ARMANDO ASCATIGNO

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RAGIONEVOLE DUBBIO DI INNOCENZA (Romanzo)

RAGIONEVOLE DUBBIO DI INNOCENZA
(C) ARMANDO ASCATIGNO
TUTTI I DIRITTI RISERVATI

Questa è un’opera di fantasia.
Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale
Tutti i diritti sono riservati.




PRIMA PARTE


CAPITOLO PRIMO


Mi ero innamorato di Laura a prima vista ma non di tutta Laura, soltanto del suo viso incantevole.
Dei suoi capelli neri riccioluti e lunghi, dei suoi occhi grandi e verde smeraldo a mandorla, ancora più grandi per gli occhiali che portava sul naso dritto e dalle narici tagliate di sbieco larghe e sensuali, della sue labbra carnose che incorniciavano la bocca che si apriva spesso in un sorriso dolce e smagliante, mettendo in mostra una dentatura perfetta e bianchissima.
Potevo dire che, oltre alle mani affusolate e le gambe lunghe con due piedini piccoli e belli come le sue mani, Laura era tutto lì.
Impazzivo baciandola oppure quando lei mi accarezzava e sognavo guardandole gli occhi splendidi come due laghi di montagna.
L’avevo conosciuta a Brindisi, quando io avevo ventuno anni e lei appena diciassette, al mare sugli scogli oltre al Monumento al Marinaio nei pressi del Faro all’imboccatura del porto mentre mi trovavo in quella città a fare come al solito una visita estiva alla mia nonna materna d’estate, dove passavo nella sua casa in via Cristoforo Colombo un breve periodo di vacanza.
Mia nonna era una signora ancora non molto anziana che doveva essere stata una bellissima donna da giovane e che anche allora portava con disinvoltura, pure nella povertà, un sorriso che le apriva in viso gli occhi grigio perla ed una bocca dalle labbra morbide e ben disegnate .
Amavo mia nonna ed i suoi capelli bianchi e la dolcezza del suo carattere sempre pronta a soddisfare anche ogni mio piccolo desiderio culinario.
Era una ottima cuoca e sapeva preparare in cucina anche un piatto di cozze con maestria o farmi assaggiare delle vere leccornie, come le orecchiette fatte con le sue mani con un sugo di pomodoro squisito, imbottigliato in casa.
A quell’epoca non c’era famiglia in Puglia, anche benestante, che non preparasse, anno per anno, con i pomodori freschi la grande festa e la grande faticata di conservare in centinaia di bottiglie tutto il sugo di pomodoro che poi si sarebbe consumato durante tutto l’autunno, l’inverno e la primavera.
E che dire della frutta sia della terra o del mare, dai meloni ai cocomeri, dall’uva ai fichi e poi dei datteri di mare alle cozze pelose ed alle vongole.
Quello che ancora ricordo, in modo indelebile, nella mia memoria era che mi sentivo felice in quella città forse perché vi passavo troppo pochi giorni.


La famiglia di mia nonna abitava in un vecchio e solido edificio, al secondo ed ultimo piano, con un bel balcone sulla strada ed uno scantinato al quale ci si arrivava scendendo una scala.
Provavo un gusto irrefrenabile nello scendere quella scala di legno e nello scoprire quello che c’era dentro, come un barile di olive nere oppure i fichi secchi ben disposti e le mandorle con le quali spesso facevo colazione.
Di sopra c’era un grande terrazzo bollente di giorno ad agosto ma sufficientemente fresco di notte e tutte quelle stelle splendenti nel cielo quando non c’era la luna.
Quel grande terrazzo era il mio posto preferito perchè mi dava l’impressione che da lassù si potesse dominare il mondo e la sua bellezza, il mare lontano all’orizzonte ed il porto, la favolosa campagna pugliese dalla parte opposta verso ovest.
Ricordo che era mia abitudine appena arrivavo, il primo giorno a Brindisi, di correrci sopra anche se pure per me passavano gli anni e non ero più un ragazzino.
Al piano terra abitava Francesca.
Di lei mi ero preso una cotta quando avevo soltanto quindici anni.
Francesca aveva la mia stessa età, forse qualche mese in più e nel piccolissimo giardino, ricco di fiori, interno ed attiguo al suo appartamento prendeva il sole mezza nuda.
A quell’età ero di una timidezza disarmante ma lei si esibiva con malizia e lo faceva apposta, nello spogliarsi, perché sapeva che io la spiavo dal di sopra guardandola di nascosto.
Tre o quattro volte l’avevo fermata facendo i salti mortali per darmi coraggio.
Lei, pur facendo la sostenuta, mi aveva dato un po’ di corda ed un pomeriggio sul tardi ci demmo appuntamento al verde Parco delle Rimembranze.
Francesca aveva un bel corpo ed un seno prepotente e piuttosto provocante, direi assai sensuale ed esplosivo.
Facemmo presto ad intenderci, lei desiderosa di avere una prima esperienza maschile ed io arrapato come un coniglio in amore.
Ci scappò un po’ di petting e niente altro ma tutti e due fummo soddisfatti tanto che lei poi mi regalò una sua foto con dedica.


Quando mi innamorai di Laura non mi ricordavo più di quella ragazzina che avevo frequentato ogni estate per quattro anni ma che poi si era sposata giovanissima con uno di Lecce.
Laura, oltre al bellissimo volto, aveva anche un altro pregio.
Sapeva ascoltare tutte le mie confidenze e si comportava come una vera fidanzata.
Aveva insistito perché andassi a casa sua dai genitori, per farmi conoscere, presentandomi e siccome quello sarebbe stato l’unico modo per uscire insieme, accettai, sebbene a malincuore.
D’altro canto pensai che difficilmente avrebbero potuto corrermi dietro, perché vivevo a Treviso, a mille chilometri di distanza da Brindisi e studiavo legge a Padova.
Mi mancavano un paio d’anni alla laurea e nei momenti d’intimità avevo detto alla ragazza che una volta laureato ci saremmo fidanzati ufficialmente ed altrettanto avevo affermato a sua madre ed a suo padre.
Sapevo di mentire ma in quei momenti avrei giurato anche sulla Bibbia o su qualsiasi altra cosa al mondo, dal momento che avevo bisogno assolutamente di quella diciassettenne.
Io e Laura avevamo bisogno della stessa cosa e l’importante era come fare per trovare un posto adatto alle nostre necessità.
Fu la solita cugina della madre, zitella non per scelta, che ci concesse il suo piccolo appartamento alla “Commenda”, quasi tutti i pomeriggi per non più di due ore e mezza al giorno, mentre lei se ne andava in giro a chiacchierare ed a pettegolare con tutte le sue amiche, ma non su di noi.
Io le ero particolarmente simpatico per il mio modo di esternare cortesia con i fiori e l’educazione del mio Veneto con tutti quei grazie e prego, abituali dove vivevo ma rare tra i residenti a Brindisi.
Mi aveva detto.
-.Ragazzo mio io mi fido di te, pertanto non mi combinare guai grossi e soprattutto non metterla incinta. -
Non aveva voluto aggiungere altro, ritenendomi sufficientemente intelligente per capirla al volo.
E così fu che Laura ed io perdemmo contemporaneamente la nostra verginità.
Non la misi incinta facendo le acrobazie ma vi riuscii, pur con estrema fatica e sudore.
Adoravo Laura e per nulla al mondo le avrei procurato un danno simile che non meritava assolutamente.
Quell’anno fu un anno stupendo se non fosse accaduto un evento tragico : il naufragio della nostro bellissimo transatlantico Andrea Doria.
Ero preoccupato perché sapevo che alcuni parenti di mio padre, veneti come lui, avevano l’abitudine di viaggiare con le navi da crociera.
Rimasi da mia nonna ancora pochi giorni e tra i pianti della madre di mia mamma e lo strazio di Laura me ne tornai a Treviso un po’ deluso per non avere finito in bellezza la mia non lunga vacanza.






CAPITOLO SECONDO





All’Arena di Verona presentavano una ottima edizione del Mefistofele di Arrigo Boito, avendo già debuttato con la solita Aida nella stagione estiva in pieno sviluppo ed io ero molto appassionato di Lirica.
Possedevo una vecchia ma ancora efficiente Fiat 1100 di colore grigio che tenevo con grande cura, con la quale facevo spesso la spola tra Treviso e Padova recandomi all’Università con il tempo buono e non prendendo il treno come abitualmente facevo durante l’autunno inoltrato e l’inverno .
Quell’auto usata era stato il regalo dei miei genitori per i miei ventuno anni ed era il mezzo che mi permetteva di avere molte amicizie femminili, fuori di Treviso.
A Mestre c’era una mia compagna di Facoltà che frequentava il primo anno, di nome Margherita, a cui avevo promesso di fare un regalo portandola all’Arena.
Margherita è una delle protagoniste del Mefistofele e pensai che le avrebbe fatto molto piacere assistere allo spettacolo visto l’abbinamento del nome.
Lei sarebbe stata il mio ideale di donna nell’ipotesi che nel mio destino fosse stata segnata la parola “matrimonio”, cosa che ancora non era scritto nemmeno nel pensiero di Dio
Era la più bella ragazza che avessi mai conosciuto e nemmeno con una lanterna sarebbe stato possibile trovarle un minimo difetto dalla testa ai piedi.
Sembrava scolpito da una mano divina il suo corpo, che avevo ammirato spesso a Bibione già durante l’estate precedente, le poche volte che aveva accettato la mia compagnia, in un bikini mozza fiato.
Il viso era delicato, dolce, molto espressivo e lo sguardo faceva contemporaneamente tenerezza, trasparendo attraverso gli occhi cerulei un anima candida e sublimazione, come se uscisse dalla sua pelle un alito impalpabile dove un processo inconscio scaricava all’esterno l’attività psichica positiva del suo cervello attraverso il benessere di chi la circondava.
Ma se già la sola presenza di quella bionda naturale con la chioma sempre in ordine era fonte di magico benessere per me, questo diveniva estasi quando Margherita mi parlava con quella voce piena di toni languidi, suadenti ed alla stesso tempo profondi e diceva di cose semplici e toccanti ogni fibra del mio cuore, qualsiasi argomento trattasse.
Anche le sue movenze profondamente femminili, il modo di scuotere la bella chioma lunga ed ondulata, quello di porgerti la mano morbida e vellutata oppure il sorriso che mai mancava sulla sua splendida bocca mi avevano letteralmente plagiato.
Era diventata senza forzature letterarie il mio “alter ego” cioè l’anima femminile del mio essere maschio, uomo dalle mille sfaccettature caratteriali ma impregnato di testosterone.
Tutto ciò si era manifestato in me ancora più prepotentemente proprio in quella stagione, al ritorno da Brindisi dove mi era innamorato di Laura.
Ed era un vero mistero pensando a quanto fossi attaccato alla ormai mia brindisina.
Ma nulla riusciva a distogliermi da Margherita quasi fosse, parafrasando il Poeta, un angelo del Paradiso venuto sulla Terra a “miracolo mostrare”.
D’altro canto lei non nascondeva più la sua preferenza per me, senza parole inutili, ma soltanto con il suo atteggiamento di donna che aveva trovato il suo vero ed unico uomo.
Io ne avevo un timore quasi reverenziale meditando su quanto fossi stato facile fino allora a scegliere le donne della mia vita.
Non era colpa mia.
Sapevo di essere calamitato dall’altro sesso con una forza di attrazione troppo grande per le mie scarse resistenze psico-fisiche e conoscendomi bene, capivo che anche con Margherita tutto si sarebbe compiuto al di fuori della mia volontà di rimanere per sempre uno scapolo impenitente.
Margherita diveniva così, oltre che il mio Angelo, anche la mia prossima preda e tutto procedeva in quel senso.
Mai l’avrei potuta, sia volontariamente che involontariamente, abbandonare nelle mani di qualsiasi altro giovane spasimante nemmeno se avessi dovuto lottare con tutte le mie forze per conquistarmela definitivamente.


Quando eravamo già stati insieme, prima del mio invito all’Arena di Verona, il vero problema per me era stato quello di conciliare la mia doppia personalità tra l’onestà che mi portavo addosso dall’infanzia con quel prurito insopportabile che mi sentivo dentro tutte le volte che riuscivo a conquistare una donna.
Con Margherita mi ero finalmente confidato ed ero felice di averle potuto parlare con una sincerità disarmante.
Come un paziente di fronte al suo medico non le avevo nascosto nulla di me.
Le avevo detto.
- Margherita tu sei colei che sposerei se non fossi certo di tradirti alla prima occasione. Tu sei il “non plus ultra” che potessi amare e desiderare ma ho paura di deluderti non so quando né con chi, almeno che non subissi una mutazione genetica molto improbabile e certamente per me piacevole.
- Dimmi cosa pensi di questo ragazzo che hai a fianco in questo letto d’albergo e non avere paura di ferirmi! -
Margherita mi aveva guardato negli occhi in un silenzio che sembrava non dovesse finire mai poi aveva parlato dolcemente.
- Amore mio, immaginavo tutto quanto mi hai appena detto da tempo ma questo non toglie niente all’amore che io sento nel mio cuore per te. La tua non è una malattia ma uno stupendo modo di intendere la vita che non è neppure da biasimare. Tu mi vai bene così ed io so che non potrei vivere senza di te. -
Poi aveva aggiunto accarezzandomi con le sue mani calde.
- Non ho tutte le tue esigenze anzi nessuna, .ma di una cosa sono certa: che mai sarò io colei che ti abbandonerà al tuo destino. Ti sarò sempre vicina e se lo vorrai ci ameremo sempre di più senza falsi pudori. -
- Sarò io la tua donna e sarà Margherita la compagna della tua vita per sempre. -


Mi parve di rivedere in Margherita la protagonista dell’opera che ci apprestavamo di sentire all’Arena.
Nella scommessa tra il Signore e Mefistofele, dopo che Faust ebbe venduto l’anima al Diavolo per rimanere giovane fino alla morte, il dramma più pesante aveva colpito proprio Margherita.
Questa, innamoratasi di Faust che l’aveva sedotta e poi con crudeltà abbandonata, impazzisce dal disonore ed uccide la propria creatura e poi muore.
Solo alla fine della vita Faust si ribella al Demonio e vicino alla morte invoca il Signore ed i suoi Angeli.
Infine mentre Mefistofele, contorcendosi scornato sentendo il coro angelico scompare nel profondo dell’Inferno, Faust pentito dei propri peccati, per intercessione di Margherita viene accolto in cielo vicino all’Onnipotente.
Alla conclusione del dramma, Margherita mi si accoccolò addosso e mi disse con le lacrime agli occhi e finalmente con la voce tremolante che la faceva ancora più delicata.
- Il mio amore per te non avrà mai fine e tu non mi hai sedotto. Io ti terrò vicino a me perché sei più importante dell’aria che respiro ed in più sento a pelle che, malgrado le tue remore, il tuo amore è così forte che nemmeno un demonio potrà portarti via dalla tua Margherita anche se ti drogassero.






CAPITOLO TERZO





Durante l’autunno-inverno che seguirono quell’estate di fuoco oltre a Margherita, che frequentavo assiduamente incontrandoci nella sua casetta di mezza montagna oltre Vittorio Veneto, ed a Laura, che mi tempestava di lettere e telefonate, conobbi appena fuori Treviso la figlia di un proprietario terriero che produceva ottimo vino di alta qualità venduto e commercializzato per il novanta per cento all’Estero.
Erika aveva appena venti primavere ma già si comportava e si mostrava come una grande signora.
Era molto ricca ed allevava cavalli da corsa, suoi personali, vicino a Treviso.
In realtà non era lei che li allevava ma solo li montava essendo Erika l’unica proprietaria della scuderia, ereditata direttamente dalla nonna paterna.
All’allevamento vero e proprio pensavano diverse persone assunte dalla ragazza a Milano, tra le più in vista negli ippodromi del nord.
Era una cavallerizza provetta come avevo potuto constatare con i miei occhi vedendola volare con i suoi purosangue nelle campagne intorno a Treviso sui suoi terreni, annessi alla scuderia.
Un giorno di metà febbraio mi ero fermato casualmente vicino al suo percorso di allenamento e l’avevo così potuta ammirare non solo per lo stile che possedeva ma soprattutto per la grazia ed il pepe che le prorompeva da ogni angolo della persona.
Si era fermata, una volta vicino alla mia posizione di spettatore, per controllare uno zoccolo anteriore di un bel baio asciutto e possente al tempo stesso.
Poteva essere alta non più di un metro e sessantacinque ed aveva un corpicino, disegnato dalla divisa di jockey, molto flessuoso come quello di chi non trascura la palestra per i cavalli.
L’avevo già incontrata in un negozio di Treviso tempo addietro ed alla commessa, mia amica, chiesi chi fosse quella bella brunetta.
Mi rispose che Erika era la più ricca e snob della città e dintorni e che non aveva nessun ragazzo che le facesse la corte, a causa del suo modo piuttosto brusco nell’affrontare la gente che non appartenesse al suo entourage.
Mi disse anche che era il più bel partito del Veneto.
Figlia unica avrebbe ereditato un patrimonio miliardario prescindendo dagli immobili che erano già suoi in molti quartieri residenziali di Treviso.
Quando si fermò vicino a me, scendendo da cavallo, la salutai con il mio migliore sorriso e lei mi rispose con un altro sorriso molto cortese ed esclamò.
-.Oggi sono fortunata! Mi serve il suo aiuto, le dispiace scendere qui e darmi una mano con il cavallo?
Non la feci finire di parlare, in un attimo le fui accanto.
- Sono Marco Ferrin, signorina…-
- Erika Cervon, - squittì ridendo, - che ne dici se ci diamo del tu dal momento che ti conosco come quello della Fiat 1100 grigia, quasi avvocato in quel di Padova. -
Rimasi sorpreso da quelle parole, ma risposi subito.
- OK, Erika, vedo che mi conosci ma, se posso, dimmi come hai fatto a sapere queste cose? -
Erika mi guardò dritta negli occhi mentre io quasi intimidito fissai il mio sguardo sul suo viso minuscolo ma perfetto dalla bocca a cuoricino e dagli occhi grandi, castano verdi, intelligenti ed espressivi come quelli di una bambola.
La ragazza attese un attimo prima di rispondermi, poi scandì.
- Vedi Marco so anche molte altre cose sul tuo conto. Hai la fama di un play boy assatanato ed assediato di donne. Molte volte mi sono chiesta cosa hai di speciale per piacere tanto. -
- Adesso lo so, - continuò con lo sguardo da furba immatricolata, -
sei veramente un bel ragazzo ed hai occhi come quelli di un bambino innocente anche se vedo oltre a quelli trasparire un ragazzo pieno di ambizione anche se onesto, vergognosamente onesto per i tempi che corrono. -
- Io so quello che voglio dalla vita, come te, ma a tua differenza scelgo io ciò che voglio, per esempio gli uomini! -
- Allora,-risposi, - non vado bene per te Erika? Ed a pensare che su di te avevo fatto un pensierino! -
- Questo lo vedremo più in là nel tempo mio caro bellimbusto! -
Erika mi disse di tenere la zampa anteriore destra del purosangue ed io eseguii l’ordine. Lei controllò lo zoccolo e poi con un balzo montò in sella, mi fece ciao con la mano dicendomi.
- Ci vediamo domani alla festa per i miei ventanni. Vieni alle quattro di pomeriggio alla Fattoria di mio padre. La strada la sai, arrivederci Marco. -
Un attimo dopo era sparita con il suo puledro alla mia vista.


Durante tutta la sera e per un buon tratto della notte, mentre tentavo di studiare qualcosa inutilmente, pensai a lungo se recarmi o meno alla festa di Erika.
Ero combattuto tra opposti sentimenti ed emozioni diverse, da un lato due ragazze pulite e trasparenti come Laura e Margherita, dall’altro il mio spirito di avventura che mi spingeva verso esperienze diverse, mai vissute fino allora, impersonate dalla bella Erika e dal suo imprevedibile modo di agire.
Capivo che potevo andare incontro ad un grosso rischio e non ero in grado di decifrare se fosse stato meglio essere scelto da Erika oppure essere ignorato da questa giovane donna, così sicura di se e piena di classe e signorilità non disgiunte da viva intelligenza, che certamente aveva e che solo nebulosamente mi aveva mostrato in pochi minuti di colloquio.
Forse se in quella serata mi avesse telefonato Laura oppure Margherita, forse se avessi dovuto affrontare un esame o più esami fondamentali per la mia futura carriera, se infine avessi potuto consigliarmi con un fratello che non avevo, non mi sarei presentato il giorno dopo alla fattoria di Erika per augurarle il buon compleanno.
Invece l’indomani all’ora convenuta fui il primo a salutarla, quando facendosi attendere almeno un quarto d’ora, spunto sulla scala di casa.
Le strinsi la mano inguantata di bianco e le augurai tutta la felicità che desiderava con in mano un enorme mazzo di rose rosse.
Erika era vestita con semplicità ed indossava una bellissima gonna di colore bianco di seta purissima con una camicetta dello stesso colore, attillata quel tanto da mettere in evidenza un seno piccolo ma perfetto.
Oltre al nasino all’insù, osservai il suo collo ornato da una catenina d’oro con crocifisso ed i capelli castani raccolti con un nastro rosa alla nuca.
Portava delle scarpe di pelle di tartaruga con un modesto tacco, come se non le importasse nulla di apparire più alta di quanto fosse in realtà.
Il sorriso che mi fece mi ripagò immediatamente della nottata in bianco, passata pensandola.
Mi disse, con aria birichina.
- Dottor Marco Ferrin non abituarti troppo alle feste….e ricordati che ti voglio laureato al più presto ed allora quando avrai vinto il concorso per diventare avvocato tu non solo sarai il mio avvocato ma anche mio marito. -
Mi si avvicinò, ignorando la presenza di tanti altri invitati e mi baciò a lungo appassionatamente sulla bocca.
Poi ancora non soddisfatta mi accompagnò in enorme salotto dove c’era molta gente e proclamò.
- Carissimi amici, sapete che oggi è il mio compleanno e quindi mi sono fatta un grande regalo. Vi presento il mio fidanzato, il quasi dottore in legge Marco Ferrin. Vi informo che sono innamoratissima di lui e che tra qualche anno ci sposeremo. -
Un lungo applauso seguì le sue parole ed ognuno venne a congratularsi con noi per la bella notizia.
Ero rimasto sbalordito e la prima cosa che pensai fu che avevo conosciuto una pazza da legare mentre lei donava ai presenti i suoi più smaglianti sorrisi.
Non pronunciai nemmeno una parola in quel momento ma appena riuscii ad isolarmi con Erika, esclamai adirato.
- Mi sai dire che ti è passato per la mente mia bella Erika! Per chi mi hai preso? Forse per un tuo stallone? -
- Tu mi piaci ed anche tanto ma non permetterti mai più di dire certe solenni fesserie.Adesso voglio proprio vedere come te la caverai con i tuoi amici! -
- Una cosa è essere amanti, non certo promessi sposi. Io ti reggerò il gioco per un poco di tempo, tanto per aiutarti a non fare una figuraccia, ma sei libera di mandarmi a quel paese anche subito. -
Erika cominciò improvvisamente a singhiozzare tanto che il petto le si scuoteva per i singhiozzi.
Non sapevo cosa fare quando lei mi sussurrò con la bocca a forma di cuore vicina al mio orecchio.
- Ascoltami Marco, non sono mai stata felice nella mia vita come in seguito ti racconterò. Poi sei spuntato tu, come un faro in una notte buia, illuminando la mia strada. Se ho agito impulsivamente ti chiedo scusa ma ti prego non abbandonarmi e facciamo almeno finta di essere due fidanzati. Poi deciderai tu, se mi vorrai io sarò per sempre tua. -
Passammo la serata assieme a parlare di mille cose mentre gli invitati si ingozzavano di tutto quel ben di Dio che era stato preparato ed a ballare al suono di un impianto stereo stratosferico.
Quando fu notte tutti se ne andarono facendo doppi auguri ad Erika ed a me.
Pensai se andarmene anch’io lasciandola sola ma subito pensai che un gesto simile non l’avrei mai fatto.
Rimasi nella Fattoria tutta la notte meravigliandomi che nessun parente fosse venuto per Erika.
Quella ragazza cominciava a farmi pena e quindi mi comportai delicatamente con lei, mostrandole tanto affetto e coccolandola come immaginavo mai le fosse successo.
Ci scambiammo solo qualche carezza e pochi baci teneramente e ci promettemmo di vederci spesso per passare alcune ore insieme e per conoscerci meglio.






CAPITOLO QUARTO





Prima che mi allontanassi dalla fattoria, Erika mi aveva dato una sua fotografia, che la ritraeva mentre accarezzava un suo puledro ed in sella allo stesso.
Dietro alla foto aveva scritto “A Marco perché si ricordi in ogni minuto della giornata di colei che spero divenga sua moglie”.
Sotto la firma, il suo numero telefonico privatissimo.
Nei giorni seguenti mi dedicai anima e cuore allo studio e nei pochi momenti di relax pensavo intensamente alle mie donne anzi, per avere le idee più chiare possibili, avevo messo le loro foto sul mio tavolo da studio.
Laura, Margherita ed Erika mi tenevano compagnia mentre come un carcerato meditavo sul sistema da applicare per evadere dalla loro stretta.
In verità, più che rompermi il capo su come evadere, pensavo come fare per giocarmi la carte con tutte e tre.
Il problema “Laura”era quello di più facile soluzione vista la distanza enorme che ci separava.
Era soltanto ridicolo pensare che se avesse preso un treno me la sarei trovata in casa in un battibaleno ed ancora più velocemente se avesse preso un aereo per Venezia.
Erika era un caso a parte perché dopo il chiarimento che avevamo avuto dopo il suo annuncio agli invitati, ero certo che lei non mi avrebbe cercato se io non glielo avessi chiesto e poi Erika era a due passi da me ed avrei potuto, con discrezione, tenermela buona e capire facilmente gli ulteriori sviluppi della nostra strana, bella e fantascientifica relazione.
Diversa mi era parsa la situazione che ormai era più che cementata e consolidata tra me e Margherita.
A parte il fatto che la vedevo ogni volta che mi recavo a Padova in Facoltà ormai, quasi ogni settimana, passavamo insieme la domenica nella sua casetta sopra Vittorio Veneto assolutamente dimenticata dai suoi parenti ed invece nido d’amore per noi due che ci sentivamo e ci comportavamo come due sposini, lontani per lavoro durante la settimana ma uniti e felici alla domenica.
Margherita aveva l’abitudine di telefonarmi il sabato sera per avvisarmi se dovessi trovarmi ed a che ora sulla strada per Vittorio Veneto, lo stesso sabato a sera inoltrata oppure al mattino presto di domenica.
Margherita era di fatto la mia ragazza che amavo perdutamente e solo con lei facevo sesso durante tutta la giornata, che era più che sufficiente per soddisfarci per almeno sei giorni.
Sentivo che Margherita possedeva una plus valenza positiva rispetto ad Erika ed a Laura ma il problema era assai complicato.
Mi domandavo se fosse giusto nasconderle quanto mi fosse successo ultimamente o se al contrario essendo sincero, a gioco fermo, non l’avessi ferita mortalmente.
Più per alleggerire la mia tensione nervosa che per altro aveva preso una decisione precisa ed irrevocabile.
Margherita doveva restare fuori da quel maledetto gioco delle tre carte almeno fin quando da sola non avesse capito la verità.


Dopo quattro giorni, di sabato alle ventidue, ricevetti la telefonata attesa di Margherita.
Mi disse che l’indomani potevo trovarmi al solito posto alle otto e trenta. Chiese come avevo passato la settimana dal momento che non mi aveva visto in Facoltà ed io le risposi che avevo studiato in modo continuativo due esami che avevo deciso di affrontare al primo appello alla fine di giugno.
Lei si congratulò con me per la forza di volontà che dimostravo, mi mandò un sacco di baci attraverso il telefono e mi disse concludendo.
- Marco, domani ti farò felice per essere nato e tu nemmeno puoi immaginare come mi sento in forma. Non fare tardi ho bisogno di te come del pane. -
Laura l’avevo sentita il pomeriggio sul tardi dello stesso giorno e mi raccontò che si era iscritta in una palestra per rassodare i muscoli pettorali, addominali ed i glutei.
Che si era tolta gli occhiali sostituendoli con lenti a contatto e che si sentiva più atletica e sciolta di quanto non fosse stata al momento in cui ci eravamo visti l’ultima volta.
Mi augurò di mantenermi sempre con la testa sul collo e di pensare a lei almeno quando mi mettevo a letto. Finì dicendomi.
- Marco ti amo sempre di più e non vedo l’ora che tu venga a Brindisi dove ti prometto di fare all’amore ogni giorno. -
Per quella settimana avevo deciso che non avrei telefonato ad Erika anche se avvertivo il desiderio di sentire la sua voce.
Volevo che Erika meditasse bene sul mio conto e soprattutto che capisse che non ero un tipo facile nell’accettare di essere corteggiato nemmeno da una principessa.


Sabato mattina all’alba ero già in piedi.
Mi feci una doccia bollente e poi una fredda ed uscii da casa alle sette precise.
Presi la mia 1100, misi il riscaldamento al massimo e dopo aver scaldato il motore mi diressi felice all’appuntamento programmato con Margherita.
Arrivai al solito posto con almeno mezzora di anticipo.
Fermai la macchina su un rettilineo sul bordo della strada e rimasi li ad aspettare l’auto di Margherita.
Cinque minuti più tardi vidi una vettura sportiva, una Alfa Romeo, fermarsi dietro la mia Fiat ed uscire da quella, vestita con un completo di pantaloni e giacca di colore amaranto, Erika.
In un attimo la brunetta mi fu accanto.
Io scesi dalla mia auto e lei mi si buttò tra le braccia piangendo.
Ebbi appena il tempo di pronunciare alla giovane qualche parola.
- Erika, che fai piangi, perché sei venuta qui? -
- Non comportarti così, sto solo aspettando una mia compagna di Università per un esame molto difficile che vogliamo studiare insieme. -
Accarezzai il collo di quella stranissima giovane con dolcezza. Poi delicatamente aggiunsi.
- Ti prego non farmi una scenata di gelosia, mi faresti vergognare con lei ed io non desidero spiattellare gli affari miei a chiunque. -
Erika aveva stretto le sue braccia al mio collo e soltanto, quando per liberarmene alla svelta, le dissi, - se te ne vai immediatamente ti prometto che alle nove di questa sera sarò da te alla Fattoria, - smise improvvisamente di piangere ed asciugandosi con le mani il volto, come una bambina riuscita ad avere la marmellata, mi baciò sulla bocca e senza pronunciare mezza parola, tornò alla sua vettura e facendo una pericolosa inversione ad “U”, sparì verso Treviso.
Impiegai almeno cinque minuti per riprendermi almeno un poco, giusto il tempo di vedere Margherita fermarsi davanti a me con la sua utilitaria sulla piazzola di sosta a circa trenta metri di distanza.
Ero quasi paralizzato dai residui di panico che mi aveva accelerato il cuore a centocinquanta.
Margherita, limpida e pulita come acqua di alta montagna, mi sorrise allegra e felice, prima di baciarmi appassionatamente ed esclamò, - lascio qui la mia macchina al sicuro in quel piazzale. Prendiamo la tua che è messa male sul bordo della strada ed andiamo a fare all’amore. -


Avevo visto negli occhi di Margherita una passione vulcanica del tutto eccezionale in lei, sempre controllata quando c’era di mezzo il sesso.
Era evidente che, come mi aveva preannunciato al telefono, questa passione dipendeva dal suo stato d’animo oltre che dal periodo estrogenino del suo ciclo e che in quel giorno aveva programmato una dimostrazione erotica di quanto mi amasse.
Generalmente ero io che prendevo l’iniziativa e talvolta faticavo un tantino per farla rilassare completamente.
Quando arrivammo nella sua casa, dopo che fummo entrati, disse.
- Marco, non ti ho mai desiderato tanto intensamente come oggi, mi sono finite le mestruazioni tre giorni fa e così possiamo fare all’amore liberamente senza problemi per te di controllare la tua virilità. -
Si sdraiò vestita sul letto della camera matrimoniale dei suoi genitori, chiuse gli occhi e mi raccomandò di accendere il riscaldamento autonomo mettendo la temperatura sui venticinque gradi.
Dopo alcuni minuti mi sdraiai accanto a quella stupenda creatura allungando la mano sinistra sul maglione di lana rosso, con il quale era venuta da Mestre, accarezzandole il seno morbido e prepotente.
Anch’io socchiusi gli occhi e con dolcezza ma seriamente le rivolsi la parola.
- Amore mio mi sento molto stanco ed anche un tantino depresso e non vorrei deludere le tue aspettative. Sto bene così vicino a te e tutta la tenerezza del mio cuore è tuo. -
- Devi avere molta pazienza oggi con me, probabilmente tra poco mi sentirò in ottima forma, facciamoci un sonnellino di qualche minuto. -
Margherita annuì e pose il capo sul mio torace con delicatezza.
Sapevo perfettamente che le mie condizioni psicofisiche non al top dipendevano dalla sorpresa fattami da Erika, anzi era un vero miracolo se le due giovani donne non si erano incontrate.
Pensai che Erika fosse troppo imprevedibile per giocare anche con lei “al fidanzato”e che quanto era successo poco prima poteva danneggiarmi moltissimo, visti i capricci della brunetta che ascoltava soltanto le proprie esigenze infantili di bambina prepotente ed abituata ad ottenere senza discussioni qualsiasi cosa le passasse per la testa.
Mi sentivo in trappola e capivo che se fino a quel momento ero stato fortunato nascondendo a Laura tutto di Margherita ed a quest’ultima della ragazza di Brindisi, ciò non poteva valere per Erika, il contrario della ingenuità, furba ed allo stesso tempo possessiva ed intelligentissima.
Ero molto contrariato dal dilemma. Non avrei mai rinunciato a Margherita ma avrei voluto avere anche Erika che dal canto suo aveva già detto ad alta voce che mi considerava il suo fidanzato ed il suo futuro marito.
Erika mi attraeva e mi calamitava per la rapidità delle sue difficili decisioni, per la sua non comune determinazione ed anche per la posizione sociale ed economica oltre che per quella bellezza “sui generis”e per quelle lacrime che distillava solo per me.






CAPITOLO QUINTO





La giornata di Margherita passò nell’illusione che il suo Marco si riprendesse dall’abbattimento del mattino, inutilmente.
Per quanto mi fossi sforzato, per quanto lei avesse fatto di tutto per mettermi in condizioni di trasmettermi la propria eccitazione, mi comportai come un ragazzino alle prime armi e se prima ero veramente in condizioni di stress, poi mi sentii vergognosamente ridotto al livello di un eunuco.
Margherita capì che il momento del suo bell’Amore era negativo su tutta la linea ed ebbe la prontezza e l’intelligenza di non farmi pesare nemmeno con le parole la situazione che si stava facendo sempre più pesante.
Con grande tenerezza mi baciò ed accarezzò come una sorella, poi sdrammatizzò la scena con una domanda velata solo da sorpresa.
- Amico mio che ne dici se ti porto a nanna questa sera al tramonto senza che tu mi metta incinta? Proveremo presto di nuovo ad avere un bebè tutto suo padre, cosa pensi a proposito? -
Io feci una risata sonora e prendendo in braccio Margherita la cullai a lungo tra le mie forti braccia. Attesi un poco che lei fingesse di addormentarsi e promisi.
- Quando ci vedremo la prossima volta dovrai prima, per alcuni giorni, farti una cura ricostituente perché ti ridurrò uno straccio. -


Arrivai a casa e mi feci subito una doccia rigenerante, presi un tranquillante leggero ed uscii nuovamente da casa per l’appuntamento con Erika.
Mi sentivo un leone ferito nella mia virilità.
Giunsi a casa di Erika prima delle nove.
La strada per la Fattoria era illuminata da diversi lampioni anche se una leggera nebbia mi impediva di vedere perfettamente, in fondo alla strada, il grande edificio che fungeva anche, in un’ala, da uffici amministrativi.
Improvvisamente vidi seduta sulle scale di accesso alla villa con il mento appoggiato su una mano, in atteggiamento serio ma molto disteso, Erika.
Era coperta da un giaccone di pelle scuro e si era messa sul capo un berretto di lana bianco con visiera.
Dall’interno del salone del piano terra provenivano le note della nona di Beethoven probabilmente da un lettore CD messo a basso volume e quella musica dava all’ambiente la serietà che meritava.
In quel giaccone Erika sembrava più piccolina di quanto fosse, più
fragile e più bisognosa di protezione che mai.
Sebbene così conciata era sempre molto deliziosa quasi leziosa nell’aspetto tanto diverso dal solito, non più spavaldo e colmo di severa signorilità, abituale in lei sempre considerata la signorina inavvicinabile e con la puzza sotto il naso.
Quando vide avvicinarsi la mia Fiat, si alzò in piedi e mentre mi fermavo, mi corse incontro svelta come uno scoiattolo.
Durante il percorso da casa mia alla Fattoria avevo pensato di vendicarmi per quello che mi aveva fatto passare in quella allucinante giornata ma quando me la vidi vicina, con le braccia protese verso di me, ebbi la sensazione di avere sbagliato completamente sul suo conto.
Non conoscevo le motivazioni sul perché fosse così cambiata da quando l’avevo conosciuta, ma era evidente che lei fosse diventata un'altra persona almeno nei miei riguardi.
Non era assolutamente spavalda né sicura di se e pareva avesse fatto un bagno di umiltà.
Mi disse.
- Hai mantenuto la tua promessa e non m’importa nulla se questa mattina forse mi hai mentito sulla tua amica studentessa. -
- Marco io ti amo e ti giuro che non mai detto queste parole a nessun in vita mia. Il mio è stato un colpo di fulmine, una freccia lanciatami da Cupido improvvisamente ed inaspettatamente mentre credevo di potere essere immune da queste fragilità umane.
E non perché non mi senta donna al mille per mille ma soltanto perché voglio mascherarmi così di fronte a chiunque tenti di avvicinarmi, come per mettere una barriera tra la mia persona e tutto il mondo che mi circonda. -
- Il motivo conduttore della mia esistenza, da quando avevo l’età della ragione, è stato di difesa totale ed intransigente verso ogni uomo e questo è dovuto all’esempio di mio padre, pessimo marito ed altrettanto cattivo padre sempre distaccato da mia madre, povera donna, tradita continuativamente da lui e conseguentemente ridotta ad oggetto senza valore. -
Guardavo il bel viso di Erika corrucciato che inviava con gli occhi dardi di fuoco e capii finalmente tutto il dolore di quella ragazza che covava nel cuore, chissà da quanto tempo.
L’abbracciai forte per farle sentire di non essere sola e ci dirigemmo verso l’interno della grande casa stretti l’uno all’altro come una sola persona.
Dentro c’era un bel tepore che invitava all’intimità.
Mi chiese se gradivo ascoltare la nona e quando le confidai che ero appassionato di musica classica si mostrò felice ed alzò leggermente il volume del suono.
Ci sedemmo su un grande divano di lana arancione e ci liberammo degli abiti pesanti che avevamo addosso.
Lei, si tolse il copricapo liberando i capelli ed il giaccone e mi apparve in tutta l’ avvenenza dei suoi ventanni appena compiuti.
Per quanto avessi giurato vendetta, non mi passò nemmeno per un momento in mente di comportarmi male con quella creatura che mi appariva tanto diversa dall’Erika che fino allora avevo potuto conoscere.
L’avvolsi di tenerezza e la coprii di carezze e di baci, mentre le parlavo con grande calore.
- Mia cara Erika non so come cominciare ma prima di tutto devi sapere che non ricordo più quanto mi hai offeso alla tua festa dicendo a tutti cosa avessi deciso nei miei riguardi. -
- Sento per te una tenerezza infinita ed uno struggente senso di protezione. Mi piaci e per la tua non comune capacità di sintesi e per l’attrazione fisica che provo nei tuoi riguardi. Onestamente non posso ancora dire di essere pazzo di te ma sento aumentare in me un sentimento che se ancora non posso chiamare amore con la A maiuscola certamente potrebbe diventare tale conoscendoti meglio. -
Erika mi rispose calma e suadente.
- Non ti preoccupare, Marco, sono disposta ad attendere ma intanto desidero per la prima volta in vita mia passare questa notte con te. Sono vergine e tu se lo desideri potrai avermi questa notte stessa. -
Con quella bambola bruna fra la mani, riflettei che le dovevo qualcosa e se pure il compito che mi aveva chiesto di svolgere non era del tutto di mio completo gradimento iniziai con prenderla in braccio portandola nella camera da letto, al primo piano.
Erika, dopo essere stata nel bagno attiguo almeno una ventina di minuti mi si presentò, come una sposa alla prima notte di nozze, con una vestaglia trasparente di seta bianca e tutta profumata di Chanel numero cinque, meravigliosamente senza il minimo trucco sul viso e con un sorriso radioso sulle labbra.
Ammirai i suoi bei capelli castani anche questa volta raccolti di dietro con un semplice nastrino azzurro, i grandi occhi verde castani, la bocca stupendamente disegnata da madre natura e quel nasino capriccioso con la punta all’insù.
Erika era così semplice da farmi pensare a quanta gioia mi avrebbe saputo donare se fosse realmente diventata, un domani, mia moglie. Ma la sua semplicità non le impediva di essere una donna seducente per quel modo di porgersi alle mie prime carezze molto più impertinenti di quelle che le avevo dato fino a quel momento.
La baciai, con una passione che non credevo potessi manifestare così interamente, su ogni centimetro quadrato della pelle mentre lei si divincolava per il piacere che le saliva al cervello rendendola ebbra,
Senza nemmeno accorgermi di ciò che stavo facendo la penetrai con infinta dolcezza mentre lei si era totalmente rilasciata.
Per buona parte della notte facemmo all’amore ripetutamente danzando su quel letto all’unisono finche sfinita mi disse.
- Marco ricorderò per sempre questa notte, e se tu mi avessi messo incinta ne sarei felice. -






CAPITOLO SESTO





Quello che inutilmente aveva atteso Margherita da me quella domenica, era avvenuto con Erika nella notte tra domenica e lunedì
Il mio erotismo era arrivato al massimo, accanto all’incantevole brunetta ed avevo soddisfatto il mio ed il suo appetito sessuale, senza badare alle conseguenze che avrebbero potuto succedere come diretta azione dei nostri comportamenti incredibilmente pseudo adolescenziali.
Alle sei e mezzo di lunedì, quando finalmente mi decisi di tornare a casa, ebbi soltanto la forza di buttarmi sul mio letto sfinito e dopo un solo secondo, caddi di colpo un sonno profondo senza sogni.
Verso mezzogiorno riuscii a svegliarmi seppure con notevole fatica ed a raccogliere alcune idee che avevano cominciato a perseguitarmi.
La prima era quella di avere perduto una giornata di studio con gli esami importanti che mi attendevano al varco.
Avrei compiuto ventidue anni il venticinque giugno e mi ero imposto un ruolino di marcia tale che, prima di arrivare ai ventitré, dovevo essere laureato.
Ciò significava che, oltre i due esami già programmati per giugno, avrei dovuto farne un terzo a luglio inoltrato per potere avere libero l’ultimo anno, allo scopo di finire tutti gli esami rimasti ed in più preparare la tesi di laurea che avrei dovuto discutere prima dell’inizio dell’estate dell’anno successivo.
Mi resi freddamente conto che questo mia volontà difficilmente avrebbe potuto realizzarsi nei tempi esatti che avevo elaborato e ciò significava per me di avere fallito la prima meta importante della mia vita perché, se mi andava bene, tutto al più avrei potuto laurearmi alcuni mesi dopo il mio compleanno, probabilmente nell’autunno dello stesso anno.
Questo pensiero mi aveva molto amareggiato.
In ogni caso era tutta colpa mia che avevo anteposto allo studio le mille tentazioni da me coltivate con le numerose donne della mia vita, oltre alle tre più importanti dell’ultimo anno.
Non dovevo dare conto a nessuno di ciò che facevo ma soltanto a me stesso, ma questo non era motivo di sollievo o di pace per il mio orgoglio ferito.
Vivevo solo a Treviso. Mia madre e mio padre cambiavano spesso residenza dal momento che lui era addetto alle ambasciate come primo segretario ed in quel periodo si trovava a Caracas, in Venezuela.
Ci sentivamo talvolta al telefono ma senza assiduità e non si trattava di mancanza di affetto tra me e loro ma solo che mio
padre aveva una educazione americana, nella quale i figli devono essere lasciati liberi di fare ciò che più gradiscono senza controlli di mamma e papà.
Io godevo di un sostanzioso aiuto economico mensile che era più che sufficiente per mantenermi agli studi e per tutte le esigenze primarie per vivere da solo.
Ero certamente un privilegiato ma ancora maggiormente dovevo fare i conti con la mia coscienza e con la mia dignità di studente.
Una cosa era certa, quell’anno non sarei andato a Brindisi e così la lontananza con Laura sarebbe divenuta definitiva almeno che quella ragazza non fosse venuta lei a trovarmi.
Volevo evitare questa possibilità e quindi non le avrei detto niente fino a luglio inoltrato.
Avrei continuato a frequentare sia Margherita che Erika ma con meno assiduità del recente passato e con patti chiari.
Nessuna delle due avrebbe dovuto interferire con i miei studi.
Feci uno sforzo per dimenticare subito tutti questi problemi che mi pesavano enormemente e dentro di me rimandai al giorno dopo ulteriori elaborazioni mentali.


Feci trascorrere cinque giorni prima di risentire Erika e Margherita e mentre con la prima la conversazione telefonica fu amabile e assai calorosa, con la seconda divenne rapidamente aspra e brusca, in quanto lei non voleva sentire ragione alcuna riguardo al mio silenzio che durava dal tardo pomeriggio della passata domenica. Nemmeno quando le dissi che avevo studiato come un matto fino a quel momento e che l’indomani mattina sarei stato a Padova in Facoltà, per sentire in Segreteria le ultime novità del calendario di esami, si era a ammorbidita rinfacciandomi la mancanza di tatto nei suoi riguardi trattandola come una Geisha sempre ad ubbidire ai miei ordini.
Non volli insistere con le scuse telefoniche, dicendole solamente che se avevo deciso di andare a Padova il motivo principale era che volevo parlarle e starle vicino per qualche ora.
Capii che il diverso comportamento delle due giovani era dipeso dall’insoddisfazione di Margherita riguardo ai mancati rapporti sessuali di quella pazzesca domenica.
Probabilmente Margherita non si era resa conto che il suo pesante malumore aveva una origine così prosaica ma io ne ero certo.
Quella ragazza, tanto bella che se avesse voluto, avrebbe potuto avere con un semplice sguardo decine e decine di corteggiatori disposti a fare fuoco e fiamme per lei, l’avevo profondamente ferita nei suoi fondamentali di donna.
L’indomani, subito dopo il mio arrivo all’Università, avevo intenzione di riparare al danno che le avevo cagionato portandola in un Motel, subito fuori Padova, per ripagarla fisicamente ed anche spiritualmente del dispiacere di cui ero stato anche se incolpevole protagonista.
Sapevo che il suo amore per me era così grande che sarei riuscito a farmi perdonare il modo con cui mi ero comportato da vero maleducato, non avendo avuto per lei alcun rispetto.
Quanto era successo tra me ed Erika non doveva interferire nei rapporti che avevo consolidato nel tempo con Margherita.
Erano fatti miei se avevo ora anche una seconda donna palpitante per me e la cosa l’avrei gestita a modo mio senza blocchi mentali ma con quella libertà che amavo più di ogni altra cosa.
Margherita era mia e nemmeno lei avrebbe potuto mettere in discussione questo fatto.
Ne ero talmente innamorato che mi ribolliva il sangue al solo pensiero che potesse lasciarmi per un altro uomo.
Non ero mai stato tanto geloso ma ora quel brutto modo di reagire stava facendo capolino dentro di me e non era cosa piacevole, tanto più in quel momento, avendo il problema dello studio impellente che mi perseguitava.
Sabato sera, sarei ritornato a casa di Erika ma non alla Fattoria ma nell’attico che possedeva nella zona più elegante di Treviso dove la sua Tata ci avrebbe preparato una eccellente cena e dove mi aveva invitato a passare la notte.


Alle sette ed un quarto quando salii sulla mia 1100 sembrava che la Primavera incipiente facesse capolino alla periferia di Treviso.
L’aria era fresca ma non fredda, profumata come solo in Primavera si può avvertire, mentre il cielo azzurro era terso senza nemmeno un filo di foschia,
I prati intorno erano punteggiati di bianche margherite e gli alberi di mimosa erano tutti già fioriti.
Mi fermai un momento vicino ad uno di questi alberi e rubai un grande mazzo di quei fiori gialli profumati.
Li misi sul sedile posteriore della mia vettura e mi diressi verso l’autostrada per Mestre da dove avrei proseguito verso Padova.
Durante il percorso mi guardai intorno, effettivamente la natura stava per risvegliarsi e lo diceva non soltanto la bellezza del cielo ma anche il verde dei prati..
Non lo facevo mai ma quel mattino pensai al Creatore che aveva inventato quello spettacolo incredibile e nel mio cuore Lo ringraziai per avermi regalato ancora una volta la bellezza della Primavera.
Mi sentivo una strana vena poetica scorrermi nel sangue al solo pensiero che tra poco avrei rivisto Margherita, i suoi bellissimi capelli biondi e quelli occhi azzurro chiaro dall’espressione sempre incantata.
Appena ebbi finito in segreteria corsi in biblioteca dove sapevo che l’avrei incontrata seduta al solito posto vicino alla grande finestra centrale.
Era lì, stupenda, con le mani sulle guance e con lo sguardo sulle pagine del grosso volume che stava leggendo.
Sfiorai il pavimento con le mie scarpe a mocassino e mi trovai dietro a lei in un attimo.
Misi lievemente le mani sui suoi occhi ed attesi che lei parlasse.
- Marco, - bisbigliò con quei toni languidi propri della sua voce, -
non mi spaventare, pensavo che non saresti venuto invece eccoti qua vicino a me. -
Sedendomi accanto a lei le presi le morbide mani con tenerezza.
- Mia dolce Margherita, sapessi come ti amo! -
Incurante di tutti gli altri studenti che riempivano i lunghi tavoli le presi il viso tra le mani e la baciai con tutta la passione ed il desiderio che sentivo farmi scoppiare il cuore.
Poi le chiesi.
- Che ne dici se ce ne andassimo via? In macchina c’è un bel mazzo di mimose che ti aspetta. -
Margherita mi guardò a lungo negli occhi, infine mi disse.
- Sei stato carino nel venire a trovarmi, ti ringrazio per le mimose, ma oggi non me la sento di accontentarti, anche se mi piacerebbe tanto stare un poco con te in privato. -
- Ti consiglio di studiare anche tu. Gli esami si avvicinano e spero che non vorrai cavartela con un paio di diciotto. -
Margherita era riuscita a bloccarmi con l’unica motivazione che avrei potuto accettare senza che mi prendesse un attacco di bile.
Ciò nonostante si alzò e mi accompagnò alla mia auto dove, con un sorriso disarmante, prese i fiori ringraziandomi con un semplice bacio ed augurandomi un buon Week-End.
Si allontanò facendomi “ciao” con le mani con quella sua andatura che faceva girare tutti gli uomini, dai ragazzi agli anziani.
Rimasi diversi minuti accanto alla 1100 come se fossi stato trasformato in una statua di sale e soltanto dopo parecchio me ne tornai a Treviso come un cane bastonato con la coda tra le gambe.






CAPITOLO SETTIMO





La Tata di Erika era una signora intorno ai sessant’anni, robusta e dalla faccia simpatica, veneta, sempre pronta al sorriso e gioviale. Fu lei che mi accolse a casa quella sera di sabato, verso le nove, quando bussai alla porta dell’attico di quel bel edificio al centro di Treviso.
- Signor Marco, - mi fece squadrandomi dalla testa ai piedi, -la signorina mi ha detto di pregarla di attenderla per una decina di minuti, sarà qui presto per la cena ma in questo momento si trova nel suo studio, al telefono, per affari. -
- Sono Giulia la sua cameriera ma anche la sua amica, -sorrise dicendo queste parole.
Mi fece accomodare su una grande poltrona in pelle color noce del grande soggiorno che faceva tutt’uno con la spaziosa camera da pranzo, dove c’era una elegante tavolo in noce massiccio già apparecchiato per due persone adornato da due eleganti candelabri d’argento, con due candele rosse pronte per essere accese.
Dopo un minuto Giulia continuò.
- Per me la signorina è come una figlia ed è dalla sua nascita che vivo con lei. Avrebbe dovuto vedere come era bella quando era piccola e quanto fosse birbante ed intelligente. Voglio un bene dell’anima a quella scimmietta e se sapesse come ora mi ascolta e molto spesso segua i miei consigli. Mi chiama spesso “nonnina” e questo mi ripaga di tutti i miei sacrifici tanto che per Erika ho rinunciato a sposarmi. -
Osservai che quando quella donna, un pochino toppo grassa per la sua età, parlava della sua protetta le si illuminavano gli occhi.
Poi raccontandomi di quella povera donna della madre di Erika, sfortunata per essersi sposata con un uomo burbero e prepotente, mi accorsi che alcune lacrime le riempivano gli occhi neri, molto espressivi.
- Signora Giulia, - ebbi appena il tempo di sillabare, -ammiro la sua dedizione per Erika ma non credo che non sappia badare a se stessa. -
- Ma che dice, signorino, -mi interruppe, -quella ragazza ha bisogno di essere protetta. Sembra forte e decisa in tutto ciò che fa ma in realtà è molto debole e tante volte commette errori madornali, sotto quella scorza di ragazza di potere, perché è assai sensibile e buona, troppo direi per una bambina cresciuta senza l’aiuto dei genitori ed in fretta.
Concluse,
-Spero di non averla annoiata con tutto quello che le ho detto, ma lei ha il viso di un bravo ragazzo e mi sono sentita in dovere di presentarmi. Ho capito che fra lei e la signorina c’è del tenero e questo mi sta bene soltanto se lei si comporterà da galantuomo. -
In quel momento spuntò all’improvviso Erika più elegante e sorridente che mai e mi si buttò addosso in un impeto di passione condito da tenerezza.
Prima ancora di rivolgersi a me disse a Giulia.
- Spero che non gli hai fatto una ramanzina, cattiva “nonnina”. Ora puoi farci mangiare, ho una fame da lupa! -
Dopo avermi riempito di carezze tutto il viso ci sedemmo a tavola, dopo che Erika ebbe acceso le due belle candele dei candelabri.
Alla fine dopo lo “strudel” fatto in casa da Giulia, Erika le disse che poteva ritirarsi ed andare a riposarsi nella sua stanza.
Non c’era bisogno di sparecchiare la tavola, cosa che avremmo fatto io e lei.
Ma prima di andare via, sorprendendomi vidi Giulia baciare Erika ed augurarle la buona notte mentre la bella giovane rispose con un altro bacio pieno di affetto a quello della sua Tata.


Dopo che Erika ebbe preparato una ottima tazza di caffè per tutti e due, salimmo al piano superiore dove ci sdraiammo sul grande letto di stile francese della giovane ad una piazza e mezza.
Senza spogliarsi ma sedendosi con uno scatto su di me mi disse.
- Marco, se tu sapessi come mi sento viva da lunedì per merito tuo capiresti perché ti amo da morire. Voglio essere tua anche questa notte, tesoro mio, e vorrei che tu mi desiderassi tanto al punto da impazzire per me. -
Guardai le belle forme di Erika mentre lei sempre seduta su di me aveva cominciato a togliersi tutti gli indumenti che aveva addosso.
Quando fu completamente nuda cominciò a spogliarmi lentamente tirando fuori tutta la sua assetata femminilità ed assediandomi con le sue forti gambe da cavallerizza, cominciò a strisciarsi sul mio corpo nemmeno fosse stata un serpente boa.
Non potevo più muovermi, mi aveva preso i polsi e mi baciava sul collo e sul torace come se fossi il suo nettare mentre io abbagliato da tanto slancio erotico cominciavo a sentirmi ubriaco e pronto per capovolgerla e per farla mia.
Solamente quando la vidi appagata e stremata le rivolsi la parola.
- Mia Erika cosa ci è successo? Ci stiamo comportando come due invasati e non ci rendiamo conto delle conseguenze dei nostri atti.
Se tu rimanessi incinta cosa accadrà a noi due e come potremo vivere per fare crescere bene un nostro figlio? Io non ho ne arte né parte cosa potrò fare? -
Lei mi sorrise con aria maliziosa e rispose.
- Marco non farti cattivo sangue. In quella eventualità tu continuerai a studiare e prenderai la laurea in Giurisprudenza e poi diventerai un avvocato di grido perché io ti aiuterò. -
Continuò ridendo.
- Non dovremo dare alcuna spiegazione a chicchessia e saremo una vera famiglia, non ti preoccupare ora di queste cose, l’importante è essere felici insieme! -
Dormimmo abbracciati fino al tardo mattino e poi Erika mi disse, -mi sa che sono rimasta incinta mi sento troppo bene in questa bella mattina di marzo! -


Nelle giornate successive all’ultimo incontro con Erika fui preso da un profondo sconforto.
Mi domandavo continuamente cosa avrei fatto se quella brunetta tutto pepe e passione fosse rimasta incinta.
Sarebbe stata una vera tragedia per me e forse non per lei, perché avevo potuto constatare con i miei occhi, che avrebbe preso seriamente in considerazione di portare avanti la gravidanza in qualsiasi modo.
Era più che chiaro il suo desiderio di essere felice e certamente, con il carattere che possedeva, non le faceva paura nemmeno se io mi fossi tirato indietro in quanto, in quel caso, mi avrebbe ignorato e cancellato del tutto dalla sua vita.
Erika era troppo orgogliosa e fisicamente forte per mettere in discussione un mio eventuale rifiuto di sposarla.
Se Erika mi mostrava continuamente, senza falsi pudori, le sue più profonde debolezze e se con me sentiva di essere protetta, ciò non significava affatto che sarebbe stata in balia delle mie decisioni qualora queste fossero state in contrasto con le sue idee.
Dopo quanto mi aveva detto la sua Tata avevo capito che i momenti di pura gioia per quella giovane erano stati rari e sempre ottenuti soltanto con la sua volontà.
Mi amava con tutta se stessa e questo era più che sufficiente per farle decidere, eventualmente, di portare avanti una gravidanza anche da sola.
L’importante era per Erika di avere un punto fisso nella sua vita. Lo aveva cercato invano da sempre e probabilmente soltanto i suoi puledri le avevano dato qualcosa per cui valeva la pena di esistere anche se alla fine capiva che quei sentimenti non potevano avere valore assoluto.
Era come possedere dei cani stupendi, per una bambina, che con certezza poteva affezionarsi a loro ma non amarli perdutamente.
Un figlio invece sarebbe stato un pezzo di se stessa ed a quello avrebbe donato tutto della sua vita, anche se ciò avesse significato sacrificio e derisione oltre ad una lotta continua per stargli accanto senza un uomo vicino, che non avrebbe accettato mai, se quello si fosse limitato ad amarla solo fisicamente.senza dimostrarle anche di possedere gli attributi morali degni di un padre.
Anche il fatto che aveva prospettato, sposandola, di mantenermi
economicamente non era stato offensivo nella sua semplicità di giovane donna che era conscia di essere una privilegiata, ricca e completamente indipendente anche rispetto ai suoi genitori.
Avrei potuto, in ogni caso, non rinunciare alla mia futura carriera solo se le avessi detto di sì mettendo una pietra tombale sul mio preconcetto di non sposarmi mai per nessuna ragione al mondo.






CAPITOLO OTTAVO





Per venti giorni sperai che Erika avesse regolarmente il suo ciclo mestruale ma inutilmente.
Il primo giorno di Primavera guardai fuori della finestra della mia camera da letto appena svegliato e mentre tutto sembrava inneggiare alla natura tutta linda e pulita come un bucato appena fatto, squillò il telefono.
Sentii dall’altro capo del filo telefonico la voce squillante e tutta allegra di Erika.
- Amore mio, - disse piena di soavità solo leggermente mascherata da un lieve tremore della voce, - devo vederti subito perché voglio farti una bella sorpresa. Vieni alla Fattoria alle dieci e mezzo, non voglio dirti altro al telefono. Non fare tardi, molla lo studio per questa mattina e dedicala a me. -
Le risposi se poteva anticiparmi qualcosa ma lei disse che non poteva aggiungere altro a quanto mi aveva accennato e con un “ciao”chiuse il telefono.
Osservai l’orologio da polso, segnava le otto e cinque minuti.
Avevo visto Margherita tre giorni prima all’Università e mi ero parso che fosse ritornata ad essere la Margherita di sempre.
Stupenda, con gli occhi riposati e che parlavano da soli d’amore e di passione per me.
Eravamo andati a fare una passeggiata al centro e ci eravamo fermati a guardare alcuni negozi di oreficeria.
Margherita aveva visto un bel anellino d’oro con un piccolo zaffiro e lo aveva provato all’anulare della mano sinistra senza aprire bocca.
Costava relativamente poco ed io avevo capito cosa stava pensando.
Chiesi all’orafo se poteva accettare un mio assegno ed egli rispose che non era un problema.
Presi la mano sinistra della mia delicata bionda e le infilai al dito con delicatezza l’anello.
- Non posso permettermi di più ma tu meriteresti un bel brillante come anello di fidanzamento. Per ora questo è il pegno del mio infinto amore per te e tu lo devi portare giorno e notte per tenermi vicino in ogni attimo della tua giornata. -
Margherita mi baciò davanti al gioielliere con tutta la passione del suo giovane cuore e mi promise che quello sarebbe stato per sempre al suo dito perché ero il suo unico e profondissimo amore e lei sarebbe rimasta eternamente la mia micia.
Mi sentivo come Giuda, ero in ansia per quanto sarebbe successo ad Erika, ma se avessi potuto cancellare una delle due con molte probabilità avrei scelto la giovane di Treviso ed ignoravo ancora il perché di una simile strana preferenza.
In effetti non mi potevo distaccare da Margherita, da quella gemma bionda che mi faceva perdere la testa ogni volta che la fissavo negli occhi azzurro chiari.
Anzi ero felice per averle donato un anello di fidanzamento perché incredibilmente l’amavo anche se in un modo molto diverso rispetto ad Erika.
Veramente avevo una voglia matta di scappare da tutto il casino che avevo combinato a dritta ed a manca, a nord ed a sud.
Me ne sarei andato in una isola lontanissimo dall’Italia forse a Haiti oppure in Giamaica oppure ancora in qualche isolotto sperduto delle Barbados o chissà dove.
Avrei potuto iniziare nuovamente, a ventidue anni, una seconda vita senza problemi e senza responsabilità alcuna e se avessi incontrato una qualsiasi ragazza mi sarei soltanto divertito con lei.
Avevo bisogno di donne in qualsiasi parte del mondo mi fossi cacciato e questo, lo riconoscevo, era il mio tallone d’Achille sicuramente legato alla mia struttura genetica.


Riguardai il mio Omega d’oro, regalo di mio padre, segnava le nove e qualche minuto.
Avevo passato un mucchio di tempo a fantasticare ed a ricordare l’ultimo incontro con Margherita ma ancora era troppo presto per recarmi da Erika.
Così, mi venne in mente che non sentivo Laura da più di due settimane da quando le avevo fatto gli auguri per i suoi diciotto anni e velocemente formulai il suo numero telefonico nella speranza di sentire la sua voce.
Rispose proprio lei e le dissi, come se ci fossimo visti o sentiti il giorno prima.
- Lauretta, come hai passato la notte e dimmi mi hai pensato un poco? -
- Bene Marco, a che devo questo onore, forse hai qualcosa da farti perdonare oppure ti senti in colpa perché sono sempre io che ti chiamo? -
- Niente di importante, - risposi con voce ferma e quanto più gentilmente potessi esprimermi.
- Questa notte ti ho sognato, anzi ho visto i tuoi splendidi occhi verde smeraldo ed ho sentito il bisogno di sentire la tua voce. -
Avevo mentito spudoratamente e quasi ero fiero delle mie menzogne.
Perché avrei dovuto fare soffrire quella brava ragazza: quello sì sarebbe stato una enorme carognata. Lei era la più ingenua creatura che avessi mai incontrato e mi sentivo in dovere di non farle del male almeno per il momento.
Le raccontai qualcosa dei miei studi e lei si raccomandò di non sciuparmi troppo sui libri.
Le risposi che certamente avrei tenuto conto delle sue raccomandazioni e dopo dieci minuti di banale conversazione le dissi, -arrivederci a presto, tesoro mio. -
Ormai era giunto il momento di raggiungere Erika alla Fattoria e con il cuore in subbuglio, uscii di casa che erano le dieci.


Quello scoiattolo di Erika era lì ansiosa ad aspettarmi in un vestito tutto a fiorellini puntualissima e raggiante.
Mi trascinò letteralmente dentro casa e solo allora parlò non senza avermi prima baciato ripetutamente con dolce passione.
- Spero che non ti venga un infarto, amore mio, ma credo di aspettare un bambino tutto nostro. Ho un ritardo di otto giorni ed io sono puntuale come un cronometro. Ho comprato in farmacia il test di gravidanza urinario ed ora faremo insieme la scoperta. Ti ho chiamato proprio per questo motivo, sei contento? -
Non immagino che espressione ebbi in quel momento ma certamente penso che sarà stata una espressione da ebete.
Strinsi alla vita sottile Erika e senza aprire bocca ci accingemmo all’operazione chimica del test.
Ci vollero pochi minuti per la sentenza ed il colore del reattivo non mostrò alcun segno di gravidanza.
Tutta l’ansia e l’angoscia che mi premeva come un macigno il cuore allentò la sua morsa e non potei fare a meno di gridare.
- Evviva siamo ancora senza prole! -
Erika non aveva capito il senso del mio “evviva” ma proclamò subito senza quasi pensare.
- Non ti preoccupare, Amore mio, sarà per una altra volta e non fallirò assolutamente. -






CAPITOLO NONO





Con quello stupendo inizio di Primavera avevo recuperato tutto il mio buon umore e l’ottimismo che in un certo senso mi aveva sempre contraddistinto.
Tutto era andato per il verso giusto e così mi apprestai a mettermi sotto veramente e seriamente a studiare.
Alla fine di maggio ero preparatissimo per i miei due esami ed avevo pensato che, se avessi superato brillantemente quelli, avrei potuto studiare anche il terzo che avevo programmato, per poi riuscire a laureami durante l’anno accademico successivo in Giurisprudenza.
Al primo appello di giugno riuscii a prendere due trenta e così, subito, dopo cominciai a studiare con rinnovato spirito combattivo pure il terzo esame.
Sia Erika che Margherita mi fecero un mucchio di complimenti e mentre la prima mi regalò un puledrino cui aveva messo il nome inglese di “Of Course” e quel “Naturalmente” voleva riferirsi alla stima che lei riservava alle mie capacità di studente, Margherita mi omaggiò con un raffinato ed elegante tappetino per la mia macchina.
Anche se le mie giovani donne settentrionali avevano entrambe capito che dovevo essere lasciato in pace a studiare, tuttavia ero costretto a non trascurarle e così avevo escogitato un mio piano personale per tenermele buone tutte e due.
Margherita non doveva più muoversi da Mestre e con il pretesto che anche lei non doveva trascurare gli studi, come le avevo ripetutamente detto, ero io che il sabato pomeriggio mi recavo nei pressi di Mestre in un Motel, dove eravamo diventati di casa, per stare in santa pace tre ore insieme a fare all’amore.
Essendo Erika a Treviso, avevo pensato di associare l’utile con il dilettevole e mi recavo ogni domenica da lei verso l’ora di pranzo.
Mangiavamo insieme mentre nel primo pomeriggio facevamo delle belle cavalcate, io montando il mio puledro baio e lei la sua bella grigia Nike.
Avevo così imparato, sotto la sua guida, a galoppare ed Erika era stata la mia maestra con enorme soddisfazione da parte sua.
Poi quando arrivava il tramonto cenavamo molto presto e quindi ce ne andavamo a letto dove ero diventato assai guardingo per non rischiare un altro spavento come quello di marzo.
Di domenica Margherita non mi cercava mai al telefono perché aveva deciso di passare le giornate festive, da brava figliola, con i genitori in un appartamentino che il padre aveva preso in affitto, per tutto l’anno, al mare di Bilione.
Così, nella massima tranquillità, il mio menage a tre procedeva nell’attesa di una mia qualsiasi futura decisione a riguardo.
Non mi rendevo conto, in quel periodo, che la vera mina vagante sarebbe stata Laura che tenevo a stento a bada con qualche telefonata.
Per quanto Laura si sforzasse di essere carina quando ci parlavamo al telefono mi ero accorto che la ragazza di Brindisi stava diventando ogni giorno più nervosa che mai.
Era tesa quasi tagliente quando cercavo di blandirla con belle parole. Aveva cominciato a parlarmi di sicuri tradimenti da parte mia mentre lei faceva una vita da monaca di clausura e mi aveva anche detto che si era seccata della situazione e che prima o poi avrebbe fatto un colpo di testa e che lei aveva sangue meridionale nelle vene.
L’astinenza e la gelosia di Laura mi stavano combinando un bel guaio e stavo seriamente pensando che forse ancora una volta, ad agosto, sarei stato costretto di recarmi a Brindisi almeno per una decina di giorni o poco meno.


Una lunga stretta di mano, datami dal professore il venti luglio, mi aveva fatto capire che quell’uomo, dai capelli quasi totalmente bianchi, mi aveva premiato con un significativo trenta e lode al mio terzo esame della sessione estiva.
Era stato molto difficile contenere la mia gioia poiché mi sentivo come se avessi assunto un overdose di cocaina, tanto che pensai bene di non prendere subito la mia macchina, a tal punto mi sentivo elettrizzato.
Cercai di mettermi in contatto con Margherita che da Bibione mi aveva telefonato quella mattina e che mi aveva lasciato un recapito telefonico di una sua amica per comunicarle l’esito dell’esame.
Provai e riprovai a parlare con quella amica ma immancabilmente rispondeva la segreteria telefonica tanto che infine decisi di affidare a questa il messaggio riguardante il mio esame.
A Bibione non potevo assolutamente andare perché lì avrei incontrato i suoi genitori e così dopo un ora di tentennamenti, ormai calmatomi, tornai scornato a Treviso dove sicuramente avrei potuto passare il resto della giornata con Erika.
Erika ignorava quando avrei sostenuto quell’esame tanto importante per me.
Le avevo semplicemente detto, per scaramanzia, che l’avrei fatto alla fine di luglio tanto per prendermi del tempo libero nei suoi confronti, nel caso avessi anticipato la data, perché lei aveva giurato che non mi avrebbe fatto perdere tempo prezioso mentre mi trovavo sotto pressione.
Infatti non c’eravamo sentiti nemmeno telefonicamente, già da una settimana.
Fu a Treviso che seppi dalla Tata che Erika era andata a Londra il giorno prima per comprare dei puledri, che poi avrebbe venduto a Milano ad alcuni allevatori.
Sarebbe rimasta fuori Treviso per tutto il mese di luglio e si era raccomandata con la sua Tata di dirmelo quando mi avesse sentito.
Giulia mi aveva anche chiesto come era andato l’esame e si complimentò quando seppe dell’esito positivo di questo, inoltre mi disse che Erika aveva già prenotato un Albergo a Cortina per noi due, dal cinque di agosto fino a dopo Ferragosto.
Stranamente, proprio in quel giorno di grande felicità, ero rimasto completamente solo senza Margherita e senza la mia appassionata cavallerizza.
Mi sentivo veramente adirato con tutte e due, direi profondamente incazzato, se non fosse una volgarità ed a quel punto presi la decisione di telefonare a mia nonna a Brindisi, comunicandole che sarei arrivato in aereo verso le dieci di sera di quello stesso giorno.
Preparai una valigia ed un borsone e in un baleno mi trovai a Venezia imbarcato su un turboelica di linea.


Il volo era stato distensivo per il mio sistema nervoso cosicché quando raggiunsi in taxi via Cristoforo Colombo e vidi mia nonna che mi attendeva al balcone, feci le scale di corsa a due a due e mi gettai tra le sue accoglienti braccia baciandola ed accarezzandola mentre a lei erano spuntati delle grosse lacrime prima negli occhi grigi e poi sulle bianche gote.
- Come mai Marco, -chiese accarezzandomi lievemente i capelli, come soleva fare quando era emozionata ogni qualvolta mi vedeva arrivare, - sei venuto dalla tua nonna, così improvvisamente, facendomi la più gradita delle sorprese? -
Le presi le mani affettuosamente e risposi con un sorriso.
- Vedi, nonna, mi sono stancato moltissimo per dare tre esami e per completare l’anno accademico. Se il buon Dio lo vorrà, il prossimo anno riuscirò a laurearmi nei tempi previsti e così avrai un nipote dottore in Legge. Che ne pensi ti fa piacere? -
Mia nonna era una donna dolce e semplice e mi disse.
- Povero Marco chissà che fame avrai a quest’ora. Adesso ti cucino qualcosa di buono. -
- Mi hai chiesto se mi fa piacere sapere che farai presto l’avvocato ed io ti dico che sono contenta per te ma, egoisticamente, non tanto per me nell’immaginare che dopo non ti farai più vedere dalla tua nonnina! -
Ci volle del bello e del buono per farle capire senza, offenderla, che avevo già cenato in aereo e che non era il caso che si mettesse a quell’ora in cucina.
Dovetti dirle che sarei sempre venuto a trovarla e forse anche molto più spesso di quanto avevo fatto negli ultimi anni e solo dopo avere sentito queste parole si tranquillizzò completamente.
La informai che potevo stare soltanto pochi giorni a causa di importanti impegni già programmati e che ero venuto a Brindisi così repentinamente perché avevo assoluto bisogno di riposarmi non tanto fisicamente quanto psicologicamente.
Mia nonna aveva già preparato per me il letto, profumato dalle lenzuola da bucato, tanto che le dissi che dovevo fare una doccia prima di coricarmi per non sporcare le lenzuola.
Dandomi la buona notte mi accarezzò come se fossi ancora un bambino e così dormii profondamente fino alle dieci del mattino seguente.


Mi presentai a casa di Laura che era da poco passato mezzogiorno senza avvisarla della mia presenza a Brindisi.
Bussai delicatamente alla porta.
Mi venne ad aprire la mamma di lei vestita soltanto di una bianca vestaglia con in testa una specie di turbante rosso cardinale.
Era evidente che si era appena lavata i capelli e così conciata, alla mia vista, divenne rossa pure in faccia per la sorpresa che avevo fatto.
- Marco che ci fai qui a Brindisi, -esclamò dopo un attimo lungo come un minuto, -dobbiamo avvisare Laura, povera figlia mia, prima che le venga un accidente, adesso le telefono sul lavoro al negozio di mio marito. -
- No, signora, la prego non telefoni. Andrò io al negozio ora, preferisco farle personalmente una grande sorpresa, va bene? -
La mamma di Laura annuì ma aggiunse.
- Verrai a pranzare da noi, vero Marco? -
- Oggi non è possibile, mi dispiace tanto. Devo pranzare da mia nonna. Sarà per un’altra volta, grazie molto. -
Volevo vedere Laura in privato perché avevo molte cose da dirle e tra l’altro confessarle che mi ero fidanzato con un’altra ragazza su a nord.
Avrei voluto non farlo, né procurarle un enorme dolore.
Non potevo immaginare come avrebbe reagito e cosa sarebbe successo di conseguenza.
Speravo che sarebbe stata comprensiva, troppa era la distanza che ci separava, non era possibile che lei vivesse a Brindisi ed io a Treviso.
D’altro canto era sempre stata una ragazza molto intelligente ma avrei dovuto combattere con la sua passionalità che non era da meno:
Forse avrei dovuto evitare di toccare il tasto di un presunto fidanzamento per non offenderla, trovando altri pretesti per non illuderla più.
Non avevo ancora deciso cosa le avrei detto, quando nei pressi del negozio del padre di Laura vidi un fioraio aperto e pensai di portarle un gran mazzo di rose profumate.
Quando vidi Laura indaffarata nel negozio non credei ai miei occhi, tanto era cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista.
Era passato un anno ma io la guardai come se vedessi un’altra persona.
Raffinata ed elegante, il suo modo di porgersi alle clienti della Boutiche era quello di una ragazza di alta classe ed anche il suo corpo non assomigliava più a quello di una volta.
Si vedeva perfettamente che aveva frequentato palestre e piscine e che sia il seno che il suo culetto dovevano essere uno spettacolo della natura.
La vita sottile metteva in evidenza i fianchi perfettamente disegnati e la muscolatura delle gambe aveva un altro trofismo e tono.
Solo il bellissimo viso era rimasto identico, ad eccezione degli occhiali che non portava più come mi aveva detto al telefono, ed aveva mantenuto tutto lo splendore per cui me ne ero innamorato.
Quando Laura mi vide dentro il negozio si appoggiò al bancone come per un capogiro che l’avesse improvvisamente colpita ed in quel preciso momento capii che il mio piano, per sganciarla dalla mia esistenza, non lo avrei mai potuto attuare e che anzi sarebbe stato impossibile per me scaricarla almeno che lei stessa non avesse preso da sola questa decisione.





CAPITOLO DECIMO





Appena Laura si fu ripresa, mollò in asso la cliente che aveva davanti e mi trovai tra le sue braccia.
Con quegli occhi che non potevo dimenticare di un verde che in quel momento parevano riflettere il colore stupendo di un mare incontaminato, dall’espressione languida e spaventata, mi fissava come per chiedermi aiuto per la paura che aveva avvertito nel vedermi di nuovo come se io fossi un fantasma oppure un resuscitato.
Passai teneramente le mani sulla fronte della giovane senza parlare e mi accorsi che era imperlata di sudore.
Sentivo il mio cuore pulsare violentemente e nello stesso tempo le mie gambe erano diventate molli e tremolanti, come se non avessi previsto la reazione che aveva avuto quella meridionale di cuore e di fatto.
Le diedi il mazzo di rose profumate e lei immerse la bella testa tra i fiori come se fossi io stesso tra quelli.
Tra i risolini delle clienti e del papà di Laura chiesi il permesso allo stesso Antonio di potermi allontanare con la figlia.
Con un piccolo gesto delle mani egli mi disse che potevamo andarcene tranquillamente e subito dopo mi diede una benevola pacca sulle spalle.
Era stata una scena da film muto ed io avevo capito quanto quell’uomo di poche parole tenesse alla felicità della figlia.
Mano nella mano io e Laura uscimmo dal negozio e solo in quel momento vidi Laura sorridermi dolcemente.


Saranno state le due di pomeriggio quando mi accorsi di non avere avvisato mia nonna che non sarei andato a pranzo da lei.
Altrettanto aveva fatto Laura con i suoi genitori.
Eravamo in una macchina, presa in affitto, dalle parti della campagna di Mesagne e cominciai a guardarmi intorno con una certa apprensione per il silenzio che distrattamente avevamo mantenuto con le nostre famiglie.
Vidi un telefono pubblico presso un distributore di benzina e fermai l’autovettura mentre noi due ridevamo di gusto per la doppia dimenticanza.
Avvisammo prima mia nonna, che non nascose il suo disappunto, poi la mamma di Laura, che commentò con una allegra risata e subito dopo Laura mi disse di girare a destra dove sapeva esservi degli immensi filari d’ uva.
Ci fermammo in un luogo solitario in mezzo ai vigneti pieni di grappoli ancora non maturi e scendemmo dall’auto ed in un momento fummo avvinghiati alla pari di due sanguisughe sulla pelle di un uomo.
Tutta la passione repressa per un intero anno esplose in Laura con una tale intensità che mi sentii sopraffatto da lei come un leone da una leonessa in calore.
Non ebbi la possibilità di pensare a niente altro che non fosse la fame d’amore che Laura, senza vergogna alcuna, mi dimostrava, non essendo nemmeno impaurita dal rischio che avrebbe potuto rappresentare l’avere, a quel modo, una serie di rapporti liberi.
Ogni parola che mi disse in quelle ore mi aveva riportato indietro nel tempo quando me ne ero innamorato sugli scogli, nei pressi del faro e poi quando avevamo fatto all’amore a casa della cugina della madre per la prima volta, alla Commenda, ognuno di noi donando all’altro la propria verginità.
Oltre che bellissima Laura mi pareva, a soli diciotto anni, ancora più matura sia sessualmente che nel modo di porsi nelle frasi calde e piene d’affetto, che le uscivano di bocca con una espressione assai dolce, nelle quali versava tutto il suo cuore palpitante e tutta la sua anima pura.
Avevo senza dubbio sottovalutato quella ragazza e chissà quanto aveva sofferto, in quell’anno, per il mio modo trascurato di agire.
Se non mi aveva dimenticato in quel tempo e se non mi aveva tradito in un anno intero, passato senza la mia presenza non solo fisica ma anche sentimentale ad eccezione di quelle poche telefonate che ogni tanto mi ero ricordato di farle, ciò significava che il suo amore per me era trascendentale, grande e luminoso come i suoi occhi da cerbiatto, bisognoso di calore.
- Adesso sì, - mi sussurrò con la voce tremante. -sono convinta che mi ami ancora, tesoro mio e che non ti scorderai più di me nemmeno se dovessi morire. -
- Se tu mi lasciassi, se mi abbandonassi al mio destino e se non dovessi rivederti mai più, devi sapere che morirei di crepacuore. -
Poi in un attimo aggiunse tra le lacrime, -Marco non farmi morire, te ne prego. La vita è troppo bella con te e tu sei la mia anima gemella ed il mio Angelo custode. -
Non potevo credere alle mia orecchie.
Dunque non si trattava soltanto di astinenza sessuale ma di un bene più profondo e più sconvolgente quello che Laura mi aveva raccontato con le parole semplici di una diciottenne!
Ancora una volta una grande tempesta di sentimenti opposti mi stava travolgendo mentre ero venuto a Brindisi, in un attimo di debolezza, solo per farle un ultimo regalo prima di allontanarmi da lei in modo definitivo.
L’amavo tanto anch’io ma cosa avrei potuto fare seriamente per lei adesso che si era confessata con me così brutalmente e con quella sincerità totale?
Capivo che quel vizio rovinoso di giocare con il cuore delle donne era il più grave peccato che mi aveva sempre posseduto.
Comprendevo che un vero uomo non avrebbe mai fatto quei danni che distribuivo ovunque ed anche a Margherita ed ad Erika.
Dunque io non ero una persona per bene ma invece un vero mostro senza cuore, peggio di un criminale di guerra.
Mi abbandonai sconfortato da questi tremendi pensieri accanto a Laura, per terra, tra i filari di uva e cominciai a piangere senza che più alcun freno inibisse la mia coscienza.


Laura si era seduta accanto a me, sdraiato e supino, mentre io non riuscivo a frenare il mio pianto.
- Che fai Marco, perché piangi?.-
Mi chiese accorata e stupita accarezzandomi il volto.
A quelle parole riuscii a riprendermi dalla tempesta che aveva attraversato come un lampo la mia mente.
- E’ l’emozione di essere accanto a te che mi ha giocato un brutto scherzo, la gioia di sentirti mia completamente che ha annientato il mio cuore ed è la coscienza che non devo in nessun modo farti del male che mi fa soffrire. -
Laura corrugò l’ampia fronte e poi mi chiese.
- Cosa significa tutto ciò, che non sei sicuro del tuo amore e delle promesse che mi hai fatto l’anno scorso di fidanzarti con me? -
- Non devi preoccuparti per il mio amore, questo e più grande e forte dell’intero Universo. Ti amo con ogni fibra del mio corpo e ti adoro come una divina creatura ma dimmi tu, come posso mantenere ogni promessa se ci troviamo materialmente tanto lontani io a Treviso e tu a Brindisi? Sai quanto tempo dovrai aspettarmi per vedere il nostro sogno avverarsi o pensi che tra un paio di anni potremmo già essere marito e moglie? -
Laura, che non solo mi amava ma anche riversava su di me l’immaginario di un futuro insieme, si accasciò sul mio corpo avendo chiaramente capito quanto le avevo voluto dire.
Dopo un lungo silenzio disse.
- Non mi importa nulla, attualmente, di fidanzarmi con te e poi di sposarti. So soltanto che non posso vivere senza i tuoi baci, le tue carezze e senza la passione che mi invade al solo starti accanto. Quindi troveremo unn’altra possibilità per stare insieme. -
Sospirò profondamente e continuò.
- Io vengo via con te a Treviso. Lavorerò da qualche parte ma almeno vivremo insieme e ci ameremo per tutta la vita. -


Antonio Lo Iacono e Maria si erano sposati quando lui aveva già trentacinque anni e lei trenta e quindi in quel momento tutti e due avevano superato i cinquanta perché Laura era nata quattro anni dopo il matrimonio.
Oltre al negozio di vestiti alla moda femminili egli era un medio proprietario terriero possedendo proprio intorno a Mesagne un appezzamento di oltre cinque ettari coltivato quasi interamente a cocomeri ed a meloni, con qualche bel vigneto.
Diceva spesso che se quello fosse stato un terreno edificabile egli sarebbe stato miliardario.
Aveva dato ad un mezzadro il terreno, ma il suo personale guadagno annuo non superava i cento milioni di lire, giusto quel tanto per vivere a Brindisi in un condominio residenziale e cambiare la macchina, sua vera passione, più spesso che altri.
Di primo acchito sembrava un uomo piuttosto burbero ma in realtà era una pasta d’uomo, al contrario di Maria che sulle prime pareva un angelo e poi mostrava di essere una donna grintosa e davvero difficile da digerire.
Quando quella sera, verso le dieci, io e Laura tornammo a Brindisi, Antonio ci stava aspettando in strada accanto alla sua Alfa Romeo, la più bella della produzione sportiva della casa automobilistica, che era l’invidia di tutto il vicinato.
Noi due eravamo a piedi.
Mezzora prima avevo riconsegnato la vettura presa in affitto per quella giornata al garage e poi avevamo fatto una passeggiata senza nasconderci lungo il Corso, mano nella mano.
- Ma bravi i miei piccioncini, -disse non appena ci vide, - potevate fare almeno una telefonata. -
Poi rivolgendosi direttamente a me e trascurando la figlia esclamò.
- Vedo che hai una faccia stralunata, Marco, se permetti un consiglio ti dico di non salire su a casa questa sera perché mia moglie ha un diavolo per capello. -
Mi diede, come al suo negozio, una seconda formidabile pacca sulla spalla e sorrise sia a me che a Laura.
Non feci altro che dargli la mano e dopo avere salutato Laura con due piccoli baci sulle gote e dicendo un caldo “buonanotte”, sparii come un razzo per andare da mia nonna quasi di corsa.






CAPITOLO UNDICESIMO





Il giorno dopo ed i seguenti ebbi modo di rimanere dalla mattina alla sera assieme a Laura.
Avevo escogitato un sistema infallibile per rimanere solo con lei.
Nello stabilimento balneare di S. Apollinare avevo preso in affitto una grande cabina per otto persone con dentro quattro lettini comodi, per dieci giorni.
Nessuno dei conoscenti di Laura aveva mai frequentato quello stabilimento e quindi io e lei potevamo essere liberi di andare in quel posto senza timore di fare spiacevoli incontri.
La sabbia ed il mare erano pulitissimi, la cabina ampia e dotata di ogni confort e così potevamo passare, a due passi dalla città, tutte le giornate in assoluta intimità, tranquillamente.
Ai genitori di Laura avevamo detto che saremmo andati in quei giorni di vacanza al mare, senza specificare dove ed Antonio da padre intelligente aveva dato il suo benestare al contrario della moglie che aveva fatto mille obiezioni.
In quel modo ebbi occasione di approfondire il discorso che lei aveva fatto tra i filari di uva a Mesagne ed allo stesso tempo fare all’amore con lei almeno due volte al giorno.
All’inizio Laura era assolutamente determinata di venire con me a Treviso subito e scappare da casa, come una volta si usava fare in Meridione, senza nemmeno avvisare i genitori.
La passione di quella ragazza si era addirittura ingigantita da quando ero arrivato a Brindisi, una volta scoperto che anch’io continuavo ad amarla con tutto me stesso.
Non le avevo mentito, ma lei non sapeva nemmeno lontanamente come io fossi facile a prendere fuoco quando stavo con una bella ragazza che mi volesse bene ed amasse, e come altrimenti il mio amore fosse contingente e fatuo in situazioni dissimili e quali sorprese avrebbe potuto avere se avesse attuato il suo pazzesco piano.
Pensai che dovevo almeno prendere del tempo e per ottenere il mio scopo, con una pazienza certosina, le feci mille ragionamenti tra cui quello che lentamente fece breccia nella sua mente.
- Mia bella e passionale Laura, -cercai di convincerla con tutta la persuasione della mia facile loquela, -per me e per te sarebbe meglio temporeggiare ancora per un certo periodo. Per me, che devo affrontare la prova più difficile della mia vita proprio l’anno prossimo con l’ultimo sforzo che dovrò compiere per laurearmi al più presto e per te, mia pazientissima Laura, perché non è giusto che tu te ne vada da tuo padre e da tua mamma in quella maniera che ti sei messa in testa; loro non sono responsabili per nulla dei nostri problemi. -
Osservai gli occhi a mandorla, verdi e le sue lunghe ciglia che facevano del suo viso un viso di bambola mentre mano nella mano passeggiavamo sul bagno asciuga.
Rimase per un poco in silenzio quindi, calma e rilassata, si confessò.
- Devo ammettere che tu hai buon senso e che sarebbe meglio se io mi comportassi come hai detto. Ma io ho paura di perderti, amore e se così fosse ti giuro che non potrò sopravvivere a questo dolore e forse, prima di farla finita con me, ti ucciderò.
Laura aveva negli occhi tutta la determinazione di una diciottenne pazzamente innamorata ma io avevo udito soltanto ciò che aveva ammesso a malincuore e cioè che il mio ragionamento era giusto.
- Non succederà questa tragedia, te lo prometto e ti sarò molto più vicino di quanto è stato finora. Ogni due mesi farò un salto a Brindisi con l’aereo ed il tempo passerà più velocemente mentre avrai tempo di crescere ancora per un po’ con i tuoi genitori e sistemare tutte le tue cose, anche economiche. Non credo che i tuoi non abbiano pensato a te in quel senso. -
- E’ bene che i vostri ottimi rapporti non si rovinino a causa mia! -


Ero riuscito ad ottenere da Laura quanto le avevo chiesto e l’unica cosa che mi preoccupava era la sua volontà di venire a Treviso tra un anno, dopo la mia laurea, con la ferma intenzione di combinare altrimenti un massacro se mi fossi nuovamente opposto.
Mi sentivo come un condannato a morte che all’ultimo momento abbia ricevuto un rinvio dell’ esecuzione, che per me era il matrimonio.
Appena fossi tornato a Treviso sarei andato con Erika in montagna a Cortina e già mi sentivo preoccupato per quest’altra situazione.
Le avrei detto una bugia e che ero andato a Brindisi perché mia nonna non si era sentita bene in salute e che mi aveva pregato di andarla a trovare subito.
Pensai che quel tasto non l’avrebbe per nulla insospettita dal momento che già altre volte le avevo parlato di quanto fossi legato alla madre di mia mamma che adoravo.
E così avvenne.
Erika era tornata dal suo viaggio d’affari a Londra ed a Milano il giorno prima che la raggiungessi alla Fattoria.
Era particolarmente contenta di aver fatto degli ottimi affari ed appena mi ebbe visto al suo fianco disse.
- .Lo sai quanto mi ha fruttato questo viaggio? Duecento cinquanta milioni al netto delle spese. Sono brava, dimmelo tu amore mio, anzi sono eccezionale nella compra vendita di puledri e poi hai visto come ho fatto presto? -
- Certo risposi : dodici giorni, tanto che non sai nemmeno come mi è andato quell’ultimo esame della sessione, non ti ha detto niente la Tata? -
- Scusami Marco, la Tata mi ha detto che sei stato un fenomeno e che sei riuscito ad arrivare alla lode, quindi è tutta colpa mia se ora me ne sono dimenticata, ma non del tutto. Vieni con me dietro le scuderie e vedrai cosa ti ho preso per essere riuscito a dare tre esami in due mesi. -
Mi prese sotto braccio e facemmo a piedi quel mezzo chilometro che ci separava dalle scuderie.
Sul momento pensai che Erika mi avesse voluto regalare un altro puledro ma per fortuna non era così.
In un box dietro la scuderie trovai una fiammante Lancia sportiva che immaginai le fosse costata un patrimonio.
Erika sorrise.
- Non potevo più vederti con quel mezzo rottame di Fiat e così ho pensato che questa Lancia ti avrebbe fatto comodo è vero tesoro? -
Rimasi di sasso poiché una simile elargizione non l’avrei mai potuta immaginare, così elegante e così costosa.
- Erika, non dovevi mettermi in un simile imbarazzo. Ti ringrazio tanto per questo formidabile regalo ma non posso accettarlo. Vuol dire che la puoi tenere tu fino alla mia laurea e poi forse, se sarò stato bravo, l’accetterò come regalo ben augurante. -
Erika mi baciò e rispose.
- Sapevo, Marco, che non sarebbe stato facile fartela accettare. Ne riparleremo tra un anno quando sarai il mio avvocato, dopo il concorso che vincerai senza alcun dubbio. -
Erika era fatta così, decisionista e rapida nel trovare gli stimoli giusti per la mia futura carriera e nello stesso tempo morbida e legata a me con un doppio nodo scorsoio.
Si era raccomandata, accomiatandomi, di essere puntale per l’indomani mattina alle nove quando saremmo partiti per Cortina.
Mi aveva anche detto che si trovava all’ ultimo giorno del ciclo mestruale e che per quella sera non potevamo dormire insieme.


Approfittai della serata libera per recarmi da Margherita a Bilione.
Mi aveva informato al telefono, quattro ore prima, che lei sarebbe andata quella sera a dormire dalla sua amica Stefania, nella casa libera dai genitori di questa che erano dovuti tornare di corsa ed improvvisamente a Venezia, dove la polizia aveva scoperto un furto nel loro appartamento alla Giudecca
Mi aveva anche detto che Stefania sapeva cosa io rappresentassi per lei e che mai avrebbe aperto bocca con altra gente, sui nostri rapporti e che l’occasione era una vera fortuna per noi due che così avremmo potuto passare gran parte della notte insieme ed abbracciati.
Non le avevo promesso nulla anche se mi ero fatto dare l’indirizzo di Stefania e se le avevo detto che, se avessi potuto, sarei andato da lei magari sul tardi.
Era tantissimo che non vedevo Margherita e mentre lei, si era informata sull’ultimo esame da me fatto il giorno stesso che ero poi partito per Brindisi, io ero rimasto al nostro ultimo incontro ed il desiderio di stringerla tra le mie braccia era gigantesco.
Anche a lei, come ad Erika avevo raccontato al telefono la frottola della mia partenza improvvisa a causa di mia nonna.
Alle dieci e trequarti ero già a Bibione a casa di Stefania.
La notte era splendida ed il cielo con una stupenda luna piena pareva invitarmi al romanticismo più seducente.
Non riesco a tradurre in parole quello che fece per me la meravigliosa bionda che stava in ansia per vedermi e per accarezzarmi, mentre Stefania discretamente si era chiusa nella sua camera ad ascoltare la musica dei Beatles e di Elton John.
Fino alle tre di notte impazzimmo entrambi per la passione che avevamo accumulata dentro e quando me ne andai per raggiungere Treviso non so come feci per guidare la mia auto talmente mi sentivo senza più una goccia di energia.
Pensai che per tutto agosto o quasi non l’avrei più rivista e di questo l’avevo avvisata dicendole un’altra balla colossale.
Mi ero inventato una visita improvvisa dei miei genitori che volevano andare, per rigenerarsi del caldo atroce del Venezuela, in Svizzera a St. Moritz., portandomi con se.






CAPITOLO DODICESIMO





Tra viaggi in aereo a Brindisi per tranquillizzare Laura, tra le notti appassionate passate con Erika quasi sempre a casa sua nell’attico superattico al centro di Treviso ed il Motel abituale, che era divenuto di casa per me e Margherita, tra lo studio che avevo preso con la serietà che meritava e gli esami che riuscivo a superre ormai con notevole facilità, stava avvicinandosi a grandi passi il giorno della mia sospirata laurea onorata da una formidabile tesi di Diritto Privato.
Verso la metà di giugno, prima delle più ottimistiche previsioni, tutto era pronto per il grande giorno e fu proprio in quel momento che Laura mi avvisò che sarebbe venuta a Treviso per il giorno della laurea e che non potevo trattenerla ulteriormente perché nell’ultima mia visita a Brindisi l’avevo messa incinta.
Era già all’inizio del terzo mese di gravidanza ma la notizia l’aveva lasciata soltanto per me allo scopo di farmi il più bel regalo del mondo per la laurea, donandomi un figlio oppure una figlia, anche se non avevamo programmato alcunché a riguardo.
Come se un gigantesco macigno mi avesse colpito a tradimento sulla schiena, rimasi semisvenuto, accasciato sulla sedia che si trovava accanto alla mia scrivania.
Il gioco d’azzardo era dunque finito e si profilava per me la giusta punizione che sapevo di meritare appieno.
Ero all’angolo del ring frastornato e pure Laura, tanto giovane e certamente con poca esperienza rispetto alla mia, mi aveva avvisato di essere cauto e di non fidarmi della legge di Ogino Knaus che tante volte era miseramente fallita con un sacco di donne.
Ero stato, sia con lei che con Erika, sempre troppo ottimista fidandomi della buona sorte che sempre era stata dalla mia parte e se con Margherita avevo molte volte usato ogni precauzione, ciò non era avvenuto con le altre due.
Il motivo principale era il mio egoismo ed anche il mio insaziabile menefreghismo, assurdo perché sia Laura che Erika erano sempre state con me le più generose e le più deboli anche se così diverse per posizione sociale e carattere.
Non mi rimaneva a quel punto che sposare Laura ed intanto avrei dovuto informare le altre due donne della mia gioventù di come stavano le cose.


Dovevo discutere la tesi di laurea il venerdì di quella stessa settimana ed avvisai Laura di venire da me dopo quella data, possibilmente di sabato, per darmi il tempo di organizzare un appartamento più grande che avrei preso in affitto per noi, il nostro nido d’amore, finchè non ci fossimo sposati.
Laura non sarebbe stata presente il giorno della mia consacrazione a Dottore in Legge ma questo era una semplice formalità.
Laura mi confidò che forse sarebbe stato meglio addirittura che lei arrivasse sì di sabato ma quello della successiva settimana, in quanto anche per lei era necessario sistemare diverse cose ed anche parlare con i genitori cui sarebbe venuto un accidente alla notizia che se ne sarebbe andata da casa, per raggiungermi e che comunque non avrebbe ancora detto né alla madre né al padre di aspettare un bambino.
Così, Laura mi aveva per lo meno alleggerito, dandomi un po’ di tempo in più, l’ingrato compito di avvisare Margherita ed Erika che le cose erano finite, per sempre.
Mi recai subito all’Università ed affrontai Margherita in un modo ironico ed allo stesso tempo da grande farabutto.
Non me la sentivo di proclamarmi innocente ed affermai soltanto di essere stato particolarmente sfortunato con una ragazza meridionale che mi aveva detto di usare i contraccettivi mentre non era vero e che nell’unica volta che ero stato assieme a lei, mi aveva tirato un solenne bidone, facendosi mettere incinta.
Margherita che immaginava che un tipo come me non era uno stinco di santo, esclamò con gli occhi velati di pianto.
- Bravissimo Marco, come hai potuto farmi questo! -
- Non lo so, mio tesoro, ma è successo ed ora devo rimediare perché con il coltello di quei terroni non si scherza. -
Ebbi la faccia tosta di affermare che lei sarebbe rimasta la mia amica del cuore per tutta la vita e solo allora rispose, in dialetto.
- Caro Marco, “te sa cossa te digo: va in mona ti e la tua mula cabiba. -


Con Erika tutto andò diversamente. Attesi il giorno della mia laurea per parlarle.
Non aveva voluto assistere a Padova alla discussione della tesi e se ne era scusata con me dicendomi che soffriva un poco di superstizione e che mi avrebbe atteso alla Fattoria dopo il mio ritorno a Treviso.
Quando mi vide arrivare era radiosa ed elegante in un costume nuovo da cavallerizza,
- Allora mio bel dottore quanto ti hanno dato, non penso meno di centodieci e vero?-
Annuii e lei continuò con un sospiro.
- Vedi che ti porto fortuna? Adesso andiamo a prendere la Lancia che ti sta aspettando da un anno; così eravamo rimasti d’accordo. -
Guardai a lungo il bel viso sorridente di Erika e sentii una cocente emozione salirmi in superficie dal midollo alla cute.
Presi tutto il coraggio che ancora mi rimaneva in corpo e dissi.
- Mia cara Erika, devo darti una cattiva notizia e non so da dove cominciare. -
- Ti ricordi quando ti dissi che il matrimonio non era cosa per me? Adesso sono costretto a sposarmi ed anche di corsa. -
Erika non aveva capito dove volessi arrivare ma continuò a sorridermi teneramente. Probabilmente aveva pensato a lei.
- Proprio così, sono stato bidonato da una ragazza di Brindisi che è rimasta incinta. Tu comprendi che non ho più nessuna via di scampo e sarò costretto a comportarmi da gentiluomo? -
Erika mi aveva dato prima di quel colloquio un biglietto che non avevo letto subito, preso come ero dai miei gravi problemi, ma lei cambiando subito tono mi gridò.
- Dammi subito il mio biglietto! -
Avrei voluto ubbidire ma la curiosità che mi aveva preso di sapere cosa avesse scritto fu più forte del suo perentorio comando.
Presi il biglietto dal taschino della camicia e lessi.
“ Al mio Amore che non mi abbandonerà mai, questa semplice notizia: sono in attesa di un figlio tuo!”


Cosi, improvvisamente, mi ritrovai padre di due bambini da due donne diverse e quasi contemporaneamente.
Erika però non aveva voluto infierire su di me e con poche parole aveva riassunto la situazione con una decisione che mi colse di sorpresa ma che infine mi parve l’unica cosa che avrei potuto fare.
Lei si era nuovamente accostata a me e nella sua semplicità caparbia e piena di orgoglio, di donna vincente in qualsiasi caso anche il peggiore, mi disse.
- Chi è senza colpa scagli la prima pietra, Marco. Tu sei stato debole nella carne e dovrai pagare le conseguenze, quindi dovrai dare il tuo nome al figlio di quella ragazza meridionale. -
- Ma io non rinuncerò a te nemmeno morta e nostro figlio sarà il figlio dell’amore e del nostro matrimonio. Domani partiremo per Las Vegas e lì ci sposeremo e saremo marito e moglie. -
- Appena tornati dall’America sarai libero di sposarla ed io non sarò gelosa perché so che mi hai sempre amato come si deve amare una donna, incondizionatamente.Anche nostro figlio avrà il tuo nome e tu dovrai dire a Laura che tanto tempo fa ti eri sposato a Las Vegas e che hai avuto un figlio con me -
- Se lei è una donna che veramente ti ama non avrà nessuna remora ad accettare che tu lo cresca come del resto crescerai con lei il vostro bebè. -
Erika aveva da par sua ottimizzata la situazione ed aveva risolto, secondo lei ogni problema.






CAPITOLO TREDICESIMO





Erika mi aveva spiegato che un matrimonio contratto a Las Vegas non aveva valore in Italia e così avrei potuto più tardi sposarmi con Laura, al Municipio, senza troppi fronzoli adducendo la scusa che sarebbe stato meglio così anche perché non mi sentivo pronto per un matrimonio religioso.
Partimmo da Milano per Los Angeles con un volo diretto in prima classe e da quella città volammo subito a Las Vegas dove in quattro e quattro, otto, ci sposammo in cinque minuti.
Erika divenne, come già da più di un paio d’anni aveva deciso, mia moglie per la legge americana ed anche per me, che quella giovane donna amavo e rispettavo.
Certo si era dimostrata molto più furba ed astuta di me.
Ma non era soltanto questione di furbizia per Erika, lei non poteva farsi scalzare da una ragazzina su un diritto che riteneva ormai acquisito.
Io ero stato scelto da lei tra tanti corteggiatori e niente al mondo avrebbe potuto toglierle il suo uomo, specialmente adesso che aspettava un bambino da me.
Un domani si sarebbe visto chi avesse più carte da giocare tra lei e questa Laura che ancora non conosceva.
La partita era appena cominciata con quella mossa strategica
Io ero il premio partita per Erika e Laura partiva senza dubbio con un grosso handicap.
Da un punto di vista sentimentale Erika sembrava che avesse assorbito il colpo che le avevo inferto con straordinaria signorilità ed eleganza.
Era diventata mia moglie, anche se solo per modo di dire dal lato legale, ma si dimostrava tale in ogni attimo che stavamo passando insieme, sia all’albergo di Las Vegas che in quello di Los Angeles oppure nelle lunghe ore passate in aereo.
Io ero pieno di attenzioni nei suoi riguardi ricordandole che non si doveva strapazzare più di tanto per il fardello che portava in grembo ed ogni occasione era buona per dimostrarle che Laura non avrebbe mai potuto incidere sull’amore che sentivo profondo per lei nel mio cuore di “enfant terrible”.
Le avevo ripetuto mille volte che ero avvilito per tutto gli errori commessi e che le chiedevo perdono se l’avevo fatta soffrire, ferendola a quel modo.
Sapevo di dire la verità.
Bisognava essere delle talpe cieche per non capire che Erika era di una bellezza strana, di un altro pianeta e ricordavo inoltre il detto che “ la classe non è acqua” e che in questo concetto estetico la beltà assoluta, quella fisica, contava soltanto parzialmente e relativamente, rispetto all’estrema sensibilità d’animo, la generosità e l’acume vivace intellettivo di una caratura superiore.
Certamente se avessi visto la cosa esclusivamente con i paraocchi, sia Laura che Margherita le erano, per usare un termine ippico, superiori di una incollatura.
Ormai però erano finiti i tempi che nei miei giudizi prevaleva il solo concetto della bellezza femminile.
Ero cresciuto ed anche Erika se ne era accorta soprattutto nel momento che le avevo confessato la mia relazione con Laura anche se ero stato un idiota a metterla incinta.
Erika mi aveva detto che il “perdono” era nel suo vocabolario e che amava tutti i bambini ed anche quello di Laura.
Erika comprendeva che un giovane come me avrebbe potuto avere anche una doppia relazione senza essere considerato un mostro, specialmente se nella giovanissima Laura avevo visto l’addio alla mia lunga adolescenza.
Erika non mi avrebbe mai perdonato se fossi stato non un giovane, anche se avvocato, ma un uomo adulto esperto di ogni situazione e per questo responsabile di ogni atto compiuto.
Sembrava quasi che lei si fosse assunta il compito di mio avvocato personale e quando mi parlava di queste cose, metteva nelle parole tutto il fervore di cui era capace.
Adoravo Erika ed avrei fatto di tutto per donarle quella felicità che aveva cercato affannosamente dall’infanzia e che solo con me aveva trovato.
L’adoravo anche per la sua grande bontà d’animo e per la sua generosità.
Mi accorgevo che solo la sua Tata l’aveva veramente conosciuta ed amata meglio di una madre che le era tanto mancata.
Qualcosa di più avrei dovuto inventarmi per renderla, ora, veramente serena aiutandola con tutte le mie forze nello sforzo che stava compiendo per non farmi sentire un verme.


Quando tornammo a Treviso era di venerdì.
Erika mi disse di passare la notte da lei, a casa sua, dove avrebbe raccontato tutto alla sua Tata, Giulia.
Giulia rimase male per la decisione che la sua cara figlioccia aveva preso sposandomi in America ma ancora maggiormente fu offesa, dal fatto che mi sarei sposato con un’altra donna tra non molto tempo.
Soltanto di una cosa era rimasta entusiasta, quando Erika le disse che aspettava un bimbo da me.
Le sembrava impossibile che così giovane Erika avrebbe partorito tra sette mesi e mezzo.
Realmente sembrava che la giovane donna fosse improvvisamente cresciuta almeno di un paio di anni e tutto in lei faceva capolino nel fare comprendere a Giulia quanto tenesse quella maternità.
Sembrava che avesse abbandonato quell’aria di ragazza sbarazzina e sofisticata che da sempre era stata la sua firma ed allo stesso tempo mi guardava con rinnovata tenerezza ed amore.
Quante volte mi ero pentito nel non averla sposata prima, quando ancora ero un semplice studente, mentre lei avrebbe fatto carte false per me.
Ormai nulla sarebbe stato come prima e tutto avrebbe potuto accadere.
Quella notte, da Erika, fui così dolce nei miei atteggiamenti che lei ad un certo punto mi disse.
- Marco perché mi tratti con le pinzette, non essere troppo educato mi piaci di più quando non mi chiedi permessi che non ti negherò mai. Voglio il tuo Amore totale ed esclusivo anche se incombe su di me quella ragazzina di nome Laura ed il suo, anzi il vostro, frutto sessuale. -
- Se potessi lo crescerei io insieme al nostro piccolo con uguale affetto ed amore. -
Quella fu una notte indimenticabile fatta di tenerezza e di passione e più si avvicinava il momento della nostra separazione più sentivo in me ribollire il sangue ed una rabbia profonda di essere stato completamente un imbecille nel avere agito come un pazzo da manicomio con Laura.
Al mattino Erika non pianse e mi trasmise, come in una copiosa e salutare trasfusione, tutta la forza d’animo che possedeva per rendermi forte ed allo stesso tempo un vero uomo.


Quello stesso giorno arrivò, a Treviso. Laura con un treno locale proveniente da Venezia.
Io ero ad attenderla alla stazione ferroviaria, impacciato e maldestro come non mi accadeva quasi mai.
L’aiutai a scendere dal treno con i numerosi bagagli che si era portata appresso e la baciai con affetto nel vederle l’incipiente pancia ormai all’inizio del quarto mese.
Parlammo poco, ma capii quanto fosse felice di essere venuta da me e quanto fosse orgogliosa per avere avuto il coraggio di raggiungermi in quelle condizioni.
Avevo preso in affitto una casetta in campagna a nord di Treviso già arredata ma sufficientemente grande per offrirle il massimo del confort che potevo permettermi e per farle capire che non ce l’avevo con lei assolutamente.
C’era anche un piccolissimo giardino con alcuni alberi frondosi che in quella stagione permettevano di stare fuori all’aperto al fresco specialmente di sera.
Non facevamo niente di importante né io, né lei e l’unica cosa che veramente mi occupava parecchio tempo era lo studio perché non avevo dimenticato che al più presto avrei dovuto sostenere il concorso per avvocato.
Avevo detto a Laura che non doveva assolutamente cercare nessun lavoro e non solo perchè si trovava in stato interessante, ma in particolare perché il denaro che avevo era più che sufficiente per andare avanti tranquillamente.
Laura era talmente contenta e serena di vivere con me che non mi aveva accennato minimamente al matrimonio cosa invece che mi turbava parecchio. Mi aveva solo detto che si sentiva in cielo dal momento che nostro figlio avrebbe portato il mio cognome.
Mi aveva parlato a lungo dei genitori e di come erano rimasti male quando li aveva informati di andarsene da casa, ma non avevano fatto nessun dramma, anzi negli ultimi giorni il padre,dopo aver fatto un po’ di conti e senza che lei avesse chiesto nulla, le aveva consegnato una grossa somma di denaro perché provvedesse per un lungo periodo alle proprie necessità.
Laura era riuscita a nascondere sia alla mamma che ad Antonio il suo stato di gravidanza.
Li avrebbe informati a tempo debito quando sarebbe mancato poco alla nascita del bebè, anzi di nostra figlia, poiché così aveva sentenziato la prima ecografia.
Quanto era accaduto mi meravigliò moltissimo.
Tutto avrei potuto immaginare all’infuori che le cose fossero andate così lisce e senza traumi psicologici per Laura e per me, ma così era stato.
Dunque non era così imminente il matrimonio come mi era parso, il giorno in cui mi aveva dato la notizia della sua gravidanza.
A Laura momentaneamente bastava la mia presenza fisica ed avrebbe accettato tranquillamente ogni mia decisione, mentre io avevo già un’altra moglie ed un altro figlio cui pensare.
Questo persistere nella menzogna con la bella ragazza di Brindisi era comunque un momento tragico delle mia vita, ma cosa avrei potuto fare di altro se non dirle tutta la verità riguardo a me ed Erika? E questo cosa avrebbe comportato per Laura e per quella creatura innocente che le cresceva giorno dopo giorno nell’utero?
Certamente una tragedia ancora più grande, immensa, senza ritorno e forse drammatica.
Non avevo scordato le sue parole quando mi aveva avvisato a Brindisi sulla sabbia di S. Apollinare che mi avrebbe potuto uccidere e forse a sua volta uccidersi.
La passionalità di Laura era fuori di dubbio, anche se in quel momento mi sembrava impossibile che avesse potuto dare seguito a quelle minacce con fatti così crudeli, tanto era dolce ed equilibrata in ogni parola ed azione.
L’unica cosa che sentivo di fare, per ora, era quella di essere calmo e temporeggiare perché pensavo che il tempo è sempre galantuomo.


Erika Cervon, Ferrin per gli americani, mi guardò a lungo con i suoi occhi verde castano ed espresse con quel visino e con la boccuccia di bambola tutto lo stupore di rivedermi dopo soltanto un mese durante il quale non ci eravamo incontrati nemmeno per un minuto.
Avevo approfittato dell’assenza di Laura da Treviso, che si era recata a fare degli accertamenti a Trieste dove viveva e lavorava una sua amica ginecologa, per andare a trovare mia moglie.
Volevo vedere con i miei occhi quanto le fosse cresciuto il bel pancino oltre che informarmi della sua salute e di come passasse il tempo dal momento che in città non si era più vista.
Passato il primo momento di sorpresa, Erika si buttò tra le mie braccia.
- Amore mio come va con te? -chiese commossa con un sospiro di amarezza, - come sta la nostra bella gestante brindisina ed a quando il matrimonio ….civile? -
Mi sorrise con un tantino di malizia.
- Sono molto meravigliata di non aver sentito in giro che l’avvocato Marco Ferrin non si sia ancora sposato! -
Dopo averle accarezzato il ventre ed il suo morbido contenuto le raccontai ogni cosa da quando Laura era arrivata a Treviso e tra una frase e l’altra non smettevo di baciarle le piccole, morbide ma solide e nervose, mani.
Mi ascoltò in silenzio mentre avvertivo un certo malessere attraversale il pensiero, poi disse.
- Marco non mi dire che sei ridotto così male e che non ti suscito altro che qualche carezza e qualche bacio sulle mani. -
Capii l’antifona e passammo due ore a letto a fare all’amore.






CAPITOLO QUATTORDICESIMO





Quella sera di settembre inoltrato quando rividi Laura di ritorno da Trieste mi parve piuttosto nervosa e quasi irriconoscibile oltre che prostrata.
Mi raccontò della visita fattale dalla sua amica ginecologa e della nuova ecografia che questa le aveva eseguito.
Mi disse che non l’aveva tranquillizzata riguardo la gravidanza che presentava qualche problema, che precedentemente a Treviso non avevano rilevato.
Sembrava infatti che la bambina presentasse qualche anomalia dello sviluppo del cranio, poco sviluppato rispetto al periodo di gravidanza tanto che quella brava specialista le aveva consigliato un ricovero per ulteriori controlli, sospettando una microcefalia.
Laura da nervosa divenne presto del tutto intrattabile.
La notizia l’aveva sconvolta tanto più che la sua amica le aveva prospettato l’ipotesi, se i successivi accertamenti avessero confermato la diagnosi, di praticarle un aborto terapeutico.
Laura era talmente convinta che la ginecologa avesse già formulato la diagnosi esatta che cadde da un momento all’altro per terra, in una specie di immobilità catatonica.
Io prendendole la testa tra le mani, molto emozionato e con la voce rotta da un pianto represso, cercai di farle tornare un minimo di forza e di serenità.
- Lauretta, non disperarti prima del tempo e vedrai che sarà stato un falso allarme. Devi essere forte come sai esserlo tu, amore mio, sei così giovane ed anche se così fosse e dovessi abortire dovrai affrontare questo tremendo sacrificio serenamente. Ci saranno molte altre occasioni per avere dei figli e tu puoi contare su me. -
Tutte le mie parole furono inutili. Più passavano le ore più Laura, ripresasi dalla crisi che l’aveva fatta cadere a terra, pareva aver perso completamente la testa e disperata gridò.
- Maledetto sia il giorno che ti ho incontrato. Da quel momento non ho avuto che dolori, ansie, paure ed adesso anche la più grande disgrazia che può colpire una madre, quella di perdere una figlia che già sentivo tra le mia braccia e che da sola mi avrebbe ripagato di tutti i sacrifici che ho dovuto sostenere nella mia così sfortunata pur se breve vita. -
Non riconoscevo più la Laura che avevo e che ancora amavo teneramente. Quella era una diversa ragazza, incupita da un dolore assai più potente delle sue forze e se anche capivo il suo strazio che poi era del tutto simile al mio, non potevo perdonarle di avermi dato la colpa di tutti i suoi guai e di avermi praticamente maledetto.
Capivo bene che in quel momento sragionava, affossata come era da uno stato depressivo acuto, ma appiopparmi addosso l’etichetta di porta sfortuna per un evento che mi aveva tanto addolorato ed infine rischiava di annientarmi lo spirito, questo non lo potevo ammettere.
A quel punto, con un sordo rancore nel cuore, esclamai, facendo forza su me stesso.
- Laura ascoltami, ti prego, non dire e fare cose tanto gravi di cui poi ti potrai pentire per tutta la vita. Se fosse possibile io mi assumerei tutto il tuo dolore e tutta la tua sofferenza ma questo non è attuabile perché già tanta e la mia disperazione ed in ogni caso, nella vita, bisogna reagire da adulti e non da bambini! -
- Ti ripeto due sole cose. La prima è che non bisogna mettere mai il carro davanti ai buoi, la seconda e la più importante è che così facendo mi perderai per sempre. O siamo una vera coppia oppure è meglio che tu te ne ritorni a Brindisi senza farti mai più sentire. -
Laura, che aveva sentito soltanto qualcosa di quanto le avevo detto e consigliato, si rivolse contro di me brandendo un coltello che aveva preso dalla tavola della cucina e mi vibrò un colpo con tutta la forza che possedeva, ferendomi al braccio sinistro.
Poi urlando mise in una valigia qualcosa ed in un attimo sparì alla mia vista mentre io cercavo di arginare l’emorragia che mi stava dissanguando mentre un tramonto buio ormai incombeva su Treviso.
Ebbi la forza soltanto di telefonare ad Erika che, spaventatissima, mi raggiunse dopo dieci minuti portandomi da un chirurgo suo caro amico ed in pensione.


Il professore Trevisan esercitava ancora nello studio annesso alla sua abitazione.
Esaminò la profonda ferita del braccio e sentenziò.
- Giovanotto, lei è stato molto fortunato. Un centimetro più a destra e sarebbe morto per il taglio netto dell’arteria omerale. -
Poi rivolgendosi ad Erika le chiese di andare a comprare, in una Farmacia notturna con la sua ricetta, tre sacche di plasma mentre egli avrebbe suturato la ferita ed avrebbe fatto cessare l’emorragia che non era stata così grave da richiedere una trasfusione di sangue.
In assenza di Erika, mentre io mi sentivo sul punto di perdere i sensi, mi chiese.
- Devo denunciare ai carabinieri il fatto oppure vuole soprassedere come io ritengo giusto trattandosi di una ferita non pericolosa per la sua vita? -
- Poi Erika mi ha accennato che la responsabile di questo fatto è stata la sua convivente che tra l’altro si trova in uno stato di gravidanza complicata. Quindi se vuole seguire il mio consiglio, lasci perdere. -
Risposi, con un filo di voce, che ero assolutamente del suo avviso e quindi lo ringraziavo poiché sapevo che commetteva una deroga illegale e questo per l’amicizia con Erika.
Rimasi nello studio del professor Trevisan fino oltre mezzanotte tra le braccia di Erika, pallida ed affranta per ciò che era successo.
La mia pressione era risalita oltre ai centodieci millimetri di mercurio per merito del plasma trasfuso e solo a quel punto il medico mi permise di alzarmi dal lettino ed ad Erika di portarmi via. Ma prima di congedarci disse.
- Miei cari giovani non conosco nulla del vostro privato ma so che ci deve essere un certo disordine nel modo di condurre la vostra vita. -
- Per me, Erika è come una figlia e come tale la prego di fare ogni cosa per questo giovane dottore in legge, che credo ha perduto la cognizione del vero e del falso, del lecito e dell’illecito, del sacro e del profano. Ho compiuto il mio dovere di medico ed egli dovrà farsi rivedere da me tra tre giorni per il controllo della sutura, ma da subito, deve assumere questo antibiotico che vi do. -
- Mi ha detto che ha fatto il militare e quindi non c’è bisogno di antitetanica né di gammaglobuline anti-tetano. Non farò alcuna relazione ai carabinieri, come d’accordo, e con questo vi benedico e vi auguro figli maschi. -
Io ed Erika non sapemmo mai se quel medico aveva capito che Erika fosse gravida o se avesse voluto soltanto ironizzare.


Durante i lunghi mesi che passai a casa di Erika accudito anch’io come un cucciolo dalla Tata, cercai di informarmi su cosa avesse fatto Laura una volta fuggita dalla casetta in campagna che avevo preso in affitto per lei.
Con l’aiuto di Erika venni a sapere che Laura si era ricoverata a Trieste dove seguendo il consiglio dell’amica, una volta stabilito che quella aveva formulato una diagnosi esatta, aveva praticato un aborto terapeutico e che poi se ne era tornata a Brindisi dai suoi genitori.
Queste notizie avevano allentato l’ansia che sia io che Erika avevamo avuto riguardo allo squilibrio mentale della giovane brindisina, che era stato soltanto momentaneo.
Con grande tristezza avevo appreso che una creatura innocente, figlia anche mia, era morta e nessuno avrebbe potuto consolarmi per questa disgrazia, nemmeno Erika.
Intanto noi due avevamo stabilito di sposarci anche in Italia, ma non a Treviso, perché ormai tutti ci consideravano marito e moglie ma in una altra città, Como.
Avevamo scelto per la cerimonia il mese di marzo, quando a lei
sarebbero mancati solo pochi giorni al parto che sarebbe avvenuto proprio nella bella città del lago omonimo ed io sarei stato già avvocato avendo superato sicuramente il mio concorso, che stavo preparando con grande volontà, tenacia ed accanimento.
Volevo farmi valere agli occhi di Erika e perciò non trascurai alcun particolare riguardante quell’esame.
Era la prima volta in vita mia che facevo qualcosa pensando non tanto a me ma ad un’altra persona che amavo come non mai e che mi avrebbe dato un figlio maschio, sperandolo bello e forte come mia moglie.
Finalmente nella mia vita si stava aprendo una finestra piena di luce ed allo stesso tempo ogni cosa cominciò a girare per il verso giusto senza più ostacoli e nella felicità completa mia e di Erika.
Divenni avvocato alla fine di febbraio ed ai primi di marzo, ci sposammo in una bella chiesetta di Como e lì nacque senza problemi nostro figlio, un bambolotto di tre chili e duecento grammi sanissimo e stupendo come la sua mammina.



SECONDA PARTE





CAPITOLO PRIMO





Quando la mia famiglia decise di festeggiare alla grande il mio quarantacinquesimo compleanno, i miei figli Giuliano e Debora organizzarono assieme ad Erika una fantastica festa con inviti allargati anche a tutti i loro più cari amici.
La Fattoria, che Erika ormai orfana di entrambi i genitori aveva voluto far diventare un vero monumento veneto, era talmente estesa che per percorrerla in lungo e largo bisognava utilizzare un fuori-strada.
Non solo ma, nella parte boscosa di quella, mia moglie aveva fatto costruire tre ville che aveva destinato ai nostri due eredi pensando alle loro future famiglie e mantenendo per noi la più grande e centrale dove sia Giuliano che Debora continuavano a vivere con noi.
Giuliano, ventenne da poco, era diventato un ragazzone alto e forte tanto che ogni volta che prendeva in braccio la mamma la faceva volare per aria come se avesse lanciato verso il cielo un passerotto.
Continuava a studiare, a Padova, Medicina e stava per completare il biennio con grande profitto.
Non sopportava le colleghe di facoltà ma faceva gli occhi dolci ed era amicone di quelle delle altre varie discipline.
Era titolare della squadra di rugby dell’ateneo patavino ed era un campione di discesa libera tanto che era stato selezionato dal C.T. della squadra nazionale giovanile.
Amava sua madre devotamente, quasi la venerava e spesso diceva, che soltanto se avesse conosciuto una giovane che le somigliasse in tutto e per tutto, avrebbe potuto prendere in considerazione la eventualità di fidanzarsi.
Non c’era sport in cui non primeggiasse e tra nuoto, arti marziali ed atletica leggera non capivo come potesse essere così bravo anche negli studi.
Contrariamente a Giuliano, Debora era la fotocopia della mamma.
Alta appena un metro e sessantacinque, aveva sedici anni ed una grinta tremenda in tutto ciò che faceva a cominciare dall’attitudine al comando ed alla fermezza di carattere, compresa la non comune testardaggine che associata alla dolcezza ed alla tenerezza, era il punto maggiormente delineato della sua acerba personalità.
Aveva voluto frequentare l’Istituto Tecnico di Ragioneria ed aveva promesso ad Erika che l’avrebbe aiutata nella contabilità dei suoi numerosi affari perché quella sarebbe stata la sua strada per il futuro.
Per quanto l’avessi pregata di prendersi il diploma del Liceo Classico per poi iscriversi a Legge, non c’era stato niente da fare in quanto era straconvinta che era più che sufficiente avere un solo avvocato in famiglia.
Eppure Debora mi adorava e facendo ingelosire la mamma, mi stava, quando ero libero da impegni, sempre accanto esuberante nel manifestarmi tutto il bene che sentiva per me coccolandomi con un mucchio di moine.
Odiava lo sport in generale ed amava soltanto tutto quanto fosse inerente ai cavalli che Erika continuava ad allevare ed a commerciare.
Possedeva una coppia di puledri puro sangue, costati ad Erika un patrimonio e spesso diceva che sarebbe diventata un famoso fantino di galoppo e che il suo nome sarebbe diventato celebre sulle piste italiane ed anche straniere.
Aveva di me solo gli occhi castani ed il naso dritto quasi identico al mio ma anche la voglia di vivere, prepotente come era stato per me alla sua età ed in seguito.
Apprezzava la bellezza delle cose ed in fondo aveva la sensibilità di una artista che non avesse ancora trovato a pieno il mezzo per esprimersi.
Esteticamente aveva un corpicino tutto da ammirare, ancora molto acerbo ma promettente specie se fosse diventata un tantino più alta ed avesse cambiato il modo di vestirsi sempre troppo trascurato, malgrado i rimproveri di Erika che la voleva molto più elegante e non così poco raffinata.in fatto di mostrarsi agli altri.
Debora poi aveva una grande passione ed era quella di cucinare di tutto e con grande competenza tanto che aveva frequentato per questo motivo una scuola di cucina.
I manicaretti che preparava dovevano sempre essere giudicati da me che considerava un vero buongustaio ed anche per i dolci squisiti che inventava di sana pianta e che dovevano sempre avere la mia approvazione.


Io, in quelli ultimi venti anni mi ero distinto, a Treviso, dove avevo uno Studio nel quale avevo associato ottimi collaboratori ed un paio di investigatori ed in tutta la Regione, per essere il più bravo avvocato penalista.
Avevo un metodo di lavoro all’americana e per questo i successi erano stati copiosi e ben rimunerati tanto che avevo anche uno Studio parallelo di civilista dove però mi interessavo soltanto di casi molto importanti affidando gli altri a due giovani avvocati di cui mi fidavo ciecamente.
Lo Studio Ferrin era da tutti considerato il top della serietà di lavoro e del successo professionale.
Molto spesso mi ero domandato dove fosse finito quel Marco che era stato capace di combinare un mucchio di guai quando frequentava l’Università e come fosse stata strana la mia vita, che avrebbe potuto assumere tutta un’altra direzione se non fosse accaduta la tragedia, che aveva coinvolto sia me che Laura e la nostra figliola addirittura nella pancia della madre.
Il bidone che avevo creduto essermi stato inferto da Laurea si era trasformato in un bidone boomerang per quella bellissima giovane di Brindisi.
Prima di morire mia nonna, che aveva saputo tutto della mia relazione con Laura, mentre ero andato a trovarla per l’ultimo saluto mi aveva raccontato cosa fosse successo a quella che era stata il mio primo vero amore.
Tornata a Brindisi era stata ricoverata per un anno in una clinica psichiatrica privata e con l’aiuto dei genitori ne era uscita completamente guarita dal grave stato depressivo che l’aveva colpita a Treviso, a causa di quella figlia che non sarebbe mai nata, non avendo voluto accettare l’aiuto che mi ero offerto di darle.
Quello che avevo chiamato un bidone, per me era invece stato il più grande dolore che avessi subito ed al tempo stesso la più atroce esperienza della mia gioventù che, senza dubbio, mi aveva profondamente segnato ma allo stesso maturato facendomi crescere di colpo.
Meditai a lungo al capezzale di mia nonna morente su quanto fosse effimera la vita di ognuno quando tratti il tuo prossimo improntando tutto sulla menzogna e sul personale egoismo.
Laura comunque sarebbe rimasta per sempre il mio primo amore e questo era stato vero.
In quel momento sperai che si fosse totalmente dimenticata di me ora che sapevo essere felice, con una bella famiglia che Dio, a parziale compenso di tutti i suoi dolori, le aveva donato e con tre figli che sarebbero stati il suo personale tesoro.
Amavo Erika con tutto me stesso ed avevo saputo diventare, per merito suo esclusivo, un vero uomo orgoglioso di me stesso, del mio lavoro e della mia stupenda famiglia, che si apprestava a regalarmi un giorno dedicato soltanto a me ed ai miei quarantacinque anni.
Avrei voluto che fossero stati presenti anche i miei genitori, che in pratica mi avevano fatto crescere da solo, ma anche loro come quelli di Erika erano passati già da alcuni anni a miglior vita.







CAPITOLO SECONDO





Andai alla festa con Erika, come due innamorati vanno ad un appuntamento importante, mentre i nostri figli erano sul posto in compagnia dei loro ospiti.
Erika, bellissima, in un abito attillato di colore verde pastello, riusciva ad apparire ancora più affascinante di quando aveva soltanto ventanni, piena di charme e così signorile nel portamento da incantare chiunque la osservasse.
Erano passati già oltre ventanni da quando l’avevo vista per la prima volta ma per me era come se quell’incontro fosse avvenuto il giorno prima.
Uguale era lo sguardo espresso da quei grandi occhi verde castani, profondo e birichino, intelligente e malizioso, dolce e provocante altrettanto uguale era l’elasticità dei suoi passi e l’eleganza della suo incedere.
Non mi ero ancora reso conto pienamente della fortuna che avevo avuto nell’incontrarla, nell’avere fatto breccia nel suo cuore ed infine nello sposarla addirittura due volte prima a Las Vegas e poi in quella chiesetta sul colle a Como, così piccola ma così piena di religiosità umile e calda.
Mai mi sarei pentito di averla scelta ed infine sempre l’avrei benedetta per quelli splendidi gioielli di figli che mi aveva donato.


Quando fummo sullo spiazzo antistante il vecchio edificio della Fattoria una corona di fiori, su tre archi davanti all’ingresso, precedette il caloroso applauso di tutti gli amici sia dei miei figli che nostri, miei e di Erika, che si erano tenuti nascosti dietro le colonne di ingresso per apparire di colpo sulla scalinata di marmo.
Contemporaneamente una orchestrina, composta tutta da amici di mio figlio suonò una famosa canzone di Lucio Battisti, al suono della quale io ed Erika stringendoci appassionatamente ballammo sulla ghiaia guancia sulla guancia.
Debora saltò letteralmente sulle mie spalle abbracciandomi dal di dietro quasi fossi un suo puledro e mi baciò sul collo alla maniera sua, possessiva e passionale e mi disse.
- Auguri papà, tanti auguri per i tuoi anni sempre verdi e te ne auguro altrettanti assieme a noi con tutto il mio piccolo, grande cuore. -
- Ti ho fatto una torta enorme con le mie mani roba da premio Nobel ! -
A quel punto intervenne Giuliano che mi diede al solito un abbraccio talmente forte che non potei fare ameno di dirgli, ridendo..
- Amico mio, quando mi abbracci ricordati che non sono un tuo avversario di rugby, ma semplicemente tuo padre. -
Tutti risero e rinnovarono il loro applauso di buon augurio, compresa Erika che mi baciò con rinnovato amore e calore.
Tra brindisi e musica, tra balli e scherzi dei giovani, tra la gioia di Debora e di Erika per l’enorme torta offertami si andò avanti fino all’una di notte.
Poi, lentamente i nostri ospiti piano-piano si allontanarono nell’oscurità dei viali che conducevano all’uscita della Fattoria.


Tutta la mia famiglia, compresa la Tata che ormai era diventata una vecchia signora di quasi ottanta anni, si ritirò nella grande villa al centro del bosco di querce, faggi e platani, tutti uniti sottobraccio gli uni con gli altri, felici di essere insieme.
Ciascuno di noi si ritirò stanco nella propria camera da letto, i ragazzi da una parte, con la Tata accanto, in una terza stanza posta in mezzo a quella di Debora e Giuliano, io ed Erika al terzo piano in una camera da letto immensa che mia moglie aveva voluto assai spaziosa e con un enorme bagno all’interno della stessa.
Io mi sedetti sulla bella poltrona di lana ad orsetto di colore avana ai piedi del grande letto matrimoniale in stile coloniale messa di fronte alla porta del bagno sulla destra, mentre Erika era entrata li dentro per farsi una doccia rigenerate.
Ero rimasto con le mutande ed a piedi nudi con la camicia slacciata, avendo riposto giacca e calzoni nell’angolo dell’armadio guardaroba di mia competenza.
Improvvisamente vidi comparire mia moglie con un minuscolo baby-doll rosa, che per la prima volta aveva indossato, trasparente e malizioso.
Lei si sedette sulle mie ginocchia appetitosa come non mai e cominciò a levarmi la camicia ed a baciarmi con delicatezza il collo ed il petto mettendo in quei baci tutta la malizia di cui era satura.
Resistetti alle sue provocazioni per un poco, poi eccitato dalle lisce e morbide carni di Erika, la presi sentendola ansimare di piacere.
Due minuti più tardi il mio erotismo era spento e con grande meraviglia di mia moglie ma soprattutto mia, feci la figura di un eunuco.per la seconda volta in vita mia.
Fu più grande la sorpresa che il dispiacere; non me lo sarei mai aspettata una cosa del genere ed ebbi appena il coraggio di sospirare a mezza voce.
- Ma guarda un po’ cosa mi doveva capitare proprio oggi nel giorno del mio compleanno, amore mio, lo sai che non ti desideravo tanto pienamente da un bel pezzo, bellissima ed adorabile come sei, profumata come una rosa fresca di rugiada? -
Anche Erika era rimasta con la bocca aperta dalla meraviglia che la mia proverbiale potenza sessuale si fosse improvvisamente spenta e pensando ad una mia debacle momentanea ed unica, prese il fatto nel modo che maggiormente si adattasse al suo spirito ironico che riusciva facilmente a minimizzare ogni situazione apparentemente scabrosa.
Indossò nuovamente il baby-doll rosa, pose la bocca sulla mia fronte imperlata di sudore e mi disse.
- Marco, abbi fede, cose come questa sono assolutamente normali in un momento di super eccitazione, ho esagerato troppo io nei convenevoli. La prossima volta sarò più prudente e meno provocante….! -
Passai tutta la notte in bianco. Fingevo di dormire, steso sul letto, con Erika accanto a me piombata in un sonno profondo dopo aver assunto, non vista, un blando sonnifero.
Girandomi a destra ed a sinistra, cambiando continuamente la posizione del cuscino, non feci altro che agitarmi in una idea che stava fissandosi nel cervello.
Mi stavo convincendo che forse avevo esaurito tutte le mie cartucce, dopo tanti anni di super lavoro sessuale, in cui non avevo tenuto conto che anche un toro avrebbe potuto entrare precocemente in una grave fase di impotenza.
Solo alle cinque di mattina riuscii a dormire un paio d’ore dopo aver deciso di recarmi di corsa da un bravo medico.


Alle sette e trenta ero gia pronto per uscire mentre Erika rilassata continuava il suo sonno profondo.
Non volli disturbarla svegliandola ed uscii di casa dopo averle scritto in un breve massaggio che dovevo correre a Venezia per un mio cliente.
Quella era stata la prima bugia che avevo detto ad Erika dopo la nascita di Giuliano e me ne vergognavo ma non potevo farne a meno, in gioco c’era la mia virilità a cui non avevo mai dato tanto peso ed importanza, come allora.
Dopo una telefonata, la segretaria dell’ottimo professore Guerrini internista di fama e mio cliente nella causa di separazione e divorzio dalla moglie, mi prese un urgente appuntamento con quel luminare soltanto per il mio ruolo di avvocato personale dello stesso, disdicendone altri due già fissati per quella mattina.
Guerrini esercitava a Venezia, dalle parti di Rialto ed io fui puntualissimo nell’arrivare alle undici al suo Studio.
Non mi fece attendere nemmeno un minuto e quando mi trovai di fronte a lui ebbi per un momento l’idea di inventarmi una qualche scusa per non dirgli il motivo esatto di quella improvvisa visita.
Subito cambiai idea e rivolgendomi al cliente oltre che all’amico ebbi il coraggio di raccontargli ciò che mi era successo la notte precedente.
Il professore Guerrini si fece una sonora risata.
- Tutto qui, credevo che si trattasse di qualcosa di veramente serio quando ho saputo della tua urgente richiesta. Vediamo, prima ti visito poi ti dirò cosa devi fare. -
La visita fu accuratissima, l’anamnesi pure come del resto erano state ottime le analisi che avevo fatto di routine soltanto un mese prima e che avevo dimenticato precedentemente di portare, tanto ero stato preso dal mio lavoro ma che quella volta avevo appresso, nella tasca interna della mia giacca.
Dopo una buona mezzora parlò con il volto sorridente.
- Caro Marco, non hai proprio niente di organico. Non so che dirti ma potrei darti un semplice consiglio. -
- Forse sarebbe il caso che tu provassi di nuovo a fare sesso, dopo tanti anni di routine con Erika, con un’altra donna. -
Lo guardai in volto seriamente.
- Non vorrei fare così, non vorrei tradire mia moglie dopo tanti anni di fedeltà assoluta. -
- Ma dai, -mi disse sornione, - nessuno racconterà mai ad Erika una tua scappatella almeno che tu non voglia farlo personalmente. -
Mi diede la mano e concluse.
- Amico mio, non farti troppe obbiezioni, cosa vuoi che sia qualche corno per salvare il tuo matrimonio. Ti conviene provarci poi mi dirai se sei impotente veramente o meno. Ti saluto ed a presto. -
Il mio amico mi aveva convinto: il rischio valeva l’impresa.
Uscii dal suo studio che già mi sentivo un’altra persona e così cominciai a girovagare per Venezia a piedi per distrarmi.






CAPITOLO TERZO





Erano anni che non facevo il turista a Venezia, eppure la città era sempre la stessa ad eccezione di tutti quei giapponesi che una volta raramente si vedevano sciamare con le loro immancabili macchine fotografiche.
Tutto mi sembrava come venti anni prima, immutato, fantastico, eccezionalmente bello, quasi irreale.
Era come se il tempo si fosse fermato per sempre ai tempi in cui l’avevo vista da ragazzo.
Piazza San Marco, il Palazzo Ducale, la Basilica, La Torre dell’Orologio, il Ponte dei Sospiri ed al di là del Canale Grande l’Isola di San Giorgio Maggiore e la stupenda magnificenza della Chiesa della Salute a ricordare al mondo intero ed ai veneziani la fine della peste.
E poi tutte quelle calli intorno a San Marco stracolme di negozi, i ponti e le scale che si ripetevano a non finire sempre improvvise e sempre diverse.
Anche l’odore dell’acqua nelle calli, in quella giornata senza vento era del tutto sovrapponibile a quella che ricordavo talvolta piacevole ed altre nauseante.
Nemmeno le gondole avevano minimamente mutato il loro fascino ed i gondolieri, cosi taciturni di giorno come se fossero più che uomini, fantasmi di altre epoche.
Ed a pensare che tutto nel mondo era cambiato e nulla era rimasto immutato, da New York a Milano, da Berlino a Palermo nel terzo millennio, ed anche Treviso era diventata un’altra città, stracolma di macchine che infastidivano ed ammorbavano l’aria altrimenti così pulita come fortunatamente io potevo godere ogni volta che tornavo alla Fattoria ed alle scuderie dei nostri puledri o quando cavalcavo con Erika nei prati intorno.
Mentre ero concentrato ad ammirare la vetrina di un negozio del centro, pieno di merletti fascinosi e fatti a mano sollevando gli occhi verso l’ingresso di quell’emporio, vidi la figura snella ed ancora flessuosa di Margherita ormai diventata donna nel pieno della maturità, affascinante come era sempre stata da studentessa ma ancora maggiormente attraente per quei lineamenti pittorici rinascimentali che erano stati sempre il suo inconfondibile DNA.
- Margherita, - dissi con un sussurro, - come sei bella, mi riconosci ancora oppure mi hai completamente cancellato dalla memoria? -
- Che domanda retorica, -rispose lei piantandomi gli occhi addosso che nulla avevano perduto dell’antico splendore, con quel colore unico che possedevano e con l’espressione di donna amareggiata ancora, per quella fine miserabile che aveva avuto il nostro amore.
- Come posso averti dimenticato, bel farabutto, dopo che sei riuscito a prendermi in giro per quasi due anni? -
- Sei sempre il solito bellimbusto tutto fumo e niente arrosto, mi sbaglio? Oppure hai messo testa a partito e finalmente hai messo su famiglia e concepito dei figli? -
Mi accorsi che Margherita non sapeva niente di me e nemmeno che avessi fatto un ottima carriera come avvocato.
Tagliai corto e le chiesi.
- Posso invitarti a pranzo oppure hai tante cose da fare che non hai tempo nemmeno per un vecchio amico come me? -
- Preoccupati, accetto il tuo invito, -mi rispose con un mezzo sorriso, -oggi sono libera, ho preso un giorno di ferie dall’ufficio dove faccio la Direttrice. A me la laurea è servita soltanto per vincere un concorso alle Poste Italiane e purtroppo mi devo accontentare. Spero che a te sia andata meglio. -
- E’ vero, - affermai riguardando i suoi occhi che, in quell’attimo, mi parvero delle vere perle grigie con sfumature di verde intenso, il tutto dovuto alla luce sfumata del vicolo dove eravamo fermi a parlare, - ho vinto il concorso per avvocato ed ora esercito in un mio Studio ben avviato a Treviso.Mi sono sposato ed ho due figli, un maschio ed una femmina. -
Margherita sembrò pensare a se stessa e mentre sotto braccio ci dirigevamo verso un famoso ristorante sulle rive del Canal Grande dalle parti del Danieli, mi raccontò quanto le fosse accaduto negli ultimi venti anni.
Così seppi che Margherita, un anno dopo la laurea, aveva perso entrambi i genitori in un incidente automobilistico nel quale la loro vettura aveva fatto un salto di corsia finendo in un burrone senza tuttavia aver provocato danni ad altre persone.
Era stata costretta ad affittare il negozio e solo dopo essere stata assunta alle Poste, a vent’otto anni, si era sposata con un Tenente Paracadutista, deceduto in Libano in una missione di pace sotto l’egida dell’O.N.U.
Non aveva voluto figli aspettando che il marito si congedasse dai
paracadutisti per fare il suo primitivo mestiere di specialista in telecomunicazioni.
L’avevo incontrata per mera combinazione davanti al negozio del padre dove era andata per incassare l’affitto del mese precedente.
Non si poteva lamentare economicamente perché tra stipendio, pensione di reversibilità ed affitto incassava parecchi soldi tanto che aveva continuato a tenersi la casa alla Giudecca dove viveva da single impenitente.


Alle tredici precise io e Margherita entrammo al ristorante.
Alle tredici e dieci minuti, approfittando del fatto che lei fosse andata alla toilette, telefonai col cellulare ad Erika dicendole che avrei fatto tardi la sera poiché il problema con il mio cliente era molto più complicato di quanto avessi immaginato.
Erika mi chiese se fossi ancora a Venezia ed alla mia risposta affermativa mi disse di non preoccuparmi, tanto anche lei avrebbe fatto tardi perché intendeva recarsi dal parrucchiere dove sarebbe stata un sacco di tempo.
Erika si era raccomandata che io pranzassi ed io le dissi che stavo per andare a pranzo con il mio cliente e che avrei chiuso il cellulare per non essere disturbato.
Alla mia richiesta Margherita, dopo aver consultato il menù, scelse un risotto con code di scampi e poi una orata ai ferri, cose che avrei mangiato volentieri anch’io, assai goloso di pesce in generale.
Scelsi un vino leggero bianco rosato, il Verdicchio, di cui quel Locale era particolarmente fornito e famoso per essere, il primo a Venezia, a farne provviste copiose di annate selezionate.
Durante tutto il pranzo Margherita si mostrò affabile e molto affettuosa nei miei riguardi tanto che, alla fine, sembravamo due sposi che celebrassero una qualche ricorrenza importante.
Finimmo con un dessert ottimo ed un caffè altrettanto buono.
Avevamo parlato di una infinità di cose, del nostro passato e del nostro presente sempre affabilmente e quasi con tenerezza.
Avevo capito che non si era dimenticata del suo primo amore e che non aspettava altro da me che mi proponessi, per stare insieme ancora qualche altra ora.
Pensai a lungo se fosse giusto fare ciò che lei desiderava oppure se fosse stato meglio salutarla, magari dandole appuntamento per un altro giorno.
Decisi per la prima soluzione tanto ero in ansia di conoscere il vero problema per la debacle avuta con Erika.
Così, sottobraccio giungemmo alla Giudecca alle sedici ed io uscii da casa sua alle venti e trenta.
Avevamo passato insieme quattro ore e mezzo dolcissime come due giovani amanti.
Le parole erano state superflue perché i nostri discorsi erano stati tutti fatti e carezze, baci ed abbracci tenerissimi, amplessi non più focosi e passionali come una volta ma calmi e tranquilli, profondi e completi da adulti nel pieno della propria sessualità.
Margherita era stordita come me, piena di amore represso ma non dicemmo una sola parola d’amore.
Era troppo ovvio cosa sentivamo l’uno per l’altra per aggiungervi anche una sola sillaba e uniti avevamo rivissuto tutto il tempo perduto senza tuttavia prometterci nulla per il futuro.
Avevo i suoi numeri telefonici che in qualche modo mi avrebbero permesso di salutarla ogni tanto ed anche lei si era annotato il numero del mio cellulare.
Non ci furono né arrivederci né addii ma soltanto una forte stretta di mano.






CAPITOLO QUARTO





Avvisai il professore Guerrini di avere seguito alla lettera il suo consiglio e che tutto era andato al meglio, contemporaneamente mi raccomandai con lui di non aprire bocca sul nostro incontro nemmeno sotto tortura.
A Venezia ci eravamo visti soltanto per il suo divorzio e per nessun altro motivo.
L’amico si offese per la raccomandazione ricordandomi come fosse legato al segreto professionale, del resto, quanto lo fossi anch’io.
Gli dissi di avere scherzato e risi al telefono come altrettanto fece lui che, approfittando della telefonata, mi propose di andare avanti con la sua ex con una transazione che avesse accontentato sia lui che lei.
Fu in quel momento che feci rapidamente un bilancio della mia vita e se da un lato lo trovai senza dubbio positivo con il mio lavoro sempre in ascesa, soprattutto come qualità e la mia famiglia compatta ed unita a me ed ad Erika, attraverso il benessere che io e mia moglie avevamo saputo elargire sia a noi che ai nostri figli, dall’altro non mi sentivo soddisfatto della mia personalità, contorta e del mio carattere, troppo ballerino per essere quello di un uomo di quarantacinque anni che aveva ancora sfumature infantili riguardo ai propri problemi sessuali ed erotici.
Intanto, guardandomi intorno, avevo capito come il mondo fosse totalmente cambiato e che sopratutto le donne erano riuscite a farsi sentire, nel contesto della società, unite nella loro scalata a tutti i poteri, da quello semplicemente domestico a quello del lavoro ed infine a quello politico e giudiziario, per finire , buon ultimo nella cronologia ma prestigioso quello militare.
Anche le varie Accademie erano state aperte al sesso femminile e già erano state sfornate le prime cadette sia nell’Accademia Aeronautica che in quella della Marina Militare.
Avevo già conosciuto per il mio mestiere numerosi Commissari donne ed anche qualche Questore.
Era finita l’epoca del maschilismo,
Chi si laureava più facilmente nelle Università, chi riusciva a sfondare sia nel commercio che nell’industria più sollecitamente ed a raggiungere i posti chiave di “Top Manager” erano in ogni caso maggiormente le donne.
Ciò, però, che mi stupiva ancora di più era che i rapporti uomo-donna si erano addirittura capovolti rispetto a venti anni prima.
Lo potevo constatare già a casa mia.
A me piaceva il modo di fare di mia figlia Debora, ogni giorno sempre maggiormente sicura di qualsiasi cosa facesse ma anche indisponente nei rapporti con i suoi amici maschi.
Alcune volte l’avevo sentita aggredire dei ragazzi che sapevo essere suoi amici ed anche il vocabolario che lei usava non mi sembrava consono alla sua età né al modo in cui l’avevamo educata.
Da prima avevo pensato che avesse ereditato il carattere della mamma, capace di comandare chiunque e tutta di un pezzo quando trattava affari, ma in seguito ebbi la sensazione che Erika era ed era stata mille volte più femmina della figlia.
Oltre a queste amenità che a macchia d’olio si erano gia sparse in tutta l’Unione Europea dopo l’ America, continenti questi, dove la professione più redditizia era diventata quella di Analista Psichiatrico, era penetrato, prima lentamente poi sempre più velocemente, nel cervello di tutti la paura che la vita fosse diventata qualcosa di effimero a causa del panico legato al terrorismo spinto dell’integralismo islamico e dei venti di guerra batteriologica, chimica e forse anche atomica che gravavano ovunque nel mondo.
In ultima analisi riuscii a comprendere che quanto mi era successo con Erika era il frutto, non di una improbabile caduta di ormoni da parte mia né tanto meno di una mutazione genetica del mio DNA, ma solo di fattori psicologici che si erano lentamente accumulati nel mio complesso biochimico cerebrale associandosi ad una instabilità di tutto quanto avevo fino allora creduto immutabile, nel rapporto di coppia.
Il cumulo di pensieri repressi, in fondo al mio encefalo e che riguardavano il complesso fisico e spirituale della donna in generale e che fino allora avevo creduto dipendere unicamente dalla virilità maschile, non avevano più senso.
Mi stavo rendendo conto del contrario e di come invece ogni apparente gioco d’amore fosse intimamente legato non più allo spirito bensì ai bisogni ed ai timori che le medesime donne avevano trasferito sull’altro sesso.
Il capovolgimento era stato totale e non erano più valide, se non in piccola parte le componenti sentimentali e purificatrici di qualsiasi atto erotico o sessuale.
Era proprio la donna che si era resa conto, in un momento, che il darsi materialmente all’uomo implicasse ben più di quanto le era stato insegnato fino allora.
Non significava assolutamente un atto d’amore, bensì un atto erotico comandato esclusivamente da un gioco ormonale e che non aveva nessuna importanza se questo capitasse a quindici anni oppure a cinquanta.
Non accettava più l’amplesso perché il cuore lo ordinava ma era la vagina a comandare il gioco.
Non poteva darsi all’uomo per abitudine, ma molto più perchè erano i suoi organi sessuali che capricciosamente comandavano il suo desiderio che doveva corrispondere ad un maschio anche con mille difetti ma adatto, in quel momento allo scopo.
La sera che avevo fatto cilecca con Erika lei mi aveva dato soltanto il cuore perché così sentiva quasi come obbligo morale, ma non mi aveva dato il suo corpo forse perchè non poteva darmelo in quel momento, per mille motivi ed io inconsciamente l’avevo avvertito.
Il fatto che fossi corso dal mio amico medico denotava il mio mancato ragionamento, la disillusione che lei non si sentisse pronta per me allora.
Non ero stato in grado di capire Erika, di avere pazienza che si sciogliesse, di attendere il momento in cui avrebbe potuto darmi tutta se stessa e poi non era una cosa eccezionale dal momento che chissà quante altre volte, in più di venti anni, si era comportata così.
Ma quella sera me ne ero accorto e non perché non fosse stata appassionata o carina nei mie riguardi ma unicamente perché anche Erika era una donna come tutte le altre ed io nel mio inconscio non l’avevo avvertito.
Con Margherita tutto era andato per il verso giusto. Perché lei inconsciamente aveva atteso,per venti anni, quel momento e la sua vagina era pronta da anni per me.


Ogni cosa ormai si era capovolta nella vita e quello che avevo creduto immutabile a venti anni si stava dimostrando quanto di più effimero potesse accadere nel tempo presente.
Non avevo bisogno di un internista ma di uno psichiatra oppure di uno psicologo prima di combinare qualche guaio irreversibile,
Trovai infatti una psicoterapeuta, una donna di Vittorio Veneto, quindi vicina a Treviso per guadagnare tempo e per fare da questa il massimo numero di sedute, più che altro per sentirmi aggiornato sull’evoluzione non tanto del mio, ma del cervello e del modo di pensare del mondo contemporaneo, femminile.
Dissi ad Erika che sentivo il bisogno professionale di sviluppare il mio concetto sul modo di crescere delle donne, che sentivo esplosiva negli ultimi tempi, con tutte quelle cause di separazione e di divorzio che erano aumentate, negli ultimi cinque anni al minimo, perlomeno del sessanta per cento.
Erika fu d’accordo e fu proprio lei che mi consigliò quella professionista che conosceva da quando, dopo le scuole superiori, le loro strade si erano separate per seguire scopi diversi.
Licia Tremonti si presentava come una donna nubile della stessa età di Erika, tanto bionda da sembrare una nordica trapiantata in Italia, super bionda naturale con occhi troppo azzurri da poter sembrare veri ed addirittura trasparenti ed imbarazzanti quando ti guardava.
Sempre in pantaloni aderenti e camicetta bianca con un gran fiocco al collo, esibiva le sue forme non certo trascurabili senza nessun minimo pudore oppure esitazione.
Trattava i suoi clienti con distacco, quasi con sufficienza e per quanto mi fosse stata raccomandata da mia moglie mi era stata da subito antipatica.
Parlava tanto ed ascoltava poco, impicciandosi di tutte le idiozie e confidenze di cui veniva a conoscenza.
Più che una psicoterapeuta pareva essere una maga, sputando sentenze fritte e rifritte sul movimento femminista dalle sue origini fino all’epoca attuale, prospettando un futuro vicino completamente dominato da donne che avrebbero potuto con tranquillità fare a meno del sesso maschile anche per procreare.
Le avevo detto di non avere bisogno di lezioni di storia ma che unicamente sentivo la necessità di capire il perché fosse successo tutto questo ed in così breve lasso di tempo.
Mi rispose che la donna si era riappropriata di quasi tutti i suoi diritti femminili dopo millenni di schiavitù maschilista e che il momento era molto pericoloso per l’uomo nel giorno che quelle fossero riuscite ad impossessarsi del potere economico, giuridico e politico.
Tutt’al più avrebbero sfruttato gli uomini, anzi certi uomini, per i loro capricci e per i loro giochi sessuali e che il concetto di Amore quello con la A maiuscola potevamo metterlo negli archivi del tempo per il semplice motivo che l’amore, inteso come sesso, alla donna durava soltanto un paio di giorni al mese e per il resto significava unicamente il sentimento che sempre aveva provato per i propri figli.
Del resto era sufficiente osservare la vita dei leoni dove il noto matriarcato aveva millenni di vita, provvedendo le femmine al cibo per mezzo della caccia ed accudendo alla crescita dei figli con abnegazione totale. I maschi rimanevano al di fuori del nucleo servendo unicamente per sementarle, quando a quelle sarebbe andato a genio.
Quel paragone con la vita dei leoni era l’unica cosa che mi aveva impressionato ed a quel punto ringraziai la psicoterapeuta dicendole che per me le sedute erano finite e che ne avevo più che abbastanza.
La pregai di mandarmi il conto allo Studio e che comunque avevo appreso quel tanto che mi era stato utile per approfondire la mia conoscenza delle donne in generale.
Raccontai ad Erika solo una parte di quanto quella pazzoide della sua amica Licia avesse cercato di inculcarmi nel cervello.
Né io né Erika commentammo quanto fosse stato assurdo per un soggetto come me perdere tempo da quella donna.
Così, la vita continuò con il suo solito ritmo mentre i miei figli continuarono a crescere in modo del tutto naturale senza idiozie nella testa.






CAPITOLO QUINTO





Mentre io continuavo a fare il bravo padre e marito, nello stesso tempo non disdegnavo di andare a trovare Margherita una volta ogni quaranta giorni almeno, smentendo quanto mi aveva detto la psicoterapeuta sulla vacuità delle donne quando si trattava di sesso.
Margherita era sempre pronta a fare all’amore con me in qualsiasi periodo del ciclo si trovasse e per lei non valevano le regole delle leonesse.
Molto probabilmente ero un predestinato a piacere alle donne ed in fondo sapevo di essere un privilegiato.
Ma tanti altri ancora, appartenenti al sesso cosiddetto forte, erano come me dei privilegiati ed io ne conoscevo parecchi.
Il più vicino tra questi era però mio figlio Giulano e mi ripetevo spesso che buon sangue non mente.
Aveva voglia Giulano a disinteressarsi dell’altro sesso ma, per quanto si difendesse dall’assalto di frotte di femmine, la nostra casa ne accoglieva tante, tutte libidinose nel cercarlo e pronte nel possederlo.
Diversa era la posizione di Debora.
Lei era ancora una signorina-bambina con tutte le fantasie di quella età ed il suo principe azzurro ero io, suo padre, forte e delicato quando le parlavo, sorridente e protettivo quando la stringevo tra le braccia, sempre pronto nello esaudire qualsiasi suo capriccio ed allo stesso tempo severo quando raramente la rimproveravo.
Debora ragionava soltanto col cuore e la sua anima era candida come la neve appena caduta ma a tutto ciò aggiungeva un piglio di piccola donna cosciente dei pericoli che la potevano stringere in una morsa violenta, come aveva appreso da parecchie amiche coetanee o soltanto di poco più grandi di lei.
Era cosciente di doversi sacrificare per diventare, in futuro, autonoma e con un lavoro, anche se associato a quello della madre, che le desse ogni soddisfazione ma voleva arrivare alla sua meta senza spinte oppure scorciatoie, che facilmente avrebbe potuto ottenere solo se avesse ceduto alle tante lusinghe ed offerte che le piovevano addosso, oppure agli inviti di Erika cui no interessava affatto che si diplomasse in Ragioneria..
Debora poteva accettare unicamente l’aiuto mio, del suo papà, che adorava e che sapeva rispettarla nella sua ancora acerba personalità.
Mai Debora mi avrebbe disilluso e mai, avrei scommesso, mi avrebbe tradito comportandosi in un modo non consono alla sua forte ma dolce natura.
La sensibilità, direi artistica, che mostrava ogni qual volta che osservava le cose belle del mondo mi faceva capire che fosse nata per godere degli alberi e dei fiori, delle vette delle Alpi e dei laghi montuosi, dei bambini e dei loro giochi innocenti, dei vecchi contadini nobili nelle loro fatiche ed ancora dei suoi puledri che personalmente curava e spazzolava.
I nostri discorsi erano sempre improntati al rispetto reciproco e mai mi ero permesso di approfondire o di analizzare il suo cuore riguardo ai sentimenti amorosi oppure alle simpatie che ovviamente anche lei sentiva emergere con l’esplosione della sua giovinezza.
Ma lei non aveva nessun segreto per me e talvolta mi diceva che sarei stato il primo a conoscere ogni emozione che ancora non aveva mai provato per nessun ragazzo.
Mi commuovevo quando ricordavo i momenti in cui la cullavo da piccina e lei mi capiva e talvolta mostrava, con gli occhi lucidi, quanto ancora apprezzasse quei mie spontanei gesti di amore paterno.
Ero veramente importante per la mia piccola signorina e pativo le pene dell’inferno nel pensare se si fosse accorta che tradivo saltuariamente sua madre.
Non sarebbe mai accaduta una tragedia simile. Sarei stato attento e prudente, quasi un agente segreto, ma lei sarebbe rimasta sempre e totalmente fuori di quello che non consideravo un inganno ma un semplice diversivo eseguito, poi, a fin di bene.


Erika avrebbe dovuto ringraziare Margherita per avermi rimesso in sesto, senza che lei pur essendo mia moglie, ne conoscesse il motivo.
Ero ritornato quel Marco appassionato e virile che aveva amato perdutamente da quando mi aveva conosciuto la prima volta, quando mi aveva chiesto aiuto per controllare lo zoccolo del suo purosangue e poi perdonato quando aveva saputo di Laura.
Erika continuava ad essere il mio angelo protettore, dove la febbre incosciente del suo focoso carattere faceva lega con la dolcezza e con la sicurezza, come un’ancora fa del marinaio temerario un essere tranquillo.
Margherita era il demone tentatore che tuttavia mi continuava a dare coraggiosamente tutti gli stimoli della gioventù e senza chiedermi nulla in cambio, almeno fino a quel punto della nostra vita, che scorreva placida e tranquilla appagata soltanto da quelle poche ore di relax psichico e.sessuale di cui lei soprattutto aveva estrema necessità.
Se il mondo non fosse stato diviso dalle innumerevoli religioni,
che proprio in quelle giornate mettevano tutti in angoscia per le guerre che minacciavano il mondo in nome di falsi pregiudizi e di odio cieco con distruzioni di massa e senza pietà, come sarebbe stato bello poter vivere in uno pseudo Paradiso né cristiano e né islamico ed avere tutte le persone vicine ed amarsi liberamente senza gelosie e senza pudore.
Io Marco Ferrin, avvocato di grido, stavo dando i numeri a lotto e non avevo più remore o freni inibitori almeno per quello che concerneva il sesso alla mia età, egoisticamente farneticando, come un anarchico nichilista e poi vergognandomene.
La mia vita era invasa da una mancanza totale di moralità e non erano valse a nulla le esperienze spiacevoli che avevano costellato la mia esistenza, per farmi rinsavire, come se fossi stato colpito dalla nascita da una tremenda deformazione ossessiva compulsiva nei riguardi delle donne tanto che pure Licia, la psicoterapeuta amica di Erika, mi aveva tentato.
Il super bidone della mia esistenza sembrava pronto per esplodere,
e prima o poi ciò sarebbe accaduto, dal momento che non ero stato in grado di dare ordine alla mia vita, sebbene ci avessi provato.


Quanto avevo previsto nel mio sub-cosciente impiegò pochissimo tempo per diventare realtà.
Nell’ultimo incontro con Margherita lei mi era parsa, al contrario del solito, da un lato felice ed esuberante dall’altro triste.
Mi accolse in casa come un principe ma subito dopo, asciutta, mi disse.
- Marco devo comunicarti che sto aspettando un figlio. Non ti devi sentire responsabile del fatto ma per me è importante portare avanti questa gravidanza. Sapessi che bene mi fa sentirmi gia adesso madre e di esserlo per merito tuo, l’uomo che più ho amato da quando avevo soltanto venti anni. -
- Sappi che non ti voglio caricare di nessun peso. A lui penserò soltanto io e nessuno saprà di chi sia figlio. Porterà il mio nome per sempre e la tua famiglia deve ignorare il fatto perchè così desidero.
Facendo un balzo nel tempo sorrise continuando a parlarmi.
- Pensa e consolati che anche Napoleone ebbe un figlio da una polacca e non successe nessuna tragedia! -
Rimasi seduto sulla poltrona di vimini vicina al balcone e mi misi il capo tra le mani, disperato. Tutto puntualmente stava accadendo riguardo ai miei pensieri più pessimistici.
Questa volta l’avevo combinata proprio grossa e non vedevo nessuna via d’uscita al dramma che mi sarebbe capitato con la mia famiglia.
Con Margherita feci la figura di un vigliacco, di un poco di buono, di un essere spregevole e nessuna frase riuscì ad uscire dalla mia bocca.
Ero ammutolito e disperato e pur essendo conscio che qualcosa avrei dovuto dire affermai soltanto con un filo di voce.
- Margherita non giudicarmi stasera, dammi il tempo di rimuginare il daffarsi. Fra una settimana ci incontreremo di nuovo ed allora potrò parlarti senza nessuna ipocrisia. -






CAPITOLO SESTO





Durante quella settimana mi parve che tutto crollasse attorno a me.
Il primo pensiero che mi martellava il cervello non fu quello di Margherita ma una novità che interessava mia figlia.
Aveva deciso di cimentarsi come fantino in una scuderia nella quale era socia Erika, con il suo puledro preferito che aveva inviato a Milano gia da tre mesi per allenarlo, in vista di un debutto che non si presentava facile per la presenza di numerosi purosangue di altre scuderie.
Debora era un ottimo fantino ed il suo affiatamento con “Blue Baby” era perfetto anche se lei non aveva mai corso in una gara altamente competitiva.
Le avevo detto raccomandandomi.
- Non farmi stare in pensiero, piccola mia, i tuoi avversari e non parlo dei cavalli sono persone molto esperte. Tu cerca di non strafare e di accontentarti di fare soltanto esperienza che potrà servirti in seguito se vorrai continuare a correre. -
- Caro papà, tu non conosci che cavallo monterò, che campione in erba è il mio grigio! Io quelli me li mangio tutti e devi avere fede perché quella di martedì sarà la mia prima vittoria a San Siro, il primo successo importante di una lunga serie che mi porterà ai vertici italiani. -
- Ti ha già fatto fare delle ottime figure, se ti ricordi, nelle corse a Varese ed a Grosseto. Ma martedì monterò quello che in primavera vincerà alle Capanelle il Derby Italiano di Galoppo. Farò un boccone dei concorrenti e se vuoi un consiglio puntaci sopra una forte somma come vincente. -
Erika avrebbe accompagnato mia figlia e questo mi tranquillizzava sufficientemente.
Ma il mio diavoletto era talmente imprevedibile che sentivo nel mio cuore che la corsa sarebbe stata durissima anche se tutti affermavano che Blue Baby era un cavallo mansueto seppure molto potente e che tra lui e Debora esisteva un feeling completo e straordinario.
Per farla breve, Debora vinse la corsa combattendo con la grinta di un veterano fino all’ultimo metro ma dopo l’arrivo, a venti metri dal palo, disarcionò Debora per colpa di un addetto alle scuderie che si era introdotto sulla pista prima del tempo.
Nella caduta Debora riportò un trauma distorsivo al ginocchio destro, che l’avrebbe tenuta lontana dalle corse per diversi mesi, tanto che diveniva problematico la sua partecipazione alle corse di primavera.
Corsi a Milano immediatamente, appena fui informato da Erika del malaugurato incidente e soltanto quando rividi Debora sorridente nel lettino della Clinica, tirai un sospiro di sollievo mentre lei esclamava a tutta voce.
- Quanto ti ho fatto guadagnare, papà bello, spero che tu abbia puntato forte perché il totalizzatore ha pagato sessanta, poveri fessi incapaci di capire che la migliore ero io la ragazzina di Treviso…! -
Lo stalliere, causa dell’incidente, ebbe un mese di sospensione ma noi non volemmo infierire su quel poveraccio padre di ben tre figli con la richiesta di danni, felici che non fosse accaduto niente di drammatico alla nostra Debora ed accontentandoci di quanto l’assicurazione avrebbe pagato per l’evento.
Venerdì riportammo Debora a Treviso alla fattoria dove sarebbe rimasta, sotto trattamento di un fisioterapista giapponese per almeno tre mesi.
In pratica Debora non avrebbe potuto frequentare la scuola per un sacco di tempo, ma questo non era un problema dal momento che avrebbe continuato con insegnanti privati.
Il vero problema sarebbe stato tenerla ferma, senza tutti quelli svaghi e senza i suoi cavalli dei quali avrebbe sentito una struggente mancanza.
Le portai un sacco di giornali sportivi ma soprattutto quelli ippici che raccontavano di una ragazzina di sedici anni di Treviso che aveva messo in fila fior di campioni e della quale si intessevano lodi incredibili, anche per noi genitori, che pur conoscevamo le sue non comuni doti.
La sua camera si riempì, in breve, di mazzi di fiori inviati dai suoi amici che facevano a gara per venirla a trovare alla Fattoria.
Ma non solo. Alcuni giornalisti specializzati telefonarono ad Erika per conoscere di più su nostra figlia e per sapere notizie fresche riguardo al momento del suo rientro sulle piste di galoppo e se intendesse diventare la prima guida di alcune tra le più note scuderie.
Era piaciuta la sua grinta ed anche la sua furbizia quando, affiancata dai due favoriti, aveva saputo destreggiarsi dall’imbuto che quelli le avevano teso all’ultima curva prima del rettilineo finale.
Il premio per quella condizionata era stato molto appetitoso tanto che Erika, titolare della scuderia, aveva incassato una cifra che non aveva mai vinto in precedenza.
Così, Debora era divenuta in un attimo famosa ed appetibile per tanti proprietari di purosangue in attesa della sua completa guarigione.
Due giorni dopo, di sabato mi disse, con una punta di orgoglio seminascosto da una malcelata vena di ironia.
- Caro papà te lo avevo detto che sarei diventata qualcuno…se mi lasciavi fare di testa mia. Sarò un po’ matta ma come vedi riesco a farmi valere e non poco. -
Io in particolare straripavo di gioia nel vederla così soddisfatta ed allegra anche se avevo passato un brutto momento alla notizia del suo incidente.
Con Erika la domenica di mattino presto andammo in Chiesa per ringraziare il Signore di avere protetto nostra figlia e di avercela conservata bella e fresca come una rosa appena colta.


Mentre Debora ed Erika facevano gli onori di casa ai tanti amici che approfittando del giorno festivo erano giunti alla Fattoria per rendere omaggio alla nuova campionessa, che seppure infortunata, teneva banco in casa, io approfittai del fatto per fare una corsa a Venezia allo scopo di vedere e parlare a Margherita.
Le avevo promesso che in quella giornata avrei deciso su quel bambino che lei già custodiva nel suo ventre gelosamente.
Tutto quanto era successo in quella settimana, però, non mi aveva permesso di decidere niente e quando giunsi sotto casa della mia amante non sapevo nemmeno lontanamente dove sarei andato a parare con le mie balzane idee.
Salii le scale lentamente senza suonare al campanello del portone che casualmente era aperto.
Attesi un attimo e poi delicatamente bussai con le nocche della mano destra all’uscio di casa.
Margherita, bella come un arcangelo biondo, aprì senza chiedere chi fosse l’inatteso visitatore, pur immaginando che potessi essere io, ansioso e quasi impaurito di entrare.
Tutto intorno era lindo e pulito pure nella semplicità del mobilio che pareva più vecchio di quanto in realtà fosse.
- Tesoro, -sussurrai con voce mortificata, - forse hai letto sui giornali cosa è successo a mia figlia Debora e per questo fatto mi sento fisicamente e psicologicamente distrutto. -
- Non ho ancora fatto mente locale al bambino che tu aspetti e che in ogni caso, ti prometto, proteggerò finchè avrò un filo di vita. -
- Non posso distaccarmi dalla mia famiglia ma voglio, come te, questo nuovo dono di Dio. -
Nel dirle quelle parole sincere e profondamente sentite non potei fare a meno di pensare a quale disgrazia sarei potuto andare incontro se Debora non fosse stata protetta dal suo angelo custode e nello stesso tempo sentii, salirmi dal cuore, una profonda emozione per quell’innocente nell’utero di Margherita che forse, nel mio immaginario, avrebbe già capito di essere un bambino fortunato ed amato per avere una mamma ed un papà che lo avrebbero protetto con tutte le loro forze.
Margherita era troppo intelligente per non capire il dilemma che dovevo affrontare.
Sapeva che incontrandola, per caso, in me era rinato uno strano amore fatto di ricordi e di realtà non rinunciabili ma che anche l’amore che provavo per Erika era bello e sacro, come stupendo era, altrettanto, l’amore che prepotentemente sentivo sia per Debora che per il mio primogenito.
Margherita fu così dolce nei gesti affettuosi che mi rivolse, che non mi vergognai di piangerle addosso e si trattava di lacrime vere e pulite come in quel momento sentivo la mia anima ed il mio cuore.
Mi disse, salutandomi, di andare da Debora che ora aveva bisogno di me ed aggiunse che la sua casa era e sarebbe rimasta sempre anche la mia casa e lei stessa mi avrebbe comunque amato per sempre.






CAPITOLO SETTIMO





A maggio Blue Baby aveva fame di correre seriamente e Debora, ormai guarita e pimpante lo accondiscendeva portandolo a correre sulla pista Derby della fattoria, nella zona meridionale del grande comprensorio, accompagnata dalla femmina baia preferita dal grigio e montata da Erika.
Le mie due donne non mancavano mai all’appuntamento del crepuscolo mattutino, alle cinque e mezzo in punto, da più di un mese.
First Lady iniziava le sedute di allenamento sempre accanto a Blue Baby e solo dopo che il grigio, nella brina del giorno che iniziava ad incalzare il sole sorgente si era scaldata e tonificata la possente muscolatura, partiva al gran galoppo sopravanzandolo di qualche metro.
Erika, su First Lady era una vera maestra in quel gioco e così sollecitava l’orgoglio del maschio che come un fulmine passava a condurre la corsa, reagendo ogni qual volta sotto la spinta di mia moglie la cavalla baia cercava di passare al comando.
Così, Blue Baby percorreva ad altissima velocità gli ultimi duecento metri giungendo al traguardo sempre primo con un distacco minimo di cinque lunghezze.
Soltanto dopo aver fatto defaticare i due puledri per un altro giro di pista, Debora ed Erika scendevano di sella e si abbracciavano contente e soddisfatte.
Era costato un patrimonio iscrivere i due purosangue al Derby di Roma ma Erika lo volle con tutte la sue forze facendo felice la sua amata figliola ed anche me che già sognavo di vederle alzare tra le mani il prestigioso trofeo.
Capivo molto poco di cavalli da corsa ma ero sicuro che quelli allenamenti sarebbero stati incredibilmente utili per il bel grigio di
Debora.


A Roma fummo tutti presenti alla grande competizione, compreso Giuliano pieno di premure per la sorella.
C’erano i migliori puledri di tre anni d’Europa ed anche dalla Germania, Francia e Gran Bretagna erano giunti i rappresentanti delle migliori scuderie.
I bookmaker davano Blue Baby tra gli outsider e la quota era molto appetitosa segnando il tabellone cinquanta a dieci.
Non volli consultarmi con Erika e feci di testa mia puntando sul puledro di mia figlia quasi tutti i risparmi della mia vita di avvocato.
Si trattava di una cifra enorme per me, trecentomila euro, ma me ne sarebbero rimasti altri trecentomila, nel caso di sconfitta del grigio.
Puntai subito al pensiero che dopo la mia puntata la quota sarebbe scesa di molto, ma non fu così.
Blue Baby venne fissato quaranta a dieci il che mi aveva fatto paura riflettendo su quanto poco valessero i miei soldi buttati in un momento di eccessivo amore paterno.
Giurai a me stesso che dopo quella follia non avrei mai più puntato un solo euro su un cavallo.
Ma quando venne il momento della corsa non potei fare a meno di assistere alla gara di Debora e di Erika.
Vidi le casacche di mia moglie e di mia figlia attraverso un binocolo molto potente prima dell’entrata nelle gabbie.
Mi parvero serene ed i cavalli calmi e non sudati, quello di Erika con i paraocchi, Blue Baby mansueto alla briglia di Debora.
Non riuscii a capire nulla della corsa fin quando ai duecento metri finali la cavalla di Erika lasciò il passo al fenomenale grigio di Debora.
L’urlo della folla che assiepava ogni angolo dell’ippodromo mi fece capire che Blue Baby aveva vinto, combattendo come un leone fino all’ultimo centimetro e così avvenne che mia figlia, la mia sbarazzina, divenne alla sua età la prima a vincere il Derby ed io improvvisamente ricchissimo.


Durante i mesi di giugno e luglio Debora partecipò ad altre due corse condizionate che si svolsero in Gran Bretagna riportando altri due clamorosi successi montando sempre il suo Blue Baby, così nello spazio di tre mesi divenne famosa in Europa, mentre un vero codazzo di esperti facevano a gara per portarsela via da me e dalla famiglia con offerte stratosferiche.
A queste offerte rispose sempre picche, sostenuta da Erika che era diventata anche lei molto nota come la madre di quel vulcano di figlia ed anche come la proprietaria sia di Blue Baby ma anche di First Lady che stava velocemente diventando, sotto la sua guida, un altro fenomeno a causa dei piazzamenti a ripetizione che conquistava in numerose corse ostiche e durissime per l’estrema selezione dei cavalli concorrenti.
Sia mia moglie che mia figlia erano diventate, per me, quasi inavvicinabili e la loro assenza da Treviso un fatto praticamente normale dal momento che anche i campi di allenamento si trovavano all’estero.
Ambedue mi mancavano molto.
La loro assenza mi privava non solo dei loro sorrisi e del loro brio ma anche del contatto fisico e della allegria che erano state sempre per me indispensabili.
Soltanto verso la metà di agosto tornarono per una ventina di giorni nella nostra casa, alla Fattoria, con i loro purosangue ormai bisognosi di un giusto riposo.
Debora aveva compiuto diciassette anni proprio qualche giorno prima del suo ritorno ed io le avevo preparato un regalo splendido, una villetta in montagna, colma di verde e fiori, ottimamente arredata e creata da un mio amico architetto nei pressi del lago di Misurina ed a due passi dagli impianti di risalita di Cortina.
Al solito Debora sprizzava felicità e dolcezza per me e non mi lasciava nemmeno un momento attaccandosi come una calamita ovunque mi spostassi.
Un giorno mi fece sdraiare su un prato profumato di fieno, mi si butto addosso e con il cuore in gola mi disse.
- Papà, ci sono un sacco di giovanotti che mi fanno una corte spietata ovunque io vada. Sono molto confusa perché non me la sento di mettermi seriamente con nessuno, anzi mi sono accorta di scansarli anche quando mi piacciono. -
- Specialmente a Londra ho conosciuto dei veri gentiluomini pieni di fascino ed anche piacevoli fisicamente ma nessuno che possa nemmeno lontanamente assomigliarti. Tu ora hai quarantasei anni ma sei sempre il più bello ed il più uomo che io conosca. Se tu non fossi mio padre verrei a letto con te e non me ne importerebbe niente della mamma! -
Rimasi allibito.
Che Debora mi amasse si vedeva a chilometri di distanza ma che avesse potuto pensare una cosa simile, fece male al mio cuore.
Pensai a quanto fossero imprevedibili le figlie ma subito dopo ritenetti che voleva un consenso alla sua grazia e bellezza e che aveva soltanto esagerato, per sondare la mia reazione di gelosia, al pensiero che potesse fare sesso con un altro e sconosciuto uomo.
Era arrivato dunque il momento che Debora stava sfuggendomi di mano e questo era dipeso certamente dal proprio successo personale e dalla vita che conduceva all’Estero anche se in compagnia della madre.
Accarezzai mia figlia e solo in quel momento capii che aveva voluto dirmi che era disposta a tutto per non perdere il mio affetto esagerando come le suggeriva l’anima, colma di un legame indissolubile per suo padre.
Il problema era un altro. Quella ragazza non avrebbe potuto più stare tanto tempo lontana da casa e questo particolare doveva in qualche modo venire a conoscenza di Erika.
Una cosa era correre in Italia qualche corsa importate, un’altra era farle assaggiare il successo internazionale che facilmente l’avrebbero portata via dalle sue radici, lontana dal suo mondo semplice e pulito magari in Giappone oppure negli Emirati ed in America.


Anche Giuliano si trovava nella Fattoria al rientro della madre e della sorella da Londra.
Anzi aveva preparato un Party con gli amici e con le amiche dell’Università non sospettando la sorpresa che Erika e Debora avevano ideato riguardo al loro ritorno del tutto improvviso.
Io, quel giorno, mi trovavo a Venezia a fare compagnia a Margherita che non si era sentita bene per una colica addominale confusa con precoci dolori uterini.
Mancavano più di quattro mesi al parto ed io mi ero raccomandato con lei di avvertimi rapidamente qualora ci fossero state delle novità.
Erano state sufficienti un paio di supposte di Buscopan per riordinare il pancione di Margherita e subito dopo, dopo averla tranquillizzata, ero tornato a Treviso nella sorpresa generale di Giuliano e dei suoi compagni.
Senza pensare cosa mio figlio avesse preparato, non ci pensai due volte ad introdurmi nella sua stanza rimanendo secco alla vista del suo letto dove giacevano nudi, lui stesso, un amico e due prosperose ragazze.
Ebbi la faccia tosta di fare finta di niente ma avvisai Giuliano dell’arrivo in serata sia della sorella che di Erika.
Giulano non era il tipo di farmi certi scherzetti ma quella volta si precipitò a scusarsi con me, pensando che l’avessi salvato dalle reazioni sicuramente aspre delle due donne, che mai avrebbero immaginato che la loro casa si fosse trasformata di colpo in un bordello.
Lasciai correre per il momento giurando a me stesso che, in seguito appena avessi potuto parlare a quattro occhi con mio figlio, mi avrebbe dovuto dare ampie spiegazioni del suo anomalo comportamento che suonava alle mie orecchie come un perfetto tradimento sia nei miei confronti che nei confronti di Erika e di Debora.
In un solo quarto d’ora la casa fu di nuovo in ordine e tutto l’insieme sembrava a posto e perfettamente in ordine come mia moglie e mia figlia l’avevano lasciato.
Sebbene adirato e ferito di quanto Giuliano avesse fatto cercai con tutte le mie forze di resistere alle reazioni impulsive che affioravano in me, per il quieto vivere della mia famiglia.
E quando dopo due ore entrarono in casa Erika e Debora non mi lasciai sfuggire nulla su Giuliano e la sua balorda compagnia.
Giuliano seguendo il mio esempio si comportò molto bene con la mamma ed ancora di più con la sorella tanto che a nessuna delle due passò per la mente che Giuliano fosse così cambiato in tanto breve tempo.
La verità era però che da qualche mese Giuliano aveva fatto lega con alcuni individui che conoscendo le disponibilità economiche della famiglia Ferrin avrebbero volentieri trascinato Giuliano in qualche situazione delicata tale da potergli levare un bel po’ di denaro
Ipotizzavo che le cosiddette amiche lo avrebbero facilmente potuto ricattare dal momento che tutto ciò che avveniva nel suo letto, avrebbe potuto essere filmato dettagliatamente, sputtanandolo agli occhi dei suoi parenti e specialmente mettendo in mezzo sua sorella che era diventata una vera celebrità ed una ragazza cui una cattiva reputazione avrebbe arrecato un gravissimo danno d’immagine ed economico.
Il mio intervento tempestivo aveva per quella volta evitato un possibile scandalo ma solo se Giuliano non fosse ricaduto in una simile tentazione.
Tutto ciò avrei spiegato a mio figlio appena possibile.






CAPITOLO OTTAVO





Quando io e Giuliano fummo finalmente soli, qualche giorno dopo, egli si mostrò perplesso ed adirato per tutti i sospetti che gli avevo accennato riguardo ai suoi amici che tra l’altro non sapevo da dove fossero sbucati tanto repentinamente.
Mi disse al limite dell’educazione.
- Da quando in qua controlli la mia vita privata? Non ti sembra di esagerare con la fantasia sospettando che quei ragazzi vogliano mettermi in mezzo a chissà quale ricatto , quando le ammucchiate oggigiorno sono fenomeni assolutamente normali, almeno per chi ha scelto come ho fatto io, di non avere nessuna ragazza fissa o se vuoi che lo dica nei termini più consoni ai tuoi tempi, nessuna che possa accampare dei diritti anche solo spirituali su di me? -
Poi accortosi di esagerare con i toni della voce, sorrise ed esclamò.
- Ma dai, non credo che tu possa scandalizzarti una volta che mi hai preso in flagrante reato a fare il porcellone con delle donne anche se in verità eravamo in quattro! -
Giuliano da buon rugbista era passato al contrattacco,
- Sono sicuro che ai tuoi tempi ne hai combinato di guai, anche peggio dei miei e che anche mia madre ha portato le corna con disinvoltura…! Non dirmi che sei sempre stato uno stinco di santo perché non ci credo nemmeno se me lo giuri sul Vangelo…! -
Rimasi assai perplesso di conoscere così poco mio figlio. Sapevo che in Facoltà si faceva valere per essere un ottimo studente, ma non immaginavo che oltre allo sport fosse diventato un mangia- femmine eppure lo avrei dovuto pensare dal momento che non c’era giovane donna degna di questo appellativo che non gli facesse la punta, atletico ed espansivo come era, simpatico e belloccio come gli piaceva mostrarsi.
Probabilmente avevo esagerato con le mie deduzioni da avvocato che ne aveva viste di tutti i colori nelle cause civili e penali..
O forse era stata la sorpresa di vederlo diverso, da quanto lo immaginassi, che mi aveva messo in allarme anche perchè c’era mancato un pelo che sua madre e sua sorella non l’avessero visto, invece mia, bello e focoso a letto con un altro uomo giovane come lui e due sospirose fanciulle.
Ci fu un lungo momento di silenzio da parte di entrambi ma poi, usando il suo consueto metodo di appioppare una solenne pacca sulle spalle, chiusi l’argomento dicendogli.
- Ricordati Giuliano che mi devi un favore e sapessi che favore! -


Mentre Erika e Debora pensarono autonomamente che non potevano continuare quella vita irrequieta che da poco avevano iniziato e che avevo ragione io nel consigliarle ad accettare soltanto corse importanti partecipando solo a Gran Premi anche se si svolgessero in Europa ed in qualsiasi Stato europeo ma non in Nazioni al di là degli oceani, ottenni che le mie due donne tornassero a casa dopo ogni corsa allenandosi alla Fattoria come avevano sempre fatto.
Le Condizionate le avrebbero lasciate ad altri cavalli e scuderie facendo così un grosso favore ad altri allenatori mentre meritava continuare a commerciare con i puledri che l’occhio esperto di Erika sapeva riconoscere come campioni in erba.
A dicembre, avevo avuto l’impressione di avere saputo risolvere tutti i problemi della mia famiglia quando Margherita mi avvisò che il momento del parto era giunto alle porte.
Ancora una volta ero stato fortunato perché Erika e Debora si trovavano a Londra per un Gran Premio cui avrebbero partecipato i migliori cavalli d’Europa che si sarebbe svolto nella successiva settimana.
Il ginecologo di Margherita, pur non esistendo nessuna necessità aveva deciso all’ultimo minuto di praticare, considerando l’età della primipara superiore ai quarantatre anni, un cesareo con un minuscolo taglio sovra pubico che non si sarebbe più notato già nell’anno successivo.
Giunsi a casa di Margherita alla Giudecca appena in tempo per salire con lei sul motoscafo che ci avrebbe portato a Piazzale Roma da dove raggiungemmo la Clinica Ostetrica dell’Università di Padova.
Mi meravigliai che il Professor Gino Bernardini non avesse ricoverato Margherita nella sua Clinica privata, come eravamo rimasti d’accordo, portandola invece alla Clinica universitaria.
Mi disse che era meglio così per la bambina che aveva anticipato di circa dieci giorni il momento della nascita.
Arrivammo a Padova in un attimo considerando il traffico sul tratto autostradale e rapidamente Margherita fu portata nel reparto chirurgico dove, mezzora dopo, mise alla luce Francesca, perché così avevamo deciso di chiamare la nascitura, che era nata perfettamente sana e vitale.
Ero rimasto fuori il reparto di chirurgia ginecologia camminando in su ed in giù lungo il corridoio, attendendo l’uscita di Margherita quando improvvisamente mi vidi di fronte mio figlio Giuliano, assegnato per quella notte proprio a quel reparto come studente interno, a mia completa insaputa
Uno stupore incredibile dipinse in un baleno il volto di Giuliano nel vedermi tanto preoccupato e nervoso proprio in quel reparto ginecologico chirurgico dove avrebbe passato tutta la notte.
- Che ci fai qui, papà. -esclamò quando si fu ripreso dalla meraviglia nel vedermi stralunato e quasi stordito, -che forse stai aspettando un figlio, che meravigliosa notizia da raccontare in giro magari alla mamma ed a Debora? -
Rise come per una battuta che gli era venuta improvvisa ma anche ironicamente.
Lo guardai in viso, serissimo e preoccupato.
In quel momento avrei voluto sprofondare al piano di sotto o meglio all’inferno per evitare di rispondergli.
Presi tutto il coraggio, che ancora riuscii a racimolare, con tutte le poche forze che mi erano rimaste e gli parlai accasciandomi sulla sedia metallica di quel corridoio con lui in piedi davanti a me.
Ebbi la sensazione di trovarmi, da morto, di fronte a San Pietro giudicante i defunti per inviarli o in Purgatorio oppure all’Inferno.
Ma chi mi avrebbe dovuto giudicare non era il buon San Pietro ma il mio unico figlio maschio sangue del mio sangue e quindi certamente più severo anche del Padreterno.
In un barlume di onestà ritenetti giusto che il mio Giuliano conoscesse tutta la storia della mia vita scapestrata e così assurda dal principio e così lentamente ma inesorabilmente gli raccontai quanto suo padre fosse e fosse stato un uomo di carta.
Giuliano si sedette a sua volta vicino a me e nel silenzio di quel luogo io, che non mi confessavo da decenni, spiegai a mio figlio tutte le debolezze della mia vita ma soprattutto quanto fossi fragile in tema di donne e che pur amando, con tutto il cuore e l’anima, sua madre non ero riuscito a non tradirla specialmente con quella mia fiamma di gioventù, Margherita, che avrei dovuto sposare tantissimi anni prima.
Gli dissi pure che prima o poi i conti bisogna pagarli e che ora ero disperato perchè Margherita mi aveva dato un’altra figlia di nome Francesca ma al tempo stesso felice per aver pagato il mio conto con lei, che non mi aveva chiesto nulla in cambio del suo amore.
In quel momento non fui in grado di decifrare meglio il mio stato d’animo e mentre Giuliano mi osservava sempre più meravigliato, capii che non mi avrebbe tradito e non perché mi doveva un favore ma soltanto perché il bene che provava per me era infinitamente superiore a qualsiasi critica che avrebbe potuto rivolgermi.
Ci abbracciammo a lungo ed ebbi la sicurezza che mio figlio sarebbe divenuto, da quel momento, il mio migliore amico.


Quando Margherita si svegliò dall’anestesia e le diedero tra le braccia quel piccolo fagottino di Francesca, che le somigliava in tutto e per tutto, sia nella delicatezza dei lineamenti ma anche nei numerosi capelli biondi che parevano appartenere ad una bimba scandinava piuttosto che ad una italiana puro sangue, vide accanto a se me e Giuliano entrambi in camici verdi.
Era molto pallida, più del solito e rivolgendosi a Giuliano chiese con un filo di voce che stentava ad uscirle di bocca.
- Dottore, come sta mia figlia, tutto bene ? -
Giuliano rimase muto per un attimo quindi rispose.
- Signora, sua figlia sta benissimo come del resto lei, ma non ringrazi me ma mio padre e lei stessa. Del resto cosa poteva nascere da voi due se non un essere stupendo! -
- Allora, dottore, lei è il figlio del professore Bernardini, -equivocò, chiedendo a me che le stavo accanto la conferma di quanto aveva appena detto, - dica a suo padre che lo ringrazio tanto per quello che ha fatto per me. Sa, a questa età è quasi un miracolo per una primipara attempata, come dite voi medici, partorire anche se con il cesareo e non avere complicazioni e contemporaneamente creare questo tesoro di figlia. -
Si rivolse a me con tutta la semplicità del tutto infantile che sentiva bruciarle dentro ed attraverso gli occhi cerulei che esprimevano solo felicità, sospirò, senza alcun cenno di timore o pudore di parlare davanti ad un estraneo.
- Non potrò mai ringraziarti abbastanza per avermi resa madre felice, quando quel pensiero si era già cancellato dalla mia mente. E non dimenticarti mai che Francesca ed io ti amiamo e ti ameremo per sempre. -
Giuliano fu preda in quel momento di un duplice sentimento.
Quella bimbetta era sua sorella a tutti gli effetti delle leggi biologiche e morali inequivocabilmente, ma che avrebbero potuto pensare Erika e Debora una volta saputa la verità?
Ed egli stesso come avrebbe dovuto comportarsi, in seguito, quando l’emozione di quel bellissimo evento, che gli aveva fatto conoscere così traumaticamente Margherita, fosse cessato prendendo coscienza che suo padre avrebbe avuto in realtà non una ma due famiglie?
Io ero conscio che potevo fidarmi ciecamente di mio figlio, ma con che faccia avrei potuto chiedergli di mantenere un simile segreto? D’altro canto non era nemmeno giusto che quelle donne non sapessero nulla di quanto avessi combinato durante la mia vita così stranamente legata all’amore che sempre avevo, per lo meno, sentito candido e pulito per il sesso femminile, bello e tanto diverso da quello dei maschi.
Sentivo profondamente dentro di me di non essere un individuo normale come nell’accezione della gente comune, ma cosa potevo fare adesso che il bidone era diventato colmo di una infinita quantità di atteggiamenti e di amori impossibili a reggersi l’uno all’altro e che certamente avrebbero creato un disordine assoluto nella mia vita di “ uomo erotico “ ed allo stesso tempo di marito e padre tradizionalista ed anche in un certo senso puritano?







CAPITOLO NONO





Non fui mai così vicino a mio figlio come per tutto il tempo che accudii con amore la piccola Francesca e Margherita che, dopo la nascita della figlia, era diventate ancora maggiormente cara ai miei occhi.
Con grande meraviglia ebbi il convincimento che Giuliano facesse di tutto per essermi complice e non c’era volta che avessi avuto bisogno del suo aiuto che trovasse qualche scusa per tirarsi indietro.
Andava a casa di Margherita anche senza di me per farle tutte le piccole compere necessarie alla bimbetta, dai pannolini agli omogeneizzati che il pediatra aveva ordinato al compimento del suo terzo mese, nel periodo iniziale del suo divezzamento.
Margherita lo trattava come un figlio e spesso gli diceva che invece che del medico aveva la stoffa del babysitter.
Avevo provveduto, con l’aiuto di Giuliano, a dare il mio cognome alla piccola in un battesimo in cui eravamo soltanto noi, vicini a Francesca,
Benché avessi trovato una Tata referenziata che viveva con Margherita, mi diceva spesso che a quella bambina mancava il calore dei genitori ancora di più da quando Margherita aveva ripreso il suo lavoro all’Ufficio postale.
Io in verità mi comportavo da padre affettuoso ma anche il mio tempo libero era piuttosto scarso tanto che Giuliano mi aveva rimproverato dicendomi che, se lo avessi voluto, avrei potuto diminuire il carico del mio lavoro considerando che mi potevo fidare maggiormente dei miei giovani collaboratori almeno per le cause meno importanti.
Il motivo per cui si fosse tanto affezionato a Margherita non lo avevo ancora capito ma divenne chiaro quando un giorno, tornado in macchina a Treviso con lui mi disse.
- Lo sai perché voglio bene a Margherita? Te lo dico subito : così bella e così dolce non è stata fortunata e mi sembra che adesso sia venuto il momento di raccogliere quanto la vita non le ha dato
Per. quanto mi riguarda farò di tutto per farle passare il resto della vita nella più completa felicità e serenità, la voglio considerare una sorella maggiore molto più sfortunata di me e se si potesse farlo, senza scandalizzare nessuno, te la farei sposare senza che ciò possa minare l’amore che nutri per Erika e per Debora ed il matrimonio come istituzione. -


Giuliano mi si stava manifestando degno della professione che aveva scelto e più passava il tempo, maggiormente capivo il motivo per cui non aveva voluto avere una giovane donna, completamente sua.
Troppo sentimento gli usciva dall’anima in tutte le evenienze giornaliere che lo colpivano da vicino, fossero quelle nell’ambito della medicina oppure del quotidiano tran tran della vita ed avevo anche capito perché, in quel famoso pomeriggio, lo avessi sorpreso nella Fattoria a comportarsi da vero maiale.
Certamente era stato un atto di ribellione nei confronti alla compressione in cui s’era visto schiacciato dalla mia autorità di padre associata alle severe leggi della medicina, intesa come duro “modus vivendi” e palestra del dolore.
Nei miei riguardi capivo di essere stato perdonato per gli strani rapporti con l’altro sesso sempre coniugati con la bellezza ed il sesso, a partire da Laura e poi via dicendo fino ad Erika e Margherita.
Avevo in realtà, da sempre, creduto e ceduto a sentimenti d’amore che mi bollivano nel sangue ed anche a quelli falsamente pseudo romantici, forse pure sublimati dalla mia gioventù ma mai inquadrati in un corretto sviluppo oppure all’altezza di una autodisciplina che non sapevo cosa fosse.
Sentivo bisogno di mettere ordine finalmente nella mia vita ma un vero ordine e non essere più posseduto da rimorsi, che vedevo soltanto come scuse banali, ai miei comportamenti.
Purtroppo non riuscivo a dirimere, quanto in modo distorto, avevo combinato in maniera assurda con Erika e Debora e poi con Margherita e la piccola grande gioia del mio cuore, Francesca.
E fu proprio Giuliano che mi diede l’idea che mi avrebbe potuto liberare da tutto quel peso specie nel momento in cui, a grandi passi, mi stavo avvicinando ai cinquanta anni.


- Papà, -mi disse, quando ormai Francesca aveva compiuto i tre anni ed io avevo fatto il gioco del gatto col topo nei confronti di mia moglie e di Debora per tutto quel lungo periodo di tempo, cieco e sordo agli appelli della mia coscienza e Giuliano era ormai diventato medico a tutti gli effetti di legge, superando anche l’esame di Stato ed iscrivendosi alla specializzazione di Neuro-Psichiatria, -che ne diresti di parlare chiaramente con la mamma e con Debora che si illudono che tu sia un Santo mentre sei un emerito doppiogiochista anche se, per me, possiedi un’anima nobile per quanto concerne il significato che ti piace dare all’amore, inteso ancora adesso in senso infantile adolescenziale? -
-Cosa intendi che faccia, -risposi mentre il cuore mi si apriva alla più grande speranza della mia vita, che poi era quella di unire tutti in una unica grande famiglia, -posso dare un dolore tanto immenso a tua madre e poi anche a Debora che sta finalmente per sposarsi con quel giovane collega associato al mio Studio? -
- Certamente lo devi fare e soprattutto per la tua dignità di uomo e di padre! -Esclamò convinto Giuliano.
- Se conosco bene la mamma non succederà nessuna tragedia e lei ti continuerà ad amare e rispettare proprio per il tuo coraggio! -
Giuliano mi aveva convinto che agire onestamente avrebbe rivalutato la mia figura di uomo, dandole quella maturità che fino a quel momento non avevo avuto né tentato di avere.
Avevo sinceramente amato Debora conducendola per mano nei meandri della vita da quando era diventata quella giovane donna che ci aveva dato tante soddisfazioni, inoltre nemmeno Erika poteva mettere in dubbio quanto fossi legato a lei, creatura eccezionale per intelligenza e dolcissima in tutte le manifestazioni d’affetto e di amore che mi aveva donato da sempre.
E cosa avrebbe potuto criticare di Margherita che mai aveva cercato di spezzare il legame che mi teneva unito alla mia famiglia e che Giuliano ammirava per la fedeltà e la tenerezza che mostrava sia nei confronti di Francesca che suoi?
Dovevo raccontare tutto a mia moglie e conseguentemente anche Debora doveva conoscere chi fosse realmente suo padre.
Avrei agito in quel modo e me ne sarei assunto ogni conseguenza e responsabilità.


Mancava soltanto un mese al matrimonio di Debora con Leonardo, il mio giovane assistente tanto pazzo di mia figlia che per lei aveva rinunciato alla libera docenza nella specializzazione di Diritto Penale, come altrettanto aveva risposto mia figlia lasciando per sempre lo sport attivo dopo avere conquistato in soli quattro anni ogni corona dell’ippica europea nel galoppo.
Ormai Blue Baby era passato a tentare di creare, con tante fattrici diverse, nuovi puledri ed era sempre Erika colei che teneva le fila dell’azienda ippica di Treviso nella Fattoria, continuando a fare ottimi guadagni sempre allegra e felice di quella vita all’aperto.
Era maggio inoltrato quando, in una domenica assolata e calda, riunii tutti i componenti della mia famiglia alla Fattoria, compreso Leonardo che consideravo già un altro mio figlio.
Margherita e Francesca, cresciuta più bionda e più bella che mai tutta timidezza e moine, non erano presenti perché mi era sembrato stolto metterle in imbarazzo anche se Giuliano mi aveva consigliato di invitarle ed egli stesso si sarebbe preso l’incarico di portarle da noi.
La tavola era già imbandita ed il pranzo pronto all’aperto quando aprendo una bottiglia di spumante d’annata presi la parola rivolgendomi in primo luogo a Debora e Leonardo.
- Miei cari promessi sposi, vogliate accettare gli auguri più caldi per il vostro matrimonio. A te Leonardo affido quanto di più caro c’è nella mia vita, mia figlia Debora, augurandovi ogni bene e figli in quantità industriale…ma prima di iniziare a mangiare devo chiedervi un attimo di attenzione. -
- Erika ti amo e ti adoro e ti starò accanto fino alla morte. Tu mi conosci a fondo e sai che ti sto dicendo la verità ma una cosa non sai che ci riguarda da vicino. -
Smisi improvvisamente di parlare guardando con serietà i suoi occhi mentre tutto il viso di mia moglie che si era illuminato precedentemente, in quell’attimo, aveva acquistato una smorfia amara che non si addiceva al suo perenne sorriso tra il faceto e l’ironico.
Con tutto il coraggio che mi era rimasto riuscii a mala pena a fiatare toccandole le mani morbide e forti.
- Ho una figlia di tre anni di nome Francesca e sua madre, una vecchia compagna di Università, si chiama Margherita. -






CAPITOLO DECIMO





Bruscamente, Erika scattò in piedi, prese con ambedue le mani la tovaglia imbandita e con formidabile forza per una donna non certo abituata a non essere sempre padrona dei propri nervi, tirò la tovaglia verso di se e fece a mille pezzi tutto il completo che, con tanto amore, aveva disposto sulla stessa tovaglia.
Soltanto io e Giuliano rimanemmo storditi da quella violenta reazione inaspettata ma tutti gli altri fecero cerchio attorno a lei stringendola in una stretta affettuosa.
Erika era diventata bianca come se fosse morta e si era lasciata andare sul prato semisvenuta.
Anche mia figlia rimase di sasso e contrariamente alla madre si avventò su di me come se mi volesse uccidere.
Urlava il suo disprezzo con grida talmente alte che poteva essere sentita ad un chilometro di distanza.
Non ci fu soltanto una pazzesca confusione ma un caos totale tanto che anche la servitù si era spaventata, quasi fosse scoppiata una bomba a mano.
Giuliano cercava di far riprendere la mamma da quello shock impressionante e solo con fatica riuscì a farla parlare con un filo di voce.
- Mandalo via quel farabutto. Non lo voglio più vedere nemmeno cadavere quell’animale senza cuore e senza dignità, traditore e disonesto, vergogna e disprezzo di questa casa. -
Tremavo come una foglia spinta da un vento freddo mentre non si percepiva un filo di aria i n quella giornata piena di sole, calda e serena.
Cosa avevo combinato quell’unica volta che mi ero comportato onestamente e dignitosamente credendo di salvare in un attimo la mia famiglia e contemporaneamente Margherita e l’altra mia innocente figlia Francesca!
Peggio di quanto fosse accaduto, per essere stato per una volta sincero e credendo di fare il bene di tutti i miei cari, non lo avrei mai creduto. Non ero in condizione di coordinare il mio pensiero né di cercare una minima difesa pur facendo di mestiere l’uomo di legge.
Ed ancora cosa avrei potuto fare di costruttivo dopo avere distrutto in un attimo, quasi trenta anni della vita mia e di mia moglie più quella di Debora che adoravo e per la quale avrei volentieri dato la vita e l’anima?
Nel panico più totale, maledicendo il giorno di essere nato, fuggii come un cane bastonato e senza padrone prendendo la mia Alfa Romeo e correndo come un pazzo verso Venezia, dove almeno c’era ancora qualcuno che non mi avrebbe gettato nell’immondizia come roba infetta.


Io il traditore mi sentivo tradito da chi credevo mi avrebbe considerato una specie di Messia che avesse preso il compito di fare diventare tutti buoni e felici di vivere con me.
Avevo sbagliato ogni atteggiamento ed ogni mia debolezza era stata giudicata non da un tribunale di uomini, cosiddetti normali, ma da quello severo della mia stessa gente, moglie e figlia compresa.
Non riuscivo a capire, se avessi continuato ad essere un soggetto come sempre mi ero comportato, infedele, spergiuro ed egoistico come sarebbe andata a finire la mia vita.
Probabilmente sarei rimasto onorato e rispettato forse glorificato per la nobiltà apparente della mia esistenza.
La falsità sarebbe stata ignorata da tutti meno che da me, ma a quel punto l’onore sarebbe restato immacolato per tutti coloro che non avevano capito niente delle cose che per me erano state sacre e degne di essere vissute.
Mi venne in mente che anche Margherita mi avrebbe disprezzato, a lungo andare e giunto sotto la sua casa, addolorato per dovere perdere anche la mia piccola Francesca, pensai che sarebbe stato meglio scomparire del tutto ed avviarmi verso una nuova strada dove soltanto il Padreterno mi potesse alfine giudicare senza pregiudizi di nessun genere.
Non andai a piangere dal mio biondo arcangelo e come ero giunto in un baleno da lei, ritornai sui miei passi e lasciai quel mondo che non mi aveva capito, dileguandomi nella notte verso un nuovo mondo ancora pieno di sorprese per me.


Viaggiando attraverso la notte, al crepuscolo dell’alba, giunsi in Umbria e bussai stanco ed affranto alla porta di un Convento di frati dalle parti delle colline perugine.
Mi venne ad aprire un giovane frate. Poteva avere l’età di mio figlio. Mi chiese.
- Cosa desideri fratello? -
- Vorrei parlare con il Priore del Convento. -
Mi fece entrare. Un bellissimo orto era disposto intorno all’edificio con tanti alberi, con le foglie fresche della primavera, alcuni colmi di frutta, in particolare ciliegie e pesche.
Più in là una grande statua del santo patrono Francesco sembrò che mi fissasse con aria severa ma bonaria.
Il Priore non mi fece attendere molto. Era di poco più anziano di me e poteva avere cinquantacinque anni.
La lunga tunica marrone arrivava fino ai suoi piedi nudi stretti in sandali dello stesso colore della tunica. Era un uomo meno alto di me, robusto e con un volto nel quale spiccavano due occhi neri attenti e vivaci oltre che una bocca larga dalle labbra carnose.
Mi diede la mano ed il benvenuto nel nome del Signore facendomi entrare nel grande sala da pranzo vuota e linda in quel momento.
Chiamò un altro giovane frate biondo e mi fece portare, senza chiedermi niente, una tazza di latte e del pane fresco.
Soltanto allora mi rivolse la parola.
- Che buon vento ti porta a quest’ora del mattino da noi poveri frati?.-
Nel dirmi queste parole con tanto calore ma banali sorrise ed aggiunse.
- Cosa posso fare per te buonuomo, spero tanto per la tua anima, credo poco per il tuo corpo. -
Ci fu un lungo intermezzo prima che io mi sciogliessi in un pianto pieno di angoscioso timore.
Avrei dovuto dirgli tutto della mia disgraziata vita oppure avrei dovuto solo chiedere ospitalità.
Alla fine optai per il primo punto.
Volevo ottenere il perdono di un uomo e sentivo prepotente in me questa necessità. Non volevo il perdono da Dio, troppo arrogante sarebbe stata una tale richiesta, ma quello di un uomo sì che lo desideravo, ed anche subito dopo quanto avevo combinato nella vita, quasi un crimine contro l’umanità!
Almeno così credevo fosse stato il mio comportamento nei riguardi in particolare di tutte le donne che avevo sinceramente amato e che infine avevo perduto.
Parlai tanto, per ore. Il Priore ascoltò senza interrompermi la mia autocritica con un atteggiamento paterno come se io fossi, invece che un uomo adulto, un ragazzo smarrito.
Gli dissi che non ero stato una persona onesta ma che mai avevo mentito riguardo all’amore che prepotente avevo sentito fin dall’età adolescenziale per la bellezza e la tenerezza dell’altro sesso.
Non avevo mai creduto che il mio modo di agire fosse stato diabolico e che in nessun momento avevo finto o ingannato per ottenere l’amore di quelle giovani donne, che avevo adorato, anche se le contingenze mi avevano costretto, per la mia natura da me non voluta ma ricevuta da madre natura, ad avere rapporti sessuali ed erotici con esse senza badare alle conseguenze ed al domani.
Ero riuscito a vuotare il sacco delle mie responsabilità ma non riuscivo a sentire che un pallido rimorso mentre non mi davo pace per il dolore che avevo distribuito a piene mani alle persone cui volevo maggiormente bene.
Avevo l’impressione di essere impazzito.
Non era stato il volere di Dio né il Suo desiderio se io mi ero comportato deviando dalle regole comunemente dette civili ma forse errate ed anzi probabilmente talmente sbagliate da essere comunemente disattese da uomini e donne,.ma non certo commettendo un sacrilegio.
Proprio io avvocato che così duramente trattavo le cause dei miei clienti non avevo voluto seguire le leggi della Società civile e costruirmi invece una legge personale, comoda ed egoistica ma con l’attenuante di essere stato concepito in quella maniera balorda.
Se si potevano giudicare con uno schema lieve, omosessuali e lesbiche, perché non giudicare con altrettanta benevolenza chi avesse altrimenti avuto nella mente e nel cuore soltanto le donne, creature dello stesso Dio che aveva previsto, nella sua infinita saggezza, anche gli accoppiamenti complementari ai sentimenti amorosi? -


Attesi la sentenza del Priore come se si trattasse di una specie di Corte D’Assise con i giurati popolari pronti a scannarmi.
Il Priore severamente mi supplicò di pregare, sarebbe tornato dopo mezzora per parlarmi.
Mi guardai attorno.
C’erano agli angoli della sala, poverissima di mobilio, dei modesti altarini ma straordinari erano gli affreschi che li adornavano.
Tra questi uno, a sinistra, era illuminato dai primi raggi di sole della giornata.
Ritraeva una Madonna bionda con in braccio il bambino Gesù, tutto raccolto nelle braccia della madre.
Ebbi la sensazione che la Vergine Maria mi guardasse con infinita dolcezza e mi volesse supplicare.
- Marco, -sentii dirmi in una specie di sogno irreale, -cosa mi hai combinato? Ti devi fare un bagno di umiltà ed invece di piangere inutilmente devi agire anche se capisco che non hai quasi più forze e ti senti perduto. -
- A Venezia hai abbandonato una creatura, una bambina, che sarà la sola persona che non ti giudicherà mai un mostro, se tu la proteggerai con tutte le tue residue forze, perché Francesca è un essere innocente e puro come tu avresti voluto essere e purtroppo non sei riuscito a diventare, collezionando errore su errore come avviene facilmente a tutta l’Umanità che si allontana dalle parole di Cristo. -
Nel viso della Vergine vidi un pallido sorriso e tanta sofferenza quasi fosse martirizzata dai mille pensieri di una povera mamma infelice a causa dei propri figli che non l’ascoltano, che si allontanano da lei, che credono di capire da soli quello che sia giusto ed ingiusto, vero o falso, che si arrampicano sugli specchi per giustificarsi in qualsiasi modo.
Ero affranto ma ancora udii, anzi immaginai di udire delle parole.
- Figlio mio, è inutile che tu rimanga in questo luogo come è inutile che tu attenda il perdono del Priore. Solo tu potrai, un giorno perdonarti quando finalmente avrai capito che è la nostra anima unicamente quella che ci dice se qualsiasi forma di perdono lo hai meritato con le tue azioni. Nessuno, all’infuori di te potrà sapere se meriti o meno il perdono quando credi di avere peccato. Ciò comporterà tanti sacrifici e tante umiliazioni ma non devi preoccupartene perché l’uomo è nato per soffrire e per pagare il debito del suo peccato originale facendo soltanto del Bene e quello sarà il tuo premio, proprio il Bene che senza contropartita avrai saputo donare a qualsiasi altra anima. Devi tornare alla tua vita perché tu non sei un Santo e devi vivere lottando e facendo unicamente azioni per cui sei stato creato senza sapere affatto il motivo di questo miracolo. La pace della tua Anima ti dirà se avrai saputo redimerti e non un qualsiasi discorso di un qualsiasi prete.
Torna al tuo lavoro e corri da Francesca. Se farai quanto ti sto cercando di mettere nel cervello e nel cuore non avrai bisogno di altro. -
Ero madido di sudore al ritorno del Priore ma prima ancora che quell’uomo aprisse bocca, dissi.
- Non ha bisogno di dirmi nulla, Ho avuto un colloquio privato con la Madonna e di questo le sarò per sempre grato. -
Subito dopo uscii dal Convento e non più stanco ripresi la mia Alfa Romeo per ritornare nel mio Veneto, per stare accanto alla piccola Francesca ed a Margherita.



 

VETRINA