a mio zio un tantino sudato e certamente stanco,
dicendogli con enfasi.
-Hai diretto da Dio! E poi mi hai fatto conoscere un cherubino perché a
questa bella fanciulla non saprei dare altro appellativo. Grazie di nuovo per
le premure che sempre mi dimostri, ma quando potrò assistere agli esami ed
alle esibizioni di Ginevra? Fammi un altro grande piacere : devi darmi un
pass speciale per il Conservatorio e così potrò rivedere Ginevra. -
Mi rivolsi questa volta a Ginevra e la pregai di accontentare i miei
desideri.
Lei rispose con un sorriso che significava tutto per me ormai completamente
cotto per quella bella ragazza.
Non so ancora se fu per puro caso che me la rividi accanto sei giorni dopo,
questa volta alla Basilica di Massenzio dove Tito avrebbe diretto la sinfonia
“Dal Nuovo Mondo”di Antonin Dvorak.
Era tra le mie preferite per la bellezza incalzante dei temi, per la gioia
che riusciva a procurarmi ogni strumento dell’orchestra, per lo splendido
finale dove mio zio tirava fuori dall’anima tutta la sua arte.
Ginevra sedeva tre file davanti a me ma l’avevo riconosciuta ugualmente per i
biondi capelli e per il profilo che non mi poteva nascondere.
Dovetti attendere la fine della sinfonia per recarmi da lei, più dolce che
mai, più soave di una bambola orientale e molto più elegante dell’ultima ed
unica volta che l’avevo vista al Pincio.
Portava un tailleur fantasia con giacca di lino rosa e gonna bianca avorio
corta, in questa occasione, sopra le ginocchia rotonde ed era in compagnia di
una donna adulta che, per la somiglianza a Ginevra non poteva essere altro
che la mamma.
Quando mi vide, impiegò un attimo per correre da me, dopo aver parlottato con
sua madre.
.- Che sorpresa, - mi disse con un sorriso incantevole, -non potevo
immaginare che tu fossi qui anche perché in questi pochi giorni non ti sei
fatto vivo al Conservatorio! –
- Mio zio non mi ha ancora dato il pass che gli ho chiesto, me lo consegnerà
la prossima settimana. -
Ginevra, stringendomi le mani con le sue, morbide, sorrise nuovamente e mi
spiegò che l’indomani non sarebbe andata al Pincio ad ascoltare musica a
causa del compleanno di sua madre Mafalda e che comunque era felice di
invitarmi a pranzo da loro, nel piccolo appartamento dove abitava con i
genitori, all’ incrocio tra Corso Francia e l’inizio della via Cassia.
Mi disse che un momento prima aveva chiesto il permesso a sua madre, la quale
mi aveva fatto un cenno di saluto dal posto occupato in attesa della prossima
sinfonia: la quinta di Beethoven.
Mi diede l’indirizzo preciso ed il numero telefonico di casa e tremante mi
diede un grosso bacio sulla guancia.
L’incontro fortuito finì così non dopo che Ginevra disse sospirando.
-Questa sera devi avere tanta pazienza. Non posso rimanere sola con te, lo
capisci? –
Avevo perfettamente capito ma un dubbio mi aveva attraversato il pensiero.
Cosa poteva significare quel inatteso invito a pranzo?
Come mi avrebbe presentato ai genitori?
Cosa avrei potuto dire, forse che ero innamorato pazzo di Ginevra oppure che
era stata tutta colpa di mio zio se io l’avevo conosciuta?
Mio padre ed anche mia madre non l’avrebbero presa bene quella mia visita e
quel pranzo: troppo tempo sarebbe passato ancora prima che io mi fossi
laureato e fossi divenuto indipendente economicamente e poi tutti e due i
miei genitori non mi consideravano ancora maturo per una scelta simile che,
inevitabilmente mi avrebbe trascinato ad un precoce matrimonio!
Ginevra era un angelo e non meritava alcun inganno.
Mi sforzai di mantenere la mia solita calma ed intanto avrei preso tempo, un
tempo sufficientemente lungo, perché anche loro l’accettassero come la mia
fidanzata.
Pensai che soprattutto mio padre avrebbe capito il linguaggio dei numeri.
Gli dissi, quella sera stessa, che mi ero innamorato di una futura
grandissima pianista e che se non avessi preso al balzo l’occasione subito,
Ginevra mi sarebbe sfuggita per sempre.
Che anche lei avrebbe dovuto attendere molti anni per divenire famosa e che
sicuramente sarebbe diventata molto ricca e forse titubante di avere un
ragazzo come fidanzato che ancora non aveva finito il biennio di ingegneria.
A questo mio padre non aveva pensato.
.- E va bene, Aldo, ma noi, -e con l’indice indicò mia madre, -la vogliamo
conoscere bene questa tua fiamma e se permetti anche chi sono i suoi
genitori! -
Mi attaccai al telefono e dissi ogni cosa a Ginevra la quale convenne di
portare alla festa di compleanno della mamma anche i miei.
Non l’avevo ancora nemmeno baciata la mia Ginevra ma lei, ne ero certo, era
pazza di me e così mi fece il più grande regalo possibile, parlando con i
suoi genitori di quanto mi amasse e che senza di me non avrebbe mai più
potuto suonare quel piano che era tutta la sua dote e la sua fortuna.
Quelli dissero che andava bene quanto la loro amatissima Ginevra desiderava e
con l’aiuto della mamma, la mia famiglia ebbe una accoglienza che mai
avrebbero potuto immaginare.
Ma la ciliegina sulla torta la mise Ginevra ammagliando mio padre col suo
pianoforte, unica cosa di valore di quella famiglia, e suonando per mio padre
oltre che una serie di notturni di Chopin in un mondo armonico, incantato e
sognante col respiro stesso di ogni frase melodica anche altri pezzi del suo
repertorio ben conosciuti da colui che mi aveva inculcato, dall’asilo,
l’amore per la musica classica.
Da quella giornata io e Ginevra fummo considerati fidanzati a tutti gli
effetti e così era.
Non dovevamo in nessun caso nascondere le nostre effusioni, i nostri abbracci
ed i tanti baci che ci scambiavamo in continuazione anche davanti a terze
persone.
Ci amavamo ed il nostro sogno che saremmo stati insieme per tutta la vita
sarebbe infine diventato realtà.
Avevamo tutto dal nostro profondissimo sentimento iniziando dal rispetto
reciproco, dalle coccole, dalle carezze e finendo ai miei inutili tentativi
di approdare a qualcosa di maggiormente concreto da un punto di vista
esclusivamente sessuale.
Per quanto ormai passassero gli anni e sia io che lei avessimo raggiunto
entrambi i nostri obbiettivi professionali ed anzi li avessimo addirittura
superati, - Ginevra orgogliosa per un contratto di cinque anni che il Teatro
dell’Opera di Roma aveva voluto in esclusiva ed io che non solo ero riuscito
a laurearmi col massimo dei voti ma avevo pure giganteggiato all’Esame di
Stato quello, per intenderci, che mi permetteva di svolgere attività libero
professionale, firmando io stesso qualsiasi progetto, - non c’era niente da
fare - anzi era tabù - il mio desiderio di completare il nostro amore andando
a letto insieme.
Ginevra me lo aveva detto mille volte che lei si sarebbe sposata immacolata e
con l’abito bianco e per quanto mi desiderasse immensamente, voleva che io
facessi questo ultimo sacrificio come mio personale dono di nozze.
Lei mi dava tutta se stessa ma non intendeva avere dei rapporti completi con
me.
Più di una volta ero stato addirittura scortese con lei ricordandole che
avremmo dovuto attendere almeno ancora un anno per sposarci.
Ginevra mi sorrideva, mi baciava con tutta la passione della sua giovane età,
mi permetteva di accarezzarla all’infinito, di toccarla in ogni posto ma non
di possederla.
Fu per questo motivo che le proposi di accelerare i tempi del nostro
matrimonio.
Ci saremmo sposati non tra un anno ma, al più tardi, tra tre mesi.
Ormai era inutile aspettare ancora anche perché in due avevamo messo da parte
una notevole somma di denaro ed un piccolo appartamento di due camere e
servizi ce l’avrebbero regalato le nostre famiglie.
Così, decidemmo la data.
Era febbraio ma noi saremmo diventati marito e moglie alla fine di maggio.
Non vedevo il momento di impalmarla, la mia dolce e soave Ginevra.
Ero come se fossi malato da una febbre misteriosa ed incurabile che soltanto
lei avrebbe potuto spegnere, con una sua speciale medicina e finalmente farmi
guarire.
Finché giunse la sospirata notte, la prima notte di nozze.
Ma anche allora fu impossibile penetrarla per quanto avessi fatto di tutto
per farla rilassare e metterla a proprio agio usando tutta l’arte amatoria di
cui ero capace.
Dopo ore di inutili tentativi, affranto, decisi di dormire.
Ero letteralmente sfinito, tuttavia prima di abbandonarmi tra le braccia di
Morfeo riuscii a dirle.
- Domani andiamo da un ginecologo e così sapremo di che cosa soffri. -
Lei nell’ombra della nostra camera da letto riuscì ancora, o almeno così mi
parve, a sorridermi e senza ombra di pentimento mi rispose.
- Caro il mio Aldo, è inutile. Sono affetta da vaginismo psicogeno. -
- L’ho scoperto da un anno andando dal mio medico curante per via di un
fastidio che avvertivo alla vagina, una contrattura insistente specie nel
periodo seguente alle mestruazioni. Egli mi ha inviato da un suo collega
ginecologo e questo da uno psicologo e poi da uno specialista in agopuntura.
-
- Ero sul punto di dirtelo quando una mia amica e collega mi ha convinta di
soprassedere e che tutto sarebbe cessato il giorno che mi fossi sposata,
mentre invece stasera ho capito che si tratta di una cosa molto più seria e
probabilmente inguaribile. –
- Cosa devo fare, amore mio? Io penso che forse, se tu mi sverginassi con
qualche strumento meccanico, è probabile che mi passerebbe la paura di essere
violentata perché è proprio questo il motivo del mio disturbo.-
- Ne sono sicura, il mio “IO” rifiuta il dolore e questa è stata la diagnosi
dello psicologo. So che è in effetti e così e quindi solo tu mi puoi guarire,
tesoro, ma ora non sono ancora pronta a sottopormi a questa difficile prova
d’amore. Ne riparleremo tra sei mesi…! -
NUMBER TWENTY TWO
Il minuscolo aquilotto attendeva il cibo che mamma aquila, affannosamente,
stava cacciando volteggiando imperiosa tra le rocce ed i picchi delle
montagne della Sierra Nevada, al confine con il territorio di Sacramento in
California, nelle vicinanze di Reno, Sparks e Carson City, quando un colpo di
fucile la colpì di striscio ma con violenza all’ala destra e quella precipitò
senza schiantarsi nel giardino di Tony, alla periferia est di Carson City,
solo anemizzata e tramortita.
Tony, all’epoca, aveva dieci anni. Il padre, Jerry, trenta e la mamma Susan,
ventisette e tutti i componenti della loro famiglia si amavano di un profondo
sentimento di reciproco e caldo affetto, non esclusi i nonni materni, due
vere rocce immigrati giovanissimi dall’Italia ed originari di Tolmezzo nelle
pre-Alpi carniche.
Ed anche se i nonni commerciavano vivendo a San Francisco da sempre, si
scambiavano almeno due volte al mese- nelle fine settimane-, delle visite
dove l’allegria diveniva la padrona di casa.
Quel giorno Tony era rimasto a casa, un grazioso villino colmo di alberi, di
fiori, di tante galline e conigli e di un magnifico orto
Susan gli aveva detto prima di uscire per recarsi al lavoro.
-Figlio mio, oggi non voglio che tu vada a scuola. Hai mal di gola ed un
po’di febbre e non vorrei che ti venissero le placche alle tonsille come ti
succede spesso. Stattene buono, io ti ho preparato sia la colazione che il
pranzo e stasera ceneremo tutti insieme con il tacchino che piace tanto a tuo
padre. -
-Jerry, quando è uscito all’alba , mi si è raccomandato di tenerti a casa
almeno per oggi. Abbiamo già un sacco di problemi e ci mancherebbe anche la
visita del dottore per sfondare il nostro bilancio per questo mese già pieno
di spese, con l’assicurazione ed il mutuo in scadenza e la rata dell’auto
indispensabile non solo per il lavoro di tuo padre ma anche per tutti noi. -
Jerry era abituato a lavorare duramente col suo pesante mestiere di boscaiolo
e di guardia caccia e per lui, il Fuoristrada, era indispensabile.
Susan invece andava in bicicletta al Posto di Ristoro, sulla strada per
Sparks a soli tre chilometri da casa, dove faceva da cuoca dall’età di
diciotto anni.
Era ben voluta da tutti, proprietari e clienti compresi, per il sorriso che
accompagnava ogni giorno, il suo andare e venire, il suo impegno in cucina ed
il modo gentile di parlare con ogni persona anche se occasionale.
Tony vide l’aquila ferita, immersa nel cespuglio a sinistra dell’ingresso
della villetta, esamine e con l’ala destra abbandonata sul fogliame.
Le si accostò ed il povero rapace riuscì a mala pena ad agitare lentamente
l’ala sinistra tenendo appena aperto il becco ricurvo.
Si mise un paio di guantoni di pelle pesante e riuscì,con estrema fatica, a
sollevarla dal cespuglio ed ad introdurla nella nuova gabbia che papà Jerry
aveva appena finito di costruire per alcune oche che aveva intenzione di
acquistare, come riserva commestibile per l’inverno.
Tony aveva appena riposto l’aquila ferita nella gabbia nuova, quando sentì la
voce di Francisco, l’amico di nove anni, anche lui rimasto a casa per una
ferita ad un ginocchio, gridare.
-Tony stai attento, quella è un aquila e può essere molto pericolosa. Aspetta
un momento che vengo da te con delle bende che abbiamo comprato per il mio
ginocchio! -
In pochi secondi Francisco fu accanto a Tony e dal momento che il rapace era
assolutamente innocuo e privo di forze gli fece un bendaggio che riuscì a
bloccare l’emorragia dell’ala destra.
Poi disse.
-Dobbiamo chiamare il veterinario al telefono e farlo venire qui di corsa ed
avvisare del fatto, contemporaneamente, il capo guardia bosco, John, il
superiore di tuo e mio padre! -
Era dalla nascita di Tony che John viveva quasi in cima alla montagna di
abeti in una bella Baita a mezza costa in uno spiazzo attorniato da querce
secolari e lo sceriffo del territorio gli aveva dato il compito difficile di
vigilare sugli animali del Parco.
John svolgeva il suo lavoro con grande scrupolo e con l’aiuto di altri tre
uomini, tra i quali sia il papà di Francisco che quello di Tony,
A dire il vero era Jerry l’uomo di fiducia di John dal momento che costui
oltre al guardia caccia faceva pure il boscaiolo essendo l’unico fornito di
un Fuoristrada molto capiente e capace di arrampicarsi fino alla fine della
vegetazione dove iniziavano le rocce dai picchi grigi delle vette.
Alla telefonata di Tony e Francisco rispose la voce allarmata di John e
quando venne a sapere di quanto era avvenuto nel prato di Jerry, avvisò
quest’ultimo che, a sua volta, era stato messo in allerta dal colpo di fucile
udito ad un paio di chilometri dal punto dove in quel momento stava segando
un vecchio abete malato.
Nello spazio temporale di quarantacinque minuti arrivò il dottor Fredmann,
prese l ‘aquila e la trasferì nel piccolo Ospedale per gli animali di cui era
provvista, da molti anni, Sparks.
Rimaneva il problema del pulcino dell’aquila abbandonato in un nido, in una
fenditure della roccia ma che Jerry riuscì prima a scovare e poi portare a
valle accanto a sua madre.
Quando a cena furono tutti riuniti e sorridenti, Tony chiese a Susan.
-Mamma dimmi perché questa sera sono così felice, in fondo non ho fatto
niente di speciale. Caso mai è stato papà colui che meriterebbe un grande
bacione da noi due. Se non fosse stato per lui il pulcino dell’aquila sarebbe
morto di fame! -
-Noi stiamo mangiando un tacchino femmina e pure non abbiamo nemmeno
lontanamente pensato ai suoi pulcini. Ti sembra questo un bel modo di agire
oppure c’è differenza tra un povero tacchino ed un’aquila ed il suo piccolo?
-
Susan guardò prima Jerry, poi posò lo sguardo su quel figliolo che
immancabilmente la stupiva con le sue domande mai banali.
Lentigginoso e dai capelli rossi come quelli di suo marito, denotava subito
il proprio sangue irlandese ed anche gli occhi grigi, allo stesso tempo
sornioni ed intelligenti, non mancavano di stabilirne l’origine.
Era un ragazzo più robusto di quanto potesse esprimere la sua giovane età ed
il sorriso franco e schietto assomigliava al suo sorriso, quello di una
figlia di immigrati italiani del Friuli.
Susan se lo sarebbe consumato di baci, di coccole, di carezze e poi era il
suo unico figlio, colui che aveva stentato a venire al mondo a causa della
presentazione podalica tanto che aveva dovuto subire il taglio cesareo per
non farlo morire prima di nascere.
-Figlio mio, -sospirò, -è necessario mangiare per noi e per tutti gli altri
esseri viventi ed in particolare nutrirsi di carne e pesce quando si è
giovani oppure si svolga un lavoro particolarmente faticoso come quello di
tuo papà. Le aquile ed i falchi, per esempio, non sono gustose e quindi Dio
ha voluto che ci dessero soltanto il piacere di vederle o vederli volare
nell’immensità del cielo. -
Sia a Susan che a Jerry sembrò di avere soddisfatto pienamente la curiosità
di Tony ma fu questione di un solo momento perché il ragazzo dopo breve tempo
chiese nuovamente.
-Io penso invece che mentre i rapaci hanno bisogno di proteine animali per
crescere forti, ciò non è per galline e tacchini che riescono a crescere
anche soltanto con i semi ed i vegetali. -
-Comunque, mamma, non ti allarmare. Non diventerò vegetariano, mi piacciono
troppo sia i polli che i tacchini e credo che non potrò mai fare a meno delle
uova strapazzate, che tu sai cucinare magistralmente, sia delle bistecche al
sangue come sai fare tu. -
Tony e Francisco seguirono con estrema attenzione la guarigione di mamma
aquila e la crescita dell’aquilotto ogni giorno più bello e più impertinente.
Però un bel giorno, quando Geltrude, -così l’avevano chiamata,-aveva ormai
preso confidenza per la quotidiana presenza dei due ragazzi come se fossero
due amici, arrivò il momento della inevitabile separazione.
Era stato Jerry colui che aveva preso la decisione, confortato dal dottor
Fredmann e mettendo i due ragazzi sul Fuoristrada in compagnia dei due
uccelli- riposti in una ampia gabbia -e che aveva raggiunto le vicinanze
delle fenditure dei picchi rocciosi dove, sei mesi prima, aveva rintracciato
il nido richiamato dal disperato e lamentoso pianto del piccolo.
In quei pressi, Jerry li aveva liberati e fatti volare tra lo stupore ed il
dispiacere dei ragazzi.
Uno dietro l’altra si dispersero nel cielo di un colore turchino come quello
di quello splendido pomeriggio della Sierra Nevada.
Tony cercò di seguire al di là dell’orizzonte ì due amici e tra lo stupore di
Francisco e le lacrime trattenute a stento di suo padre, stupito per il
grande legame che si era creato tra Tony e le aquile,
attese fino al tramonto del sole per dire a mezza voce.
-Addio Geltrude che Dio ti accompagni con il tuo piccolo. Non ti dimenticherò
mai e chissà se un giorno ci rivedremo, magari in un altro mondo. -
Tony non spiaccicò più alcuna parola fino a quando non si gettò tra le
braccia di Susan.
Soltanto allora disse alla mamma.
-Mammina, da grande farò il pilota e volerò anch’io come Geltrude. –
-Entrerò all’Accademia e sarò un grande pilota, di quelli che volano più in
alto degli altri con i migliori prototipi che l’America costruirà. Voglio
vedere il cielo infinito e di notte le stelle che brillano lassù, nello
spazio senza confini. Non proibitemelo, quella sarà la mia vita. -
Jerry e Susan fissarono gli occhi grigi del loro unico figlio, lo strinsero
al petto, lo baciarono ed in silenzio annuirono.
C’era poco lavoro da quelle parti ed i due pensarono che lo avrebbero aiutato
in ogni modo e con qualsiasi sacrificio perché potesse raggiungere il suo
magnifico sogno, piuttosto che andasse in qualche Casinò di Reno a
guadagnarsi uno stipendio come croupier ai tavoli da gioco.
Sarebbe divenuto un aviatore militare e così sarebbe stato il Governo il suo
datore di lavoro.
Non fu facile per Jerry e Susan mantenere all’High School, Tony.
La famiglia non apparteneva alla media borghesia né avrebbe potuto
permettersi di pagare le forti tasse per lo studio, anche con l’aiuto dei
nonni, se Tony non avesse ottenuto una particolare borsa di studio destinata
ai migliori allievi in matematica.
Susan stravedeva per quel figlio e non esisteva cliente del Posto di Ristoro
che non fosse informato su quel sorprendente giovanotto lentigginoso che era
riuscito a frequentare la prestigiosa High School di Oakland, vera fucina di
elementi preparatissimi per l’Accademia della Marina.
Tra Oakland e San Francisco c’erano soltanto pochi chilometri e per Susan
questo fatto era l’unica consolazione riguardo a Tony ormai lontano da casa,
dai coniglietti ed il pollaio e dalle montagne di Sparks, Reno e Carson City,
per la vicinanza di quel figliolo ai nonni ex italiani ma divenuti ormai
americani di spirito anche se il loro cuore era rimasto sempre legato alla
madre Patria.
Tony era riuscito a parlare, capire e scrivere molto bene la loro lingua
d’origine ed era tra i pochi studenti selezionati per il gruppo di quelli che
avrebbero potuto essere impiegato, in futuro, per operazioni di Intelligence
in Italia.
Fu proprio questa particolarità e l’eccezionalità della sua padronanza nella
matematica e fisica, ad altissimo livello. il motivo principale di una
seconda borsa di studio per entrare all’Accademia.
Anche se si trattava dell’Accademia della Marina, questa aveva una Sezione
Speciale in cui elementi selezionati sarebbero diventati, con sicurezza,
piloti di superjet delle portaerei più importanti degli Stati Uniti.
Il giorno più bello per Jerry e Susan fu quando Tony si presentò, senza
avvisare nessuno, nella villetta dove era nato in divisa di sottotenente.
-Susan, -esclamò, stringendola a se con tutto l’amore che in quei lunghi anni
aveva tenuto nel cuore senza mostrarlo a nessuno. E’ soltanto merito tuo e di
papà se oggi posso fregiarmi di questo onore : sono un allievo pilota di
prima nomina, sono colui che mi ero ripromesso di divenire! -
-Ora però voglio rivedere, in questa settimana di ferie, le mie montagne e
vorrei che voi due mi accompagnaste, oltre i boschi, per ammirare ancora una
volta il luogo dove abbiamo liberato Geltrude ed il suo piccolo. -
Jerry gli diede una pacca sulle spalle e quindi gli disse.
-Lo sai Tony che credo di avere rivisto la tua aquila, da quelle parti,
volare altissima insieme ad altre aquile? -
-Domani all’alba saremo noi tre lassù e forse saremo fortunati…! -
Tony non seppe mai se la sua intuizione gli fosse stata dettata dal desiderio
infantile di vedere il cielo dalle parti del Canyon oppure se fosse stato il
destino a spingerlo nei luoghi dove era stata liberata Geltrude.
Tuttavia nel momento stesso che la sua Geltrude, ormai invecchiata, gli
volteggiò sulla testa capì in un attimo come non avrebbe mai potuto essere
libero come quella.
Si era sdraiato sulla roccia, un po’ lontano da Susan e da Jerry ed aveva
atteso in ansia il grande momento che aveva da sempre sognato.
Non erano passati che pochi minuti quando Geltrude, piombando in picchiata,
si posò accanto a lui con la sua imponenza e con la sua antica cicatrice
sull’ala destra.
Il becco uncinato socchiuso, gli occhi vivaci ed acuti e gli artigli distesi
erano sempre quelli di quando Tony aveva appena dieci anni.
Il giovane sotto tenente ebbe la sensazione che il rapace volesse dirgli
qualcosa e come se fosse puro spirito, Tony sentì un alito comprensibile
comunicargli una inimmaginabile idea.
“ Non devi volare, ragazzo, questo mondo si sta avvicinando all’Apocalisse
finale ed inutile che tu ti debba sacrificare soltanto per dimostrare al tuo
Paese di essere un eroe. Torna alle tue montagne e cerca di vivere
semplicemente come facciamo noi faticando ogni giorno per procurarci vermi e
serpenti ed un po’ d’acqua da bere.”
“Io so che l’Umanità è arrivata al punto di non ritorno e ciò per colpa delle
idee politiche, delle religioni e dell’odio che queste seminano a piene mani
tra tutti gli uomini.”
“Islamismo e Sionismo, Cristianesimo e Radicalismo terroristico arabo,
Nazionalismi europei e quelli americani, associati nello sfruttamento e
nell’arricchimento più becero, in contrapposizione alla miseria ed alla fame
più profonda che nessuno avrebbe mai potuto prevedere in Africa e nel Sud Est
asiatico, hanno condotto il pianeta Terra non a vivere ma soltanto a
vivacchiare nell’attesa certa di una catastrofe universale irreversibile!”.
Tony allungò una mano ed accarezzo Geltrude, poi disse.
-Ti capisco, amica mia, ma io ho fatto un giuramento sacro. Non posso adesso
tirarmi indietro più e se dovrò morire, morirò con onore. Il resto non è mia
responsabilità. In fondo io sono un povero uomo, anzi un povero ragazzo! -
L’inatteso colloquio era finito e Geltrude, questa volta lentamente si alzò
in volo per salire sempre più su nel firmamento.
Tony passò il resto della settimana quasi sempre in compagnia del padre Jerry
tra i boschi, il verde delle loro fronde ed i prati tappezzati di aghi degli
abeti, con tanti funghi mangerecci che Susan cucinava splendidamente alla
brace.
Nei torrenti limpidi si era rinnovata la sua capacità di abile pescatore di
salmoni, cibo preferito, sia da Jerry che dal giovane accademista assieme
alla fresca insalata dell’orto.
In quella quiete serena, Tony ebbe il tempo di riflettere su quanto, nel suo
immaginario, aveva sentito da Geltrude ma cattolico osservante non poteva
immaginare che il suo Dio potesse abbandonare l’uomo, la sua creatura
pensante che aveva voluto a sua immagine e somiglianza.
Tony era certo che sarebbe avvenuto il miracolo del rinsavimento del genere
umano come, in quel momento, non riusciva ne a comprendere ne ad
interpretare.
Futuro tenente pilota della Marina, destinato alla Scuola Speciale del
Michigan, a due passi da Detroit, dove si preparavano i piloti dei jet che
avrebbero arricchito dei migliori specialisti del volo le porta aerei
americane nel mondo, Tony si sarebbe allontanato dal suo Nevada e dalla amata
California dicendo quasi addio ai propri genitori ed ai suoi nonni ma anche a
Santa Barbara, a Santa Monica e San Diego dove aveva imparato le prime norme
della navigazione marina.
Avrebbe percorso tutta la carriera militare e cosa non ultima avrebbe
ricevuto dall’Amministrazione un ricco e lauto stipendio con il quale si era
ripromesso di aiutare finanziariamente i propri familiari ed in particolare
Susan che finalmente avrebbe potuto lasciare il suo faticoso lavoro nel Posto
di Ristoro sulla strada tra Sparks e Reno.
I voli diurni e notturni riuscivano a rendere felice Tony ed inoltre a non
farlo pensare riguardo alla profezia di Geltrude.
Dalla nuova destinazione sulla porta aeri a propulsione nucleare era stato
comandato di attaccare nottetempo, con l’ultima versione di un F17 una città
medio orientale, covo di terroristi integralisti per ritorsione ad un loro
attacco biochimico nel Texas.
Gli avevano detto che l’ordigno che doveva lanciare era una arma atomica che
avrebbe causato più di duecentomila morti e questo ordine gli era stato dato
mentre era già in volo.
Tony, da prima, aveva creduto che si trattasse di uno scherzo del
coordinatore delle incursioni su quel pericoloso territorio ma,
immediatamente dopo, aveva avuto la conferma di quel ordine da parte
dell’ammiraglio in persona.
Gli aveva anche detto che altri sei F17 avrebbero compiuta la stessa azione
su altrettante città e che questo era il volere del Presidente degli Usa.
-Mio Dio non farmi agire in questo modo, -pregò, con tutta la fede che aveva
profondamente nell’anima e mentre i battiti del suo cuore erano arrivati
sull’orlo del parossismo, -Ti prego fammi morire prima che io possa compiere
uno scempio simile. -
Attese un paio di minuti mentre l’obbiettivo si avvicinava sempre più.
Dio non rispose alle sue suppliche e quando ormai il suo jet aveva raggiunto
la quota di trentanove mila piedi, improvvisamente vide nella sua
immaginazione l’ombra di Geltrude e la strage, dalle conseguenze
apocalittiche, che avrebbe compiuto.
Fu allora che capì che il consiglio, datogli da Geltrude, era verità
sacrosanta, virò verso l’oceano in picchiata e supplicando Dio di avere pietà
di lui, cadde come un uccello ferito a morte nel mare senza azionare il
dispositivo di accensione e di sgancio della bomba.