IL BUCO NERO (Racconto)
IL BUCO NERO
ovvero
IL FATTORE « Q »
(C) ARMANDO ASCATIGNO
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
(da ""FAVOLE DI ESISTENZA DIVERSE")
ROMANZO FANTASCIENTIFICO DI SAGGISTICA NARRATIVA
PRIMA PARTE
CAPITOLO PRIMO
Per me « X Y Z..» a cinque anni, non aveva nessun significato.
Tutto al più poteva essere qualcosa di misterioso, un modo di esprimersi dei
grandi per non farsi capire dai bambini, oppure una formula matematica
algebrica di cui avevo sentito parlare, che quelli delle Medie usavano per
fare colpo sui ragazzini delle elementari considerati una vera nullità e
talmente inferiori da non degnarli nemmeno di uno sguardo, per non farli mai
intromettere nei loro sapienti giochi.
Per un breve periodo lasciai perdere di fare deduzioni inutili e certamente
sbagliate e mi dedicai esclusivamente al primo appuntamento serio della mia
vita, quello di imparare a leggere ed a scrivere mentre, nel tempo libero,
alternavo attività sportive a misura della mia età a momenti dedicati al
pensiero, intenso, continuo, qualche volta invadente ma certamente utile per
formare quel carattere e quella razionalità che poi mi sarei portato a
spasso, come un cieco porta il cane che lo guida, per sempre..
A sei anni avevo capito che quei simboli, a seconda il punto di vista,
potevano significare molte cose diverse.
Da un punto di vista cattolico potevano avere, per esempio, la figura del
Figlio, Del Padre e dello Spirito Santo mentre per gli uomini comuni
avrebbero potuto significare il Lavoro, la Casa e la Famiglia.
Avevo molta confusione in testa perché, dopo poco, avevo chiarito che il loro
principale semplice motivo di esistere era quello della mia famiglia, dove la
X ero io, figlio unico ed inconsistente, la Y mia madre italiana, pia e
cattolica e la Z mio padre, uomo di sinistra oltre che tedesco ed ebreo.
Il difficile era per me capire quale dovesse essere la priorità della
sequenza e quale dovesse essere l’importanza della X in quella stessa
combinazione.
Mi sembrava logico pensare che la cosa meno importante dovesse essere la X
perché questa mi pareva indefinita, nebulosa e difficilmente reale tanto era
confondibile.
Con me c’era poco da sbagliare.
Io ero un figlio maschio e per giunta unico ma se fossi stato una femmina,
come poteva verificarsi che la stessa X potesse applicarsi al maschio oppure
alla femmina, senza che ciò non ingenerasse confusione almeno che il maschio
e la femmina fossero la stessa cosa?
Altrettanto era valido per il Cristo, il Padre e lo Spirito Santo.
Qui il mio pensiero si ingarbugliava ancora di più perché se fossero stati la
stessa cosa, allora, era inutile distinguerli in tre persone.
Sarebbe bastato dire Dio e tutto sarebbe stato semplificato, se invece
fossero state tre cose diverse, perché non eliminare lo Spirito Santo, entità
che pareva essere il cervello e ridurre il tutto al solo Padre eliminando
pure il Cristo Figliolo, che non poteva essere tale dal momento che il Trio
non era una Famiglia, come per esempio la mia, composta da un maschio: il
Padre, da una femmina la Madre, e da un Figlio che poi ero proprio io!
Era molto più semplice la X del lavoro, la Y della casa e la Z della famiglia
dal momento che senza lavoro non si può avere una casa e senza una casa non
si può creare una famiglia.
Fu a quel punto, vedendo che gli esempi potevano diventare infiniti e che
perdevo un sacco di tempo in quelle congetture, che decisi di essere ancora
immaturo per avventurarmi in simili pensieri che probabilmente avrei
affrontato molti anni più tardi.
L’alternativa per me era solo quella di comportarmi, di agire e di avere idee
semplici come milioni di altri bambini da moccioso, privo ancora di un
cervello razionale, anche se avevo compiuto in quei giorni i sette anni.
Alla prima media arrivai che avevo appena dieci anni con molta soddisfazione
da parte mia quando alcuni conoscenti dei miei genitori, gente appartenenti
ai così detti salotti culturali della sinistra democratica, mi dissero.
- Caspita che fortuna, a questa età frequenti già la scuola media, come hai
fatto? -
La domanda era per me assolutamente idiota. Come avevo fatto? Semplicemente
iscrivendomi alle elementari a cinque anni e non era stata farina del mio
sacco.
Mio padre che non aveva voluto che frequentassi l’asilo, discarica – come
affermava seriamente -delle madri impegnate nel lavoro fuori casa, aveva
deciso senza udire per nulla il parere di mia madre, che ormai ero
sufficientemente svezzato per affrontare le elementari anche se io sapevo con
assoluta sicurezza che ne aveva piene le tasche di vedermi sempre tra i piedi
Io, Walter, arrivato a Roma ad un anno, parlavo perfettamente sia l’italiano
che il tedesco. Non avevo molti amici ma piuttosto compagni di scuola, quasi
tutti insignificanti.
Alle “medie”, nella scuola privata tenuta da preti, cambiai improvvisamente
il mio modo di pensare, quando arrivò il momento delle serie e barbose
lezioni di Religione.
Secondo il sacerdote l’Essere Supremo, cui dovevamo tutto, aveva fatto i più
grandi regali possibili all’uomo, donando a questo il più bel posto
dell’Universo.
La nascita, la vita e la morte erano certamente i simboli più importanti per
lui ma la X, la Y e la Z , come ci disse assumendo un atteggiamento serio e
compunto riferito a questo argomento, erano fenomeni variabili, come
schematicamente li avrebbe potuti rappresentare, troppo variabili e grandi
per darne un significato univoco.
Lo avevo già pensato ma, non di meno ora, detto da un prete, il fatto mi fece
proprio incavolare di brutto.
Ma quale regalo variabile, anche se estremo, poteva esserci se già la nascita
era come vincere milioni di euro alla Lotteria con tutti quelli spermatozoi
che facevano a pugni per arrivare all’ovulo e fecondarlo e non era detta
ancora l’ultima parola.
Anche se tutto fosse andato per il verso giusto, quello del nascere, era
proprio impossibile ridurlo ad uno schema matematico cioè alla X della vita.
Era dovuto, secondo me al caso ed alla necessità.
Il caso che l’uomo fosse fertile, provvisto di un esercito di spermatozoi,
uno dei quali fosse più veloce degli altri, più furbo degli altri, più
prepotente ed infine con la testa più dura.
La necessità che l’ovulo fosse più o meno disponibile, al posto giusto e non
troppo schizzinoso oltre che la donna fosse nel periodo adatto per essere
fecondata, mi aveva aperto il cervello e fatto meditare su un altro
importante fattore che governava la nascita.
Questo fattore lo chiamai X 1, la Fortuna, entità bendata tanto vera come era
dimostrato da tutti quelli esseri che nascendo senza la X 1, nella povertà
estrema, tra le malattie e la morte, avendo come piatto forte la fame più
nera o la sete più cupa, avrebbero, se richiesti, rinunciato allegramente al
privilegio della X.
La X 1 faceva capolino in tutta la vita facendo diventare la Y una Y + Y 1,
creando un insieme indissolubile impossibile da dividere.
Ne avevo visti tantissimi di sfortunati anzi di iellati e altrettanti, di
persone con un trentatré spaventoso. Anche gli ebrei come mio padre non
sfuggivano a questa regola e per lui tutto era OK.
L’unica cosa che rimaneva invariabile era la morte, dal significato uguale
per tutti, ma anche quella poteva essere dolce oppure orribile. Così, diedi
pure a questa variabile il segno di Z 1.
Anche quando mi innamorai a dodici anni delle prime ragazzine, le quali
avevano un anno più di me, ebbi modo di ponderare la triade del X Y Z.
In quella occasione mi ero considerato Z.
Cioè Z come Zero, per un motivo lapalissiano, non sapevo scegliere tra la
biondina e la brunetta, tutte e due disponibili nei miei riguardi.
La biondina aveva le gambe lunghe ma il ginocchio valgo tanto che per me
assomigliava ad una bella X, l’altra invece, con un petto prosperoso e la
vita sottile, mi faceva venire in mente la Y.
Perché mi consideravo Zero?
Semplice: io non contavo niente per le due compagne di classe, queste erano
due tipe battagliere e focose in tutto ma specialmente nei miei riguardi,
oggetto delle loro feroci dispute, che fra l’altro mettevano in mostra senza
ritegno anche davanti a me.
Se avessero avuto già le mestruazioni, pensai, si stavano disputando il mio
modesto membro virile come due cerve in amore, ma non era così.
Quando una delle due sembrava avere il sopravvento sull’altra, non venivo mai
interpellato a riguardo perché la vincitrice mi diceva senza nemmeno un po’
di grazia, -vieni, bello, andiamo a fare all’amore! -
Poi quale amore fosse, non riuscivo proprio a vederlo, più di un bacio
verginale non rimediavo mentre io, perlomeno, speravo in qualcosa di più
eccitante.
Lo zero che avevo conosciuto in terza media, tra la X della bionda e la Y
della bruna, mi rimase nella memoria come un chiodo fisso per molti anni
facendomi considerare una perfetta nullità in fatto di donne.
Non c’era niente da fare. Nel gioco dell’amore comandavano sempre loro le
svariate X ed Y che man mano conoscevo, sempre diverse ma anche sempre uguali
nella prepotenza che mostravano e se qualche rara volta la Z si ribellava la
prendevano per una Z omosessuale, bella e buona, indegna di essere nemmeno
frequentata.
Valeva la pena divertirsi con tutte le combinazioni che passavano veloci e
rapidissime in quella scatoletta del mio cervello oppure dovevo fare un
piccolo sforzo per dimenticarmi quanto, con una logica elementare, avevo
partorito a cinque anni?
Non sapevo formulare una precisa risposta ma indubbiamente più in là nella
vita avrei riesumato il problema quando, più maturo, avrei potuto dare alle
mie mille domande risposte serie ed importanti.
Avevo anche considerato la possibilità di buttarmi nella Filosofia, ma non
solo per passare il tempo, piuttosto per diventarne uno studioso serio o semi
serio come tanti altri filosofi importanti che avevo cominciato a studiare al
liceo.
CAPITOLO SECONDO
Passarono diversi anni. Un bel giorno mi dissero che ero maturo avendo
ottenuto il diploma del liceo classico.
Non so ancora adesso cosa intendessero per maturità.
Forse si riferivano ad altri diplomati, non certo a me, che avevo avuto la
sensazione di essermi totalmente rincoglionito con la massa di nozioni che
avevo dovuto incamerare ma che non mi avevano spiegato quanto a me
interessava sapere.
Nemmeno i grandi filosofi dell’umanità mi erano stati del tutto utili.
Qualcosa avevo appreso riguardo all’etica, alla logica, alla estetica ed alle
verità del razionalismo e del materialismo in contrasto con il capitalismo ed
alle mille sfaccettature del cervello raziocinante o del nichilismo
anarcoide.
Mi sembrava di avere rapinato il diploma che mia madre e mio padre avevano
appeso al muro della mia camera.
Sapevo di essere un perfetto ignorante e che anche se avessi scelto, per
l’Università, “Lettere e Filosofia” sarei rimasto tale.
Così, decisi di programmare altrimenti il mio il futuro e di andarmene per il
mondo a toccare verità che a quel epoca ignoravo e che mai avrei conosciuto,
se fossi rimasto a vegetare nel luogo dove risiedevo non prima di essermi
sudata, con le mie sole forze, la Laurea in Medicina e Chirurgia alla
“Sapienza di Roma”.
Durante gli studi universitari, verso la fine di questi, cominciai a
frequentare un collegio di preti missionari che cercavano qualche giovane
medico laico da inviare tra gli uomini dei cinque continenti e ciò avveniva
nel bel mezzo dello scandalo di cui ero divenuto oggetto nei salotti
frequentati dai miei.
Lì ci si domandava, come fosse possibile che il figlio unico di un loro
compagno ex comunista di Rifondazione, ora che il partito della Sinistra
Democratica avrebbe vinto le elezioni politiche, potesse essere così cretino
da mettersi con i missionari cattolici come laico sostenitore
E cosa mi avessero raccontato di miserabile quei pretacci“ baciapile “
riguardo a tutte le loro democratiche discussioni, avvenute con frequenza
bisettimanale nei salotti della sinistra antimperialista americana, dove si
parlava soltanto di socialismo e di sfruttamento del proletariato non ché di
economia non globale e di islamismo, in contrapposizione al capitalismo
massonico e condendo il tutto di negazione del razzismo, cosa questa che
interessava miliardi di persone?
Mia madre soffrendo in silenzio, che poi era la più suscettibile e la più
facilmente condizionabile dalle critiche, aveva risposto ironicamente che con
me non c’era niente da fare dal momento che fino da bambino ero stato un
testardo.
Mio padre invece, dopo aver detto che era certo della mia inequivocabile
idiozia associata ad una cronica demenza, si era messo a blaterare sulle mie
ormai vecchie “X Y Z “ nella grande ilarità generale e così finalmente mi
lasciarono in pace di vivere come avevo programmato.
Dai miei ricchissimi nonni avevo personalmente ereditato una fortuna che i
miei genitori avevano occultato su un conto cifrato in Svizzera e di cui ora
che avevo ventitre anni ed una bella laurea potevo disporne per un terzo a
mio piacimento.
Non avevo dunque bisogno di lavorare né di aiutare chi mi aveva generato,
perché anche loro vivevano di rendita senza pagare un euro di tasse.
Come tutti i loro amici dalle stesse ideologie avevano in casa un paio di
extra comunitari non in regola e senza nemmeno un pezzo miserabile di
documento con un permesso di soggiorno.
Tutti gli altri erano gente che viveva di favori politici nelle prosperose
Aziende Statali del Lazio, sfruttando i meridionali emigrati in quei luoghi
per fame ed andando in giro d’Estate con barche di venti metri, risultanti di
proprietà di Società del sud America oppure del Lussemburgo.
I preti mi accolsero benevolmente.
Erano tutti dei morti di fame e non avevano niente da spartire con la Curia
romana che anzi succhiava loro il sangue come una piattola negli stagni della
Guaiana.
Vivevano di quel poco che riuscivano a racimolare dalla generosità della
povera gente che si privava anche del necessario per l’Opera Missionaria che
il Vaticano non poteva toccare a scanso di qualche scandalo colossale.
C’era un mutuo accordo tra essi ed il Vaticano, tutte le proprietà che le
vecchiette od i vecchietti lasciavano alla Chiesa rimanevano in mano del
Vicariato mentre soltanto il venticinque per cento degli affitti andavano ai
missionari.
Mi chiesero se potevo provvedere da solo, in futuro, per i viaggi e per gli
indumenti ed alla mia risposta affermativa mi benedirono come un neonato al
battesimo con un grande sospiro di sollievo.
Avevano bisogno di un “medico”. Superato l’Esame di Stato, avrei raggiunto
assieme a due preti, uno cinquantenne e l’altro giovane novizio, il Brasile
nei territori della foresta amazzonica.
La Missione era situata ad otre due mila chilometri all’interno della
fittissima foresta ed era
composta da qualche centinaio di persone in maggioranza donne e bambini più
due dozzine di uomini e qualche anziano.
Era situata in una spianata tra gli alberi che intrecciavano i loro rami
fraternamente ed un fiume, largo circa cento metri, l’attraversava da ovest
ad est pieno di canne e torbido fango.
Poche decine di capanne erano disposte a raggiera intorno alla Missione.
Due capannoni più grandi erano i luoghi più frequentati.
Uno di questi era una modesta infermeria mentre l’altro comprendeva una
piccola scuola e la chiesa, per modo di dire, composta da una serie di sedie
e da un tavolaccio che faceva le veci di un altare coperto da un bianco
lenzuolo.
Quando vi entrai per la prima volta, vidi in fondo all’entrata il dipinto di
un uomo del tutto somigliante ad una specie di Cristo con le braccia a croce
e la mani inchiodate ad un grosso albero.
Era somigliante ad uno di quelli uomini che avevo visto di fuori seminudi e
dal volto sofferto dalle privazioni e dalla fatica.
Era comunque un uomo in croce piagato sul torace e con una corona di spine in
testa.
Fu in quel momento che mi ricordai delle mie elucubrazioni mentali di quando
avevo sei anni.
Nel terreno spirituale, riducendo il divino alla mia “X Y Z” con l’errore di
avere eliminato alla fine il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, lasciando
soltanto un Dio indefinito al quale non mi ero permesso di dare nessuna
sigla, avevo fatto l’errore più madornale della mia breve esistenza.
Mi stavo chiedendo lì in Brasile se quel Dio che era rimasto nella mio
pensiero, come un anelito del mio cuore, non fosse per caso il fattore Q che
non avevo considerato da bambino.
Cioè l’Uomo Qualunque con le sue pene, le sue paure, le sue speranze, il suo
coraggio ed il suo amore per quel Universo di cui non riusciva a carpire
l’essenza, a causa della pochezza della propria intelligenza ed insieme e
contemporaneamente a causa dell’immensità e semplicità di ogni cosa che lo
circondava.
Così, sarebbe stato proprio l’Uomo Qualunque quel Dio dalle sembianze di
poveruomo e spesso irrazionale che io avevo cercato affannosamente? Avrebbe
potuto essere così, rinnovandosi di volta in volta nella sua prole e
rimanendo perciò non dico eterno ma, il fattore Q, che sarebbe finito con la
fine della Terra.
CAPITOLO TERZO
Ma chi poteva essere stato il Creatore di tutto,chi avrebbe potuto dare
inizio al Big Bang? Non certo l’uomo che non esisteva all’inizio di tutto!
Ero tornato al punto di partenza senza speranza di dirimere il problema.
Una sola cosa era sicura.
Dovevo aiutarlo, nei limiti delle mie possibilità e delle mie forze, quel
Uomo Qualunque che cominciavo ad ammirare così lontano da tanti altri uomini
che avevo conosciuto nei miei primi venticinque anni di vita, tra falsi ed
ipocriti politicanti ed anomali psicopatici.
Per molti mesi rimasi incantato ad osservare gli uomini e la natura di quello
stupendo paese e più l’osservazione si faceva attenta e meticolosa più mi
sentivo toccato da una grazia e da uno stupore mai provato in precedenza.
Chi mi sorprendeva maggiormente erano i bambini, attaccati alle loro madri
come le liane ai giunchi della foresta, dagli occhi grandi neri e dalla
fragilità simile a quella dei cuccioli delle scimmie oppure a quelli degli
alligatori o degli uccelli in attesa del cibo che puntualmente arrivava loro,
come fosse una legge sacra ma naturale di una qualche forza custodita nei
nuclei delle cellule viventi apportatrici di precise e quasi divine
informazioni che avessero stabilito una scala non scritta di priorità, perché
era la prole, il fattore Q 2, ciò che doveva essere protetta prima di ogni
altra dagli stessi genitori.
La meraviglia dei colori delle farfalle o dei pappagalli era un vero canto
alla vita non sviluppatasi con leggi umane ma spontaneamente, seguendo leggi
biologiche e mutazioni genetiche assolutamente imprevedibili ed
apparentemente causali.
Più era grande il mio stupore più pensavo che tutto ciò fosse non
predestinato da un essere lontano costituito di puro spirito ma da una enorme
concatenazioni di eventi che riconoscevano il principio universale del caso e
della necessità.
Mi stavo avvicinando, ogni giorno che passava, all’ateismo più assoluto e
questo era la mia paura ed il mio segreto maggiore che nascondevo anche ai
miei amici missionari, ma ammiravo sempre più con fortissimo affetto,
illuminati da una fede cattolica enorme ed infinita.
Solo la vita di San Francesco mi calmava e mi faceva comprendere quanto fosse
stato grande quel uomo.
La stessa esistenza storica del figlio del falegname non era paragonabile a
quella del Santo dell’Umbria.
L’uno era certamente stato un grandissimo uomo politico che aveva fatto
dell’amore verso tutti gli uomini, amici o nemici, il suo verbo da cui si era
sviluppato un movimento che mai avrebbe cessato di esistere fino alla fine
dell’umanità, l’altro lo aveva superato perché l’amore si era sparso verso
ogni cosa che sulla terra accadeva, si sviluppava, nasceva o moriva.
Erano passati due anni in quella missione così povera e così ricca di
insegnamenti per me, alla ricerca continua di un motivo per vivere la vita,
senza ipocrisia e nella gioia, che nessuno mi aveva insegnato.
Tutto l’odio che avevo appreso nel mio mondo così detto civile, in primo
luogo da quella gente che i miei genitori avevano e continuavano a
frequentare, mi faceva talmente schifo che avrei preferito non essere nemmeno
nato.
Anche le mie stesse riflessioni, dai cinque anni in su, erano state divelte
con un taglio di bisturi rapido e preciso ed allontanate dal mio conscio.
Avrei voluto saperne di più sull’origine primordiale dell’Universo ma questo
capivo come fosse impossibile.
Forse soltanto la morte me lo avrebbe spiegato ma per quella, pensavo, avrei
dovuto attendere ancora molto tempo, almeno che non avessi deciso di
togliermi la vita irrazionalmente.
Qualche giorno dopo il Capo Missione mi prese in disparte par chiedermi se
avessi avuto piacere di recarmi in Africa, precisamente nel territorio
meridionale del Sudan, dove c’era estremo bisogno di aiuti umanitari.
Quella zona del Paese era martoriata dalla guerra civile ed io avrei dovuto
dare una mano alla Missione che badava a sostenere donne e bambini senza cibo
e colpiti da ogni genere di malattie, come se non fossero state sufficienti i
morti e le mutilazioni che i guerriglieri del nord avevano arrecato a
chiunque non appartenesse al loro credo ideologico e religioso.
Mi ero spesso domandato come fosse possibile, nel nome di un qualsiasi Dio,
uccidere e martoriare chi non la pensasse alla stessa maniera.
Questi chiamavano gli altri “Infedeli”.
Centinaia di migliaia di morti e milioni di feriti e di mutilati avevano
bisogno, gli uni di sepolture, gli altri di un minimo di speranza.
Non sapevo a cosa sarei andato incontro ma accettai l’incarico accodandomi ad
un gruppo di medici “senza Frontiere” che stavano per raggiungerne degli
altri, che già si trovavano sul posto.
Se fosse esistito l’inferno, quel posto sembrava esserne la copia in carta
carbone.
L’infamia di uomini, non degni di questo nome, aveva ridotto quel territorio
ed altra gente della medesima specie ma diversamente educata, alla stessa
stregua di un posto peggiore di quanto avessi potuto mai immaginare pur con
la mia fervida fantasia.
Atroce era vedere dei piccoli negri ridotti senza braccia e senza gambe.
La denutrizione era al massimo grado possibile, con donne solo pelle ed ossa
e bambini con pancioni inverosimili per l’ascite ed il fegato e milza
spappolati
Il volto di questi non aveva più nulla di umano, solo gli occhi spauriti si
intravedevano tra le mosche mentre altri insetti appiccicati sulla loro
pelle, riempivano quella di eruzioni e piaghe, di bubboni ed essudati ematici
orripilanti.
Ero stato, più volte, sul punto di vomitare in mezzo a quei poveri esseri.
Non ero nato medico e soltanto l’ammirazione verso i missionari e verso tutti
coloro che si prodigavano nel non farli morire sporchi e nudi, come bestie al
macello, mi tratteneva in quel posto che rappresentava il peggio del peggio.
Molti mi avevano visto sospirare non spiegandosi il motivo di quel gesto.
Mi ero chiesto innumerevoli volte del perché chi credeva in un Dio, saggio ed
illuminato, non riuscisse a comprendere il motivo di tanta sofferenza, se non
rifugiandosi nel mistero della Fede.
Secondo me era troppo facile parlare di Fede, troppo riduttivo ed anche
troppo menefreghista.
Dicevano che le cose andavano così soltanto per un motivo, che era quello del
passaggio temporaneo dell’umanità sulla terra, nell’attesa che la morte
portasse tutti di nuovo nel mondo di Dio. Diveniva, dunque, la Morte la
maggiore aspirazione dell’uomo
Ma allora perché quel Dio aveva fatto nascere tanta gente senza nemmeno
domandarsi, - e questo era il caso di quella marea di bambini, - se avessero
capito qualche cosa della Vita dal momento che appena nati ritornavano nel
suo grembo?
Non riuscivo a darmi pace, nemmeno una risposta plausibile e non volevo
bestemmiare.
Riflettevo tanto su quel Dio che credevo, vaneggiando, che mi sentisse.
Una volta mi sorpresi a parlare da solo.
- Mio Dio non essere così crudele. Tu che tutto puoi, mandaci addosso un
cataclisma apocalittico piuttosto che questo scempio frutto di odio religioso
oltre che dettato dalla sete del potere, per cui il più forte prende tutto! -
Come potevo io, che non avevo la Fede, credere che quella gente dovesse
essere sacrificata nel nome astratto di una ideologia e di un mercantilismo e
non salvata in nome di un ragionamento elementare?
Gli altri, quelli dall’altra parte delle barricate, poi addirittura erano, se
in buona fede, convinti di conquistare il loro Paradiso uccidendo gli
infedeli.
Tutto mi parve un enorme “bluff”, che trascinava in un gioco d’azzardo
l’Umanità intera.
Anche quel poveruomo del Papa, con le sue preghiere non era ascoltato da
nessuno e specialmente dal Signore.
Aveva voglia di benedire gli infelici, gli oppressi, gli affamati, i
diseredati gli storpi, i ciechi, gli orfani e via dicendo, ma la domanda era
sempre la stessa.
Forse il Signore era distratto da cose più importanti e suo Figlio, forse,
vagava per altri pianeti del cosmo a predicare inutilmente quel Amore che
aveva insegnato più di duemila anni prima, sulla Terra.
Ed il Dio dei mussulmani con il suo profeta Maometto, possibile che non si
commuovesse davanti a quelle mattanze?
Certo Maometto aveva promesso ai suoi fedeli seguaci il Paradiso, ma che bel
Paradiso avrebbe potuto essere, quando quello si basava sulla morte alzata a
dignità eccelsa soprattutto colpendo anche gente del tutto innocente e solo
non mussulmani?
Ero diventato esausto, avvilito, depresso ed anche ateo quando decisi che il
mio posto non poteva essere quello.
Sentivo impellente il bisogno di gridare con tutte le mie forze al mondo
tutto ciò che avevo visto e vissuto.
Salutai i miei amici e dopo qualche giorno fui di nuovo in Europa.
Pensai a lungo dove avrei potuto recarmi per constatare che forse, almeno
nella mia vecchia Europa, ci fosse qualche luogo dove l’Uomo Qualunque avesse
imparato a convivere con altri uomini da fratello a fratello, dividendo il
pane ed il lavoro con giustizia, forte di una unione politica ed economica
che moltissimi avevano considerato di ferro.
L’euro era ormai una realtà ed era alla pari del dollaro.
Chi mai avrebbe potuto dimenticare i nostri minatori morti nelle miniere di
carbone come poveri martiri, per fare del piccolo Belgio una Nazione
industrializzata da capitalisti affamati di denaro e pronti a qualsiasi
infamia per correre dietro alla ricchezza?
Molti di quei minatori anzi la maggioranza erano emigrati da tutta l’Italia,
per trovare lì uno straccio di lavoro più adatto a delle bestie che ad uomini
degni di questo nome.
L’avevo probabilmente trovato in Belgio il mio “Fattore Q “, proprio quel
Uomo Qualunque da me fantasticato vivendo con i missionari.
Vidi con i miei occhi come erano vissuti friulani, veneti, siciliani,
pugliesi , calabresi e tutti gli altri che si erano illusi che lassù, nel
nord, ci fosse più giustizia e più correttezza civile ed impianti, non fatti
per risparmiare su carne da macello, come costoro venivano reputati da quelli
di lingua francese o fiamminga.
Come esseri inferiori, degni soltanto di un pezzo di pane e di casupole
fatiscenti, i nostri emigrati avevano invece insegnato il significato
profondo della famiglia portando a Liegi e dintorni, tra cui la grigia e
povera Ougree, moglie e figli e una novità che i loro ospiti non conoscevano
nemmeno lontanamente, cioè la dignità umana e la cortesia della loro lontana
terra di origine, mista all’affabilità propria dell’Italia tutta ma
specialmente del meridione della penisola.
Riflettei che quanto era successo avesse una grande attenuante per quel
popolo, abituato alla rudezza mascherata da perbenismo dei loro antenati, ma
mi stavo sbagliando.
Uguale era rimasto, dalle Ardenne alle Fiandre, dal Lussemburgo al mare del
Nord, l’astio per della gente temprata e piegata dalla fatica ma che
continuava a parlare la lingua natia.
Solo chi si era adattato. al loro modo di vivere ed aveva imparato
perfettamente la lingua francese nelle loro scuole, era accettato e tra
questi erano riusciti a spuntarla i figli dei nostri emigrati, non solo ma
erano stati capaci di emergere in quella società chiusa e retriva
esclusivamente per merito della propria intelligenza e professionalità.
Ma il Belgio non era niente in confronto all’Olanda che, mascherandosi dietro
ad una libertà assoluta nell’accettazione di omosessuali, drogati e
prostituzione, esibiva i suoi muscoli contro tutti gli altri europei che si
erano recati in quel posto per meritocrazia.
Italiani e tedeschi in primo piano.
Erano avari peggio degli scozzesi, politicanti senza un minimo di buon senso,
avidi ed invidiosi dei successi di tutte le Nazioni europee, piazzando i loro
uomini, chiamiamoli così con un eufemismo, nei posti chiave delle succursali
delle multinazionali che avevano aperto in quei luoghi decine e decine di
Aziende.
Ma che razza di Unione Europea era quella?
Odio e sadismo regnava dovunque. Non un briciolo di cortesia e di giustizia,
sfruttamento totale delle risorse umane specie per gli stranieri, considerati
allo stesso modo di invasori rimasti tali anche dopo formatosi il Parlamento
Europeo e poi la Costituzione Europea.
Leggi diverse, tolleranze e cattiverie assurde, matrimoni tra omosessuali,
legali in Olanda e Francia proibiti in Spagna, Italia, Portogallo eccetera.
Un vero casino!
Come mi sarebbe piaciuto vedere il mio fattore “Q” quel Uomo, strano e
comune, coraggioso e poi
misterioso, soprattutto Qualunque, bacchettare chi si era permesso di
schernire, violentare, alludere, bistrattare e piegare ogni essere umano in
nome di una presunta superiorità di razza!
Al suo posto, il mio fattore “Q” avrebbe insegnato un Amore generalizzato di
tutti verso tutti, come se trovarsi ad Ostenda oppure ad Amsterdam fosse come
a Firenze oppure a Roma o a Catanzaro.
Solo i tedeschi sembravano un tantino più disposti a rispettare gli italiani
ed in particolare i tedeschi di oltre il Reno oppure quelli del sud.
Forse era merito speciale della “Ferrari”- indiscussa invidia della Germania
- , e dell’ingegno italico che però aveva, nel suo seno, un eccezionale e
valido pilota tedesco.
Molti teutonici si erano fatta la casa attorno al lago di Garda ed erano i
primi e più numerosi turisti sui quali l’Italia potesse contare.
La Germania era leale ed il suo popolo affabile ed amichevole.
C’era ancora molto concorrenza tra le industrie delle due Nazioni ma era una
concorrenza pulita e non fatta di colpi bassi ed ero sicuro che il tempo
avrebbe fatto ancora di meglio.
Comunque avevo capito che la gente europea e di ogni angolo del Continente
non pensava o non voleva pensare di essere”Un Unico Popolo” e che la
razionalità era di pochi singoli, come del resto non poteva esserci un minimo
comune denominatore.
Troppe beghe antiche erano presenti nel Cervello degli uomini di Potere ed
ancora chissà quanto avrebbe dovuto attendere la gente per avere uno scopo
univoco e conduttore che conducesse verso la saggezza e la verità.
Di nuovo mi si era riaffacciato nella mente il tremendo dubbio che la fine
autoctona del pianeta avrebbe preceduto l’ordine del pensare, dell’amare e
della spiegazione non religiosa della vita.
L’Unione Europea si sarebbe allargata ai paesi dell’Est, la Gran Bretagna
sarebbe rimasta a guardare, Portogallo e Spagna avrebbero rivissuto forse
l’epoca del fanatismo religioso e fuori dall’Europa, nel vicino e medio
Oriente ci sarebbe stato chi avrebbe opposto l’odio ad ogni tentativo di vera
fratellanza e nemmeno un mago di quelli a 24 carati avrebbe saputo da che
punto iniziare per insegnare a tutti l’Amore e la Fratellanza , al posto
dell’Odio e della Morte.
Da quelle parti esisteva l’inizio e la fine di tutto il mio alfabeto che
avevo imparato a cinque anni.
Altro che la X Y Z di vecchia memoria.
Chissà se stava arrivando veramente il momento dell’Apocalisse .
Certo che una cosa era chiara, lampante, inequivocabile e sicura: le guerre,
l’avessero chiamate sante oppure in qualsiasi altro modo, sarebbero state la
“causa della fine” di tutto e questa si stava avvicinando velocemente.
CAPITOLO QUARTO
Chi sarebbe stato il responsabile maggiore della fine dell’Homo Sapiens era
cosa impossibile da chiarire. Ma era chiaro come tutti, uomini e donne,
vecchi e ragazzini, fossero bestialmente incazzati e che prima o poi sarebbe
successo il Finimondo.
Mi ero chiesto, durante la mia complicata esistenza, un’infinità di volte se
fosse stato possibile, razionalmente parlando, stabilire chi fossero stati i
principali e veri colpevoli dello sfascio dell’Umanità e questo già dal primo
apparire dell’uomo sulla Terra.
Mettiamo che sia veritiera la favola di Adamo ed Eva.
Da una costola di Adamo era nata la prima donna, dal furto di una mela il
peccato originale con il contributo di un serpente.
Cacciati dal Paradiso Terrestre iniziarono i guai.
Caino ed Abele fratelli, diventarono il primo, assassino ed il secondo,
vittima dell’odio.
Fortunatamente i fatti non procedettero in questa maniera, anzi, ci
raccontano gli studiosi di Antropologia, che acquisita la stazione eretta e
verticalizzata la laringe i primi uomini impararono ad emettere parole dalla
bocca e prima di ogni altra cosa si unirono a gruppi per proteggersi,
scaldarsi l’uno all’altro, organizzarsi in caverne ed imparare a cacciare per
nutrirsi.
Certamente, come le bestie, anche tra loro si stabilì una gerarchia con un
capo branco, con un territorio da difendere, con le donne che partorivano ed
allattavano i propri figli, con i giovani che anelavano a prendere il posto
dei più anziani, con i più forti che sottomettevano altri uomini.
Era la lotta per l’esistenza, contro le intemperie, contro la fame, dove
soltanto chi modificava più velocemente degli altri i propri geni cromosomici
aveva qualche speranza di sopravvivere.
Anche i loro cervelli presero a svilupparsi ed in special modo i lobi
frontali e parietali.
Iniziarono a fare scoperte essenziali.
Il fuoco, la ruota, gli utensili - prima di pietra e poi di metalli e leghe
metalliche-.
Impararono a dialogare, ad incidere figure familiari e poi a scrivere per
raccontare ai posteri le cose fatte e le idee che li motivavano.
Uccidevano, amavano e cominciarono a credere in qualcosa che fosse stata
tanto potente da poter avere creato quello che per loro era l’Universo.
Razze e Tribù presero il sopravvento su altre, conquistando nuove terre
fertili e spazi immensi.
Alcuni uomini non solo decisero il destino di altri ma inventarono pure le
Divinità, i Super Eroi, i Profeti, la Filosofia, la Morale, il Materialismo,
il Politeismo ed il Monoteismo.
Poi subentrò l’Egemonia di un Dio su un altro oppure l’Impossibilità
dell’Uomo di giungere alla Verità sulla propria Esistenza.
Prendiamo per primi gli Egizi.
Il loro territorio era immenso, caldo, irrorato da un fiume enorme.
L’agricoltura fioriva a causa delle inondazioni e delle tracimazioni
periodiche del Nilo che rendeva la terra fertilissima e quindi per
l’abbondanza di frumento, primissima fonte di cibo.
Avevano incarnato nel Faraone il loro Dio ma oltre a quello, c’erano la luna
, il sole, gli astri, le costellazioni di stelle che, nel loro Politeismo,
era il Mistero Potente capace di proteggerli da ogni pericolo e di aiutarli
in ogni impresa.
Gli Egiziani avevano sottomesso molti popoli ma nessuno di essi aveva un Capo
che potesse preoccuparli, oppure che fosse così intelligente o che avesse un
carisma tale da dominarli.
Soltanto Mosè, salvato dalle acque e dal sangue ebraico, incarnò al valore ed
al coraggio una superiore spiritualità morale.
Educato alla Scuola dei Faraoni seppe unire ( come riferisce la leggenda ) il
popolo israeliano e portarlo, separando le acque del mar Rosso, con l’aiuto
di un Dio Unico, Etereo, Severo e Giusto, alla Terra Promessa e cioè in
Palestina.
Gli ebrei divennero allora il vero Popolo Eletto con nuove leggi, Profeti e
Regole con cui avrebbero dominato il mondo.
Tra essi nacque, mentre l’ Impero Romano si spandeva lungo tutta la Terra
allora conosciuta, Emanuele, figlio di Giuseppe- un povero falegname,
promesso e poi sposo di Maria che venne messa incinta, vergine - prima del
matrimonio- dallo Spirito Santo.
Dice il Vangelo secondo Matteo che a Giuseppe la notizia venne data
dall’arcangelo Gabriele.
La legge ebraica aveva fino allora stabilito che ogni donna, promessa o
sposata, doveva essere lapidata se prima o dopo il matrimonio avesse
concepito un figlio non del proprio uomo.
Conoscendo tale legge e saputo il fatto Giuseppe, che sarebbe diventato padre
pochi mesi dopo, si appellò ad una regola ebraica più comprensiva.
“ Non era necessario lapidarla se quella donna fosse stata ripresa dalla
propria famiglia o se il promesso sposo o lo sposo avesse accettato di
dichiararsi il vero padre del nascituro”.
Così fu.
Maria non solo non venne lapidata ma da quel momento divenne la Santa Vergine
Maria madre di Dio.
Il Cristo, Gesù Emanuele, era davvero un uomo assai saggio, colto, dai
sentimenti profondi, amorevole con tutto il genere umano.
Il più grande uomo mai partorito da una donna e la sua breve vita non fu
altro che l’insegnamento dell’Amore verso ogni essere vivente ed anche nei
riguardi dei più accaniti e crudeli nemici.
Il suo Credo era potenzialmente ed inequivocabilmente ciò che ogni uomo
avrebbe voluto udire dalla nascita e farlo proprio.
Tante erano le parabole sulla sua vita ma Lui non lasciò nulla in iscritto
dando il compito della diffusione del suo Verbo, su tutta la terra ed in ogni
angolo anche remoto, ai suoi seguaci.
Furono gli Apostoli ed i loro seguaci coloro che riuscirono, soltanto con i
loro racconti, a penetrare nel cuore degli uomini di allora tanto che pure i
Romani ne furono conquistati.
Ma nemmeno il Cristo, con la sua orribile morte decretata dagli uomini del
suo stesso sangue, riuscì a creare quella Chiesa amorevole cui tanto teneva e
non certo per colpa propria ma di tutti quelli altri uomini, ad eccezione dei
primi, che gli avevano promesso e giurato che le sue parole avrebbero saputo
fare rinsavire il genere umano.
I vari Papi, nei secoli a seguire, pensarono molto maggiormente al loro
potere temporale piuttosto che alla Missione spirituale cui avevano giurato
estrema fedeltà.
Per tutto il Medio Evo e poi anche nel Rinascimento, essi si comportarono con
un egoismo sfrenato, vissero nella ricchezza, furono lussuriosi e falsi e
dimenticarono completamente le regole principali del Cristianesimo in poche
parole, “amare gli altri come se stessi “, “non fare agli altri ciò che non
vorresti che fosse fatto a te”, “ vivere nella povertà più assoluta “.
Unicamente il Santo di Assisi, figlio di un commerciante, Francesco ebbe il
coraggio e la forza d’animo, l’umiltà e l’amore che il Cristo desiderava per
ogni uomo.
Le conseguenze di questo palpabile caos furono l’Odio e la Vendetta. La morte
e l’assassinio divennero una abitudine, il Credo, di milioni e milioni di
appartenenti alla specie umana.
Palestinesi ed Ebrei, Mussulmani e Cattolici, Protestanti e Induisti, Atei e
Comunisti, Neo Nazisti e Social Fascisti, Imperialisti e Massoni, Anarchici e
Plutocrati, Assassini di professione ed Affamatori di popoli inermi, sempre
ligi ai loro interessi socio economici, prima lentamente, poi sempre più
velocemente non soltanto iniziarono a combattersi ed ad uccidersi ma
continuarono con la massima indifferenza a lottare per avere il totale
sopravvento gli uni sugli altri e per avere il dominio religioso su tutti.
A parte gli insegnamenti di Cristo e di San Francesco, nei quali le uniche
cose che contavano erano l’amore per tutto quanto avesse avuto il dono della
vita e le sfide per allontanare il male dal mondo, avevo quasi deciso di
rinunciare a scervellarmi, su come si potesse elaborare una pratica teoria
per mettere in ordine- se non ogni cosa- almeno in parte tutto quanto
portasse all’odio, quando inaspettatamente ebbi l’occasione di avvicinarmi ed
analizzare le opinioni di Oriana Fallaci e quelle di colui, nato a Misurata
in Libia, che nella seconda fase della propria vita aveva totalmente mutato
il proprio atteggiamento con l’Occidente: Gheddafi.
Mi chiesi se in fondo le tesi della famosissima giornalista e quelle
originali dell’uomo del Deserto fossero poi così all’antitesi.
Analizzando attentamente il problema mi accorsi che, due individualità così
diverse e lontane tra loro, potessero avere ragione su più di un punto ed una
logica comune.
La prima, alfiere senza timori e con fermezza dell’Occidente, affermava con
autorità ed acrimonia le colpe dell’Europa in particolare attaccando la
Francia, la Germania ecc, incapaci di mantenere alta e difendere l’etica,
l’educazione, la storia e la tradizione del proprio mondo, fonte di studi,
dell’arte e delle ricerche innovative e di una assoluta superiorità
intellettuale ma con una unica grande colpa : un odio cieco e senza
attenuanti nei riguardi di coloro che avevano avuto la presunzione di mettere
sulla bilancia il senso morale e la democrazia della sua Patria acquisita e
cioè quella degli Usa.
Anche se c’era nella Fallaci il rifiuto di abdicare, per gli Usa, al diritto
ed al dovere- secondo lei- di unica SUPER- POTENZA non rinnegando la guerra
come fattore determinante, nel profondo della sua mente e del suo cuore,
capiva che nulla e nessuno avrebbero risolto una lotta armata dalle
caratteristiche Apocalittiche su questioni morali e religiose.
Il secondo, completamente mutato da quel essere abulico ed indigesto che era
stato fino a qualche anno prima, che perorava la necessità di unire sotto una
unica bandiera la guerra al Terrorismo e lo sviluppo di una Democrazia che
nulla aveva a che fare con il Comunismo ex sovietico ma che doveva originare
dallo stesso popolo, come in pratica ( se il fatto era vero ) ormai da anni
avveniva col popolo libico.
Anche la situazione caotica nel medio Oriente, sarebbe mutata se il popolo
palestinese ed ebraico si fossero fusi in una medesima Nazione e se fossero
riusciti a vivere in pace come fratelli ed amici.
Egli non si considerava, ormai da qualche decennio, un Dittatore ma
l’espressione democratica di tutti i libici e desiderava l’amicizia e la
collaborazione con ogni popolo europeo e con quello americano.
Nessuno in Libia apparteneva a frange estremistiche e lo stesso Islam non
aveva nulla a che fare col Terrorismo brutale e lontano mille miglia dagli
insegnamenti del profeta Maometto.
CAPITOLO QUINTO
Quindi, se personalità così distanti per cultura, religione, convinzioni
politiche ed educazione tradizionale, potevano trovare un minimo comune
denominatore per giungere a qualche accordo allo scopo di migliorare le
prospettive future del pianeta, era chiaro che ci fossero ancora spazi per
discutere serenamente tra uomini di buona volontà.
Un fondo egoistico si poteva intravedere in Gheddafi.
L’Europa a due passi altamente industrializzata poteva, con l’aiuto del
leader libico e senza preclusioni americane, divenire a sua volta una Nazione
il cui futuro avrebbe potuto essere di grande apertura politica con enormi
prospettive di sviluppo economico per le masse popolari.
Un consiglio, in particolare, sembrava specialmente ponderato.
Tra i Paesi islamici moderati come ad esempio la Giordania, l’Egitto, la
Tunisia e via dicendo non poteva però essere inclusa la Turchia.
Secondo il parere della Libia, l’Unione Europea avrebbe dovuto mettere il
veto sull’entrata della Turchia nella Comunità.
Per il leader libico ciò sarebbe stato di importanza vitale.
La Turchia in Europa sarebbe stata “il cavallo di Troia” per islamizzare
completamente l’Occidente.
Non c’era da fidarsi di quello Stato anche se al momento poteva sembrare un
grave errore distaccarsi da un Governo apparentemente moderato e con un
Governo amico sulla carta degli americani, pur essendo profondamente
islamico.
La Turchia possedeva nel suo DNA troppi rancori nei riguardi dell’Europa e
poi che dire dei Curdi, disposti ad una guerra sanguinosa, pur di creare un
proprio Stato indipendente?
Era assolutamente meglio non rischiare e lasciare i turchi al loro destino.
La giornalista italo americana, dal canto suo, la pensava in modo diverso ma
con qualche affinità.
Quella che era stata l’inviata di guerra più importante dal Vietnam in poi,
ormai serrata nella sua fortezza in Manhattan oppure in ville ed appartamenti
sparsi per il mondo, tra cui la tenuta in Toscana dove aveva vissuto
l’infanzia, forse non poteva far altro che odiare ogni uomo che cercasse di
rovinarle il futuro e la comoda vita frutto del suo ingegno e dei milioni di
dollari accumulati con i diritti d’autore.
Era chiaro che gli USA fossero stati messi sotto scacco da un Terrorismo
atroce e crudele e che, con la scusa di una Guerra Santa contro gli infedeli,
quest’ultimo avrebbe potuto causare ben altre stragi tali che quella dell’11
settembre sarebbe parsa ai posteri- se ci fossero stati- una piccola inezia.
Da qui un offuscamento della propria capacità di analisi obbiettiva che non
riusciva a valutare, infine, la verità di tutto quanto stava e sarebbe, in
maniera ben più crudele, avvenuto sulla Terra.
Il concetto della Vita e della Morte ormai non aveva quasi senso.
La pazzia dell’uomo, condannato a porsi quale obbiettivo delle armi che altri
uomini costruivano con sagacia e con perfezione demoniaca, le stragi del
Vietnam con le bombe ad altissimo potenziale, i morti ed i feriti gravissimi,
amputati oppure divenuti cerebrolesi, le trappole mortali dei VietCong, i
bambini sventrati e le femmine violentate, le risaie in fiamme, la fame ed i
vecchi impotenti, parevano ora ad Oriana fatti di altri secoli.
Aveva scritto e vissuto momenti drammatici e tragici anche più tardi, dalla
orripilante guerra tra l’Iran e l’Iraq in cui erano morti milioni di giovani,
saltati sulle mine ed uccisi, in prima linea, per ordine dei rispettivi
governi capitanati da sciiti e sunniti in una sorta di falso conflitto che di
religioso non aveva nulla ma per l’egemonia sul petrolio, ben più importante
di qualsiasi setta mussulmana.
Aveva intervistato l’Ayatollah Khomeini, aveva cercato di capire ogni
motivazione di quello che sarebbe diventato un massacro durato oltre dieci
anni, aveva cercato in Yasser Arafat l’uomo sul quale potersi fidare per
uscire dal conflitto tra israeliani e palestinesi.
Tutto fu invano mentre i conflitti e le morti si sviluppavano a macchia
d’olio dalla Bosnia alla Serbia, dalla Slovenia alla Croazia, dall’Albania al
Kossovo e poi in Afganistan sotto il regime dei talebani.
La caduta del Muro di Berlino, l’apertura alla democrazia di tutti o quasi i
Paesi dell’Est europeo, Russia compresa, la scelta economica capitalistica
della Cina, avevano acceso improvvisamente una grande speranza di pace
universale.
L’Unione europea, prima sotto l’insegna economica dell’euro, poi con il suo
Parlamento pareva poter sviluppare una enorme potenza, seconda solo a quella
degli Stati Uniti d’America.
Poi venne il momento della” guerra preventiva “contro l’Iraq.
L’odiato nemico di Bush padre, Sadam Hussein, fu preso di mira da George W.
Bush.
Ne aveva combinati di guai il Dittatore dell’Iraq.
A parte il massacro delle popolazioni sunnite di origine curda del nord, ad
un passo dalla Turchia con i gas nervini, la vita miserabile dei propri
sudditi, la mancanza di farmaci negli Ospedali, la moria anche per
denutrizione dei bambini, l’inesistenza di acquedotti con acque potabili e
quella di un qualsiasi lavoro degno di questo nome, l’ostentazione della
personale ricchezza faraonica con le decine di residenze lussuose simili a
regge, gli assassini di qualsiasi sospetto traditore compresi i membri della
propria famiglia, Sadam Hussein - la famosa pistola fumante -venne accusato
dalla Presidenza americana di essere legato all’Organizzazione Terroristica
di Al- Qaeda ed a Bin Laden e di fabbricare armi chimiche e batteriologice,
quale “causa belli”.
In verità, l’unico misfatto che l’uomo di Bagdad non aveva compiuto era stato
proprio quest’ultimo.
George W. Bush, consigliato dai falchi della sua Amministrazione, rifiutò i
consigli dell’ONU di non attaccare l’Iraq senza nessuna prova certa e così
quella che doveva essere una guerra lampo per esportare la Democrazia nel
Medio Oriente, divenne la causa peggiore di un Terrorismo di fronte al quale
soltanto quello di Osama Bin Laden a New York poteva essere paragonato.
Durante l’occupazione dell’Iraq, nell’attesa di nuove elezioni politiche,
oltre mille e cinquecento marines americani e decine di soldati inglesi ed
italiani vennero uccisi.
Il Terrorismo Internazionale trovò modo di farsi conoscere giornalmente con
le auto-bombe portate sui bersagli da fanatici islamici Kamikaze provenienti
da tutto il mondo arabo.
Decine di migliaia di iracheni, gente comune oppure inserite nella nuova
Polizia locale morirono.
Vennero decapitati giornalisti ed uomini d’affari oltre che individui di
religione non islamica e mentre tutto ciò succedeva in Iraq, in Arabia
Saudita ed ai confini, in particolare in Palestina, mentre ancora era in vita
Arafat, gli assassini di ebrei e di palestinesi, anche quelli Kamikaze,
avevano portato ad un bollettino di morte giornaliero oltre che atroce anche
crudelissimo.
L’Europa si era quasi totalmente defilata, in particolare la Francia e la
Germania ed in un secondo tempo la Spagna.
Ognuno badava a se stesso pensando di evitare stragi e morti ma questo
rappresentava il più grave errore che l’Europa potesse fare.
L’antiamericanismo imperversava dovunque, per le pretese assurde
dell’Amministrazione americana di volere imporre una pace senza tenere conto
delle differenze di razze e religioni, di credenze illogiche e di costumi
assolutamente non idonei a convivere.
Ancora non era scoppiata una guerra atomica ma secondo me, se gli uomini non
avessero deciso- non dico di amarsi tra loro ma almeno di discutere su come
uscire da tutto questo estremo caos, il tempo che rimaneva a disposizione era
davvero pochissimo
Fu in quel momento che decisi di fare sentire al mondo il mio pensiero.
Non si trattava dell’uovo di Colombo bensì di un concetto dalla presa sicura
su ogni uomo dotato di un minimo di intelligenza.
Colui che mi aveva dato l’idea era stata la filosofia e la tempra del Mahatma
Gandhi più santo che uomo.
Egli si era trovato in una situazione assai simile a quella che divideva nel
momento contemporaneo, il mondo islamico da quello cristiano ed ebraico.
Meno di un terzo della popolazione dell’India si dichiarava mussulmana, tutti
gli altri indù, ad eccezione di una minoranza buddista e di animisti.
C’erano pure sparuti gruppi di cristiani, di giainisti, di sikh, di parsi e
di ebrei.
Il problema dell’Indipendenza dell’India dal dominio britannico aveva fatto
sospettare che Gandhi fosse nient’altro che un comunista non violento ma
nulla era più falso di questa propaganda.
La differenza fondamentale tra Gandhi e Marx risiedeva nella loro rispettiva
concezione della vita e dell’universo.
Fu questa differenza che divenne fondamentale per l’India, non scavalcata a
sinistra come avrebbero voluto molti giovani indù, per merito soprattutto
anche di Motilal Nehru, per costruire dell’India una Nazione libera senza più
chiedere l’Indipendenza, al momento, fuori del Commonwealth.
Ma il fatto che Gandhi dicesse “Voglio molto di più dell’indipendenza “, fece
capire al mondo intero cosa intendesse il Mahatma per Dominion.
Doveva terminare lo sfruttamento inglese, dovevano liberare gli indiani dalla
estrema povertà sofferta da sempre, dovevano non tassare mai più il sale,
dare all’Unione Indiana la dignità di Stato, rispettare il Congresso eletto
dal popolo, dare lustro alla disobbedienza non violenta.
Il distacco dall’India del Pakistan diviso in un Pakistan Occidentale ed uno
Orientale fu, nel seguito della storia, un duro prezzo da pagare agli inglesi
per l’Indipendenza Assoluta.
Tuttavia i mussulmani pakistani, pur avendo contato centinaia di migliaia di
morti a causa delle lotte civili, delle stragi e dei massacri durante le loro
gigantesche migrazioni, (anche se l’Indipendenza dell’India ottenuta senza
fare appello alle armi, non solo per le incomprensioni religiose ma anche per
le questioni politiche di vecchia data- legate ai “collegi separati” voluti
dagli inglesi in modo che il Congresso, così, fosse ben distinto tra forze
indù e mussulmane) , furono felici al contrario di Gandhi, di essere fuori da
uno Stato che non li rappresentava.
Quando il 15 agosto 1947 sorsero da un lato l’Unione Indiana e dall’altro il
Pakistan, Gandhi non solo non partecipò ai festeggiamenti ma passò quel
giorno ospite di un suo amico mussulmano di Calcutta.
Negli anni in cui il Mahatma fu rinchiuso nelle galere di Sua Maestà, egli
divideva le sue giornate studiando il Corano ed il Cristianesimo oltre a
tessere stuoie con una vecchia ronca, come aveva imparato da bambino.
Vinta la seconda guerra mondiale, i laburisti inglesi con Attlee presero il
Governo e furono proprio i milioni di laburisti, tradizionalmente favorevoli
all’emancipazione dell’India, coloro cui si dovette la definitiva creazione
del Pakistan, verso il quale le minoranze mussulmane emigrarono con più di
sei milioni di profughi e lasciando sul terreno oltre ai morti anche odio e
terrore.
La fine del grande pensatore e filosofo, del politico rispettato da amici e
nemici si avvicinava alla sua conclusione non più con i suoi numerosi
digiuni, né per mano di un qualsiasi mussulmano che egli amava come amava gli
indù, i cristiani e gli ebrei ma per la mano omicida di un estremista indù
verso il quale giunse il perdono all’ultimo istante della vita ed il nome di
Rama, uno dei molti nomi che nell’induismo viene chiamato Dio.
Il Mahatma era stato grandissimo uomo ed a lui non era servito l’uso delle
armi per sistemare più di un miliardo di uomini.
Io, nella mia megalomania, avrei sistemato tutto il genere umano.
CAPITOLO SESTO
Pensai a lungo cosa potessi fare di veramente positivo per l’Umanità, come
riuscire nel progetto di spandere amore e fratellanza tra i popoli, come
ottenere il risultato di fare odiare a tutta la gente del mondo le guerre e
le conseguenze terroristiche che a macchia d’olio coprivano ogni angolo del
pianeta.
Ma non soltanto questi appuntamenti progettuali mi davano un enorme coraggio
di osare ed allo stesso tempo mi esaltavano.
Mi domandavo anche, con un velo di tristezza ed amara impotenza, perché tanti
uomini morissero di fame e quali conseguenze sarebbero state causate dalla
penuria di acqua potabile.
Quale fosse la possibilità di debellare le malattie curabili con farmaci e
quelle dovute ad alterazioni genetiche oppure all’invecchiamento delle
cellule di organi fondamentali come il cuore, il cervello, il fegato ed il
pancreas, i reni e gli occhi.
Tutta questa colossale matassa di cose mi appariva impossibile a districare
ma di una sola cosa ero assolutamente certo.
Mai sarebbero state le credenze religiose a risolvere i problemi, anzi,
sarebbero state le lotte inutili e barbare tra i vari credi religiosi ciò che
avrebbe peggiorato ogni possibilità di pace stabile e di vita.
Per distruggere l’umanità non occorrevano lotte simili ma sarebbe stato
sufficiente una apocalisse spontanea prodotta unicamente dalla Terra.
Fra terremoti e maremoti, fra le modificazioni del clima ed i probabili
mutamenti delle temperature delle calotte polari, tra le invasioni di
insetti, virus, batteri e cavallette inimmaginabili, la Terra poteva da sola
dire la parola fine alla sua esistenza.
Era dunque estremamente urgente riuscire ad arrivare in qualche modo al cuore
ed al cervello degli uomini che governavano tutti gli Stati, nessuno escluso.
Dovevano essere tutti globalmente consultati sia quelli ricchi che quelli
poveri, non bisognava escluderne nessuno, né quelli occidentali né quelli
orientali.
Non bisognava avere nessuna preclusione per i loro pensieri religiosi ma, con
molta attenzione e pazienza, discutere apertamente e sinceramente con ognuno
di essi, anche se alcune entità etniche non potevano ancora essere
considerate veri e propri Stati.
L’avvenire dell’Umanità era cosa che bisognava mettere in primissimo piano
con uno sforzo collettivo molto difficile e rinunce non più egoistiche.
Occorreva un uomo nuovo, dotato di un estremo carisma, di amore, di sani ed
eccezionali principi morali ma questo io non lo vedevo tra i pochi politici
che pure perseguivano prepotentemente gli stessi miei principi.
E nemmeno esisteva nel mondo filosofico del terzo millennio.
Così, giunsi alla conclusione di cercare di creare un Robot di tipo umanoide
che da solo, una volta dotato di una memoria storica filosofica totale, di
ogni nozione economica e religiosa globale, di una capacità matematica e
fisica assolutamente all’avanguardia, di conoscenze mediche - le più complete
ed ultramoderne- eccezionali, tali che nessuna equipe medica potesse essere
più perfetta e così via, potesse prendere la Direzione dell’intero Globo
Terrestre.
Per riuscire a comunicare le mie idee era d’altronde necessario creare una
Fondazione economicamente talmente potente, cui avrei dato il nome fantasioso
di “ Nuova Genesi”, che fosse stata in grado di raccogliere milioni di
miliardi di dollari allo scopo di fare capire a tutto il mondo la possibilità
di narcotizzare il male e la morte e di permettere a tutti gli uomini una
specie di Paradiso in Terra.
Il compito prefissatomi era ciclopico ma il solo che avrebbe potuto avere un
risultato positivo.
Contrariamente alle mie negative previsioni, nel lasso di tempo di soli due
anni, ebbi la soddisfazione di raccogliere somme veramente cospicue con le
quali mi potevo permettere anche di pagare i migliori cervelli nel campo
dell’informatica, oltre a quello della automazione e della robotica e
contemporaneamente acquistare una enorme montagna che sarebbe stata
trasformata in un grandissimo “Centro”, unico sulla crosta terrestre, in
grado di fabbricare il più potente ed intelligente Robot che mai altri
avrebbero potuto imitare.
La selezione dei miei collaboratori fu invece un compito estremamente
difficile e per fare questo dovetti contattare uomini e scienziati delle più
prestigiose Università.
L’Organizzazione che ne uscì era monolitica e piramidale.
In cima c’ero io, Walter, più venti scienziati che avevano rinunciato a lauti
guadagni pur di lavorare con me.
Tutti eravamo convinti della bontà delle mie idee ed ebbi così la possibilità
di associare uomini ricchissimi ed importanti di tutte le etnie mondiali.
Costoro erano i miei collaboratori esterni al progetto e solo una parte di
questi si rifiutò di aiutarmi, nel momento più delicato dello sviluppo ma in
quel periodo, durissimo per me, ebbi l’aiuto di Francesco Cocco, l’italo sud
africano di cui ero amico per la pelle e che fu determinante.
Quel uomo saggio, come se fosse un fratello per me, si fece in quattro per
fornire altro denaro fresco all’Organizzazione prima di morire in un
incidente aereo.
Nello spazio di tempo di dieci anni il Robot Umanoide era pronto, perfetto ed
in grado di suggerire all’Organizzazione come uscire dal caos che ancora
regnava sulla Terra.
Era in grado di capire una trentina di lingue diverse compresi alcuni
dialetti, di rispondere nella stessa lingua o dialetto, di risolvere
qualsiasi problema congiunturale molto velocemente, di passare da problemi
socioeconomici a quelli politici o sanitari, di risolvere situazioni
ecologiche e strutturali con un tempismo assoluto, di emozionarsi quasi fosse
un essere umano di carne ed ossa e di dare precisi consigli ed ordini nei
riguardi dei quali, nemmeno cento conferenze internazionali, sarebbero state
in grado di mettere tutti d’accordo.
Il mio team era entusiasta ma contemporaneamente stava lavorando per renderlo
sempre più perfetto e soprattutto invulnerabile.
Infatti questo era forse il problema più grave dal momento che, pur essendo
stato tutto fatto nella massima segretezza, tuttavia non eravamo ancora in
grado di renderlo ancora assolutamente inattaccabile.
Per mettersi in contatto con lui tutti dovevano superare degli sbarramenti
così impenetrabili che soltanto un altro Robot difensivo poteva permettere.
Così, però, i tempi di “ messa in opera” si sarebbero prolungati troppo anche
per l’urgenza di alcune primarie decisioni necessarie a tutti gli Stati.
Fu Narciso, così avevamo battezzato il nostro super Robot, che ci spiegò come
avremmo potuto clonarlo in breve tempo.
Il più era stato fatto e nel periodo di soli sei mesi avremmo potuto avere un
gemello di Narciso pronto per la sua difesa personale.
Mi incontrai con il Presidente dell’ONU e con quello dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità.
Chiesi quali fossero in quel momento le priorità più urgenti per entrambe le
Organizzazioni.
Mi spiegarono cosa servisse subito in tutti i Paesi del Mondo.
Risposi che entro tre giorni avrei portato loro le soluzioni ai quesiti e
come avrebbero dovuto agire perché nessuno potesse opporsi.
I mezzi esistevano, non esisteva invece l’unanimità mondiale per realizzarli
e quello sarebbe stato il loro compito : “convincere” che, soltanto se tutti
avessero accettato gli ordini senza discussioni inutili, il mondo avrebbe
avuto le uniche chance possibili per sopravvivere.
Poche rinunce da parte di tutti avrebbero reso la vita al nostro Pianeta, le
morti assurde sarebbero state debellate e si sarebbero create le premesse per
un grande periodo di sviluppo pacifico e ricco di soddisfazioni.
Tre giorni dopo ritornai da quelli con un enorme dossier e mi dissero che le
premesse ed i contatti da loro già effettuati non avevano portato ad alcuna
conclusione positiva.
Vidi nei loro volti l’amarezza e la tristezza ed immediatamente tornai da
dove ero venuto.
Capii che Narciso da solo non avrebbe potuto risolvere il caos mondiale e fu
in quel momento che mutai idea.
Il programma sarebbe cambiato per mezzo della clonazione di milioni di Robot
simili a Narciso.
CAPITOLO SETTIMO
Ognuno di questi era stato clonato in modo tale che le stesse dimensioni
sarebbero state molto inferiori a quelle mastodontiche di Narciso ed era
anche stato estremamente più facile ottenere, dalle qualità di Narciso, una
selezione mirata in ogni campo dello scibile.
Vennero poi aggiunte delle innovazioni specifiche in modo tale che, centomila
Narcisi di nuova generazione, avrebbero potuto avere un potere di
convincimento assoluto sugli esseri umani, superiore a quello di cento
milioni di poliziotti.
Erano stati addestrati a paralizzare la volontà di uomini e donne per un
periodo di tempo variabile da pochi giorni a qualche anno.
Non dovevano uccidere ma la loro azione si sarebbe limitata a rendere la
gente innocua, passiva ad altri ordini che non fossero stati quelli del loro
saggio progenitore, in pratica avrebbero eseguito soltanto gli ordini del
nostro Robot gigantesco, nascosto nelle viscere della montagna.
Così, non ci sarebbe stato bisogno di nessuna accettazione da parte dei
Governi di Paesi ostili ai nostri progetti.
La nostra Terra non sarebbe stata mai più governata democraticamente ma da
una specie di Dittatura Scientifica che avrebbe imposto ad ogni persona la
legge dell’Amore e non della Morte.
Tutti i progetti elaborati sarebbero giunti a buon fine e non ci sarebbero
stati mai e poi mai problemi legati al denaro dal momento che ormai eravamo i
padroni assoluti dell’Economia Mondiale.
Qualsiasi transazione finanziaria sarebbe divenuta possibile attraverso la
passività innocua degli agenti di Borse e Banche che avrebbero ubbidito solo
e soltanto ai Robot clonati da Narciso.
Ma, oltre ai Robot paralizzanti la volontà umana, ci sarebbero stati altri
centinaia di migliaia di Robot che avrebbero lavorato agli aspetti
maggiormente difficili del nostro grandioso progetto.
Avevo netta la cognizione di avere tradito i miei principi morali ma pensai
che di fronte al peggio qualsiasi mio altro comportamento sarebbe stato
meglio di nulla.
D’altronde, questa sofferta decisione era stata presa all’unanimità da tutto
il mio staff di studiosi e scienziati.
Avevo voluto che il mio voto valesse come quello di qualsiasi altro
responsabile del progetto del Robot Umanoide e tutti furono d’accordo, senza
il minimo dubbio, che quanto avesse proposto quello andava in ogni modo
assolutamente eseguito alla lettera per il bene dell’Umanità.
Si trattava di comandare a milioni e milioni di persone, sparse per il mondo,
di eseguire lavori ed azioni cui non erano abituati, anche piuttosto
complicati e difficili, ma certamente tali da apportare abbondanza di cibo e
di acqua in territori estesi e sterili.
Quando si fosse ottenuto per prima cosa, con grandi mezzi, la liberazione e
l’affrancamento della gente dai bisogni principali -quali la fame e la sete-
permettendo ai popoli una vita dignitosa, si sarebbe passati alle prime
prevenzioni a tappeto, in effetti già iniziate, delle malattie vaccinabili e
quindi alla prevenzione di centinaia di malattie diffuse e diffusibili per
poi procedere alle cure con i migliori farmaci- di ultimissima generazione-
delle malattie gravi contagiose o meno.
Il piano sanitario, fiore all’occhiello studiato dal nostro Narciso, si
sarebbe poi spostato alle malattie degenerative di ogni organo.
Tutti i risparmi ottenuti attraverso l’abolizione delle spese militari
sarebbero stati in buona sostanza rivolti all’ ecosistema ed alla ricerca
scientifica.
Nessuno poteva opporsi alle leggi ferree sviluppate dal nostro Super Computer
e se qualcuno lo avesse fatto scampando, in via eccezionale all’azione dei
piccoli Robot, sarebbe stato escluso da ogni benessere e tenuto in
sotterranei irraggiungibili dove, sotto la montagna, sarebbe stato costretto
al lavaggio del cervello -cosa possibilissima ed attuabile- fino al completo
annullamento della personale e propria volontà.
Tutto il concentrato d’Amore che era stato sviluppato dai migliori uomini fin
dagli albori dell’umanità, finalmente avrebbe avuto un fine congruo nei
riguardi di ogni persona, a qualsiasi etnia appartenesse.
Un grande passo avanti era avvenuto con l’annullamento delle deleterie leggi
e regole di tutte le religioni in qualsiasi parte del mondo prospere e
ricche, ingannevoli e tali da manipolare la mente umana verso direzioni che
nemmeno i Profeti, mai, avevano voluto raggiungere.
Tuttavia, tutti potevano o implorare o pregare il loro Dio oppure le loro
Divinità liberamente, senza nessun veto, ma non potevano seguire in modo
assoluto le idiozie predicate da chiunque pretendesse di parlare nel nome di
un Dio oppure di molteplici Divinità.
In verità ormai, dopo l’azione dei Robot clonati da Narciso e che facevano
ottima guardia, erano rimasti veramente in pochi a dire idiozie ai fedeli.
In particolare, qualcuno di grande carisma era ancora rimasto attivo ed era
molto pericoloso per tutte le semplici persone che non se la sentivano di
abiurare completamente le antiche regole ed usanze oltre che le varie e
poliedriche interpretazioni delle loro fedi.
Più interrogavo me stesso oppure Narciso, più mi convincevo di avere -con
pugno fermo -eseguito almeno la prima parte del mio compito anche se avevo la
netta sensazione di avere travalicato e di parecchio il mio primo compito e
desiderio.
In passato avrei desiderato che quanto si stava sviluppando fosse accaduto in
modo democratico e non dittatoriale come in effetti stava accadendo.
Non esisteva ormai nemmeno l’ombra della Libertà e del Libero Arbitrio.
Questi concetti erano un lusso che non potevamo concedere a nessuno almeno
fino a che tutti gli uomini non fossero mutati profondamente, radicalmente,
addirittura nel proprio DNA.
Conoscevo chiaramente il mio destino fino al momento che un cane sciolto,
sfuggito per puro caso alla dura educazione impartita dai Robot discendenti
da Narciso, mi avesse ucciso.
L’unica mia speranza era quella che l’Organizzazione, ormai, sarebbe
sopravvissuta ed avrebbe portato a termine il nostro programma tutto rivolto
alla Vita dell’Umanità che sarebbe stata la migliore Vita possibile sul
nostro pianeta.
Lontana dalle Morti crudeli ed inutili, la Vita sarebbe fiorita dappertutto e
l’odio e la morte non avrebbero avuto più spazio per svilupparsi.
Soprattutto non ci sarebbero state mai più guerre e sarebbe cessati tutti i
movimenti terroristici in ogni continente.
L’uomo qualunque sarebbe stato fiero di essere “Qualunque”.
Donne e bambini sarebbero stati rispettati per sempre ed avrebbero vissuto
una giusta vita, probabilmente felice.
Ero soddisfatto del mio lavoro e fu allora che mi presi un breve periodo di
riposo per riflettere sulla mia vita e su tutto quanto avevo combinato dalla
mia nascita.
Tante cose erano avvenute inimmaginabili tra queste anche la morte di mio
padre che, in quel momento, ricordavo con un certo rimpianto
Mia madre invece era ancora viva pur ultra ottantenne e viveva sempre a Roma.
Ricordavo che quando ero partito, tanti anni prima per le missioni prima in
Brasile e poi in Africa, mi aveva a lungo stretto a se raccomandandomi di
essere sempre onesto e di comportarmi secondo coscienza.
Tutto potevo avere sbagliato ma i consigli di quella donna erano stati sempre
presenti in me.
CAPITOLO OTTAVO
Nemmeno il più fantasioso tra gli uomini avrebbe sospettato che quel
frugoletto di nome Walter Schreider, nato a Dresda da padre ebraico
sufficientemente benestante, per non dire ricco e non praticante, sarebbe
divenuto a cinquantatre anni l’uomo più conosciuto della Terra.
La laurea in Medicina e Chirurgia ottenuta, un paio di anni prima della
caduta del muro di Berlino, a Roma, dal momento che mia madre era italiana
puro sangue e noi si viveva in Italia nella Capitale da quando eravamo
partiti da Dresda, potevo tranquillamente dire di non averla sfruttata se non
per brevi periodi di tempo.
Non mi ero mai mescolato con i gruppi studenteschi politicanti ma anche di
nessun altro credo filosofico religioso e se ero riuscito ad ottenere la mia
bella laurea, ciò era stato soltanto per la mia estrema facilità e capacità
di superare ogni esame,sempre, con il massimo dei voti.
Avevo sempre amato solo tre cose : mia madre Paola apolitica, donna buona,
semplice e colma di carità, per tutti coloro che avessero bisogno di un
sostegno materiale o morale, anche se per dare soddisfazione al mio papà
fingeva di avere simpatia per la Sinistra.
Poi, in ordine crescente, tutti i bambini a qualsivoglia gruppo etnico
appartenessero e la natura di quel mondo dove ero capitato assieme alla vita,
probabilmente come rivalsa agli eccidi compiuti durante la seconda guerra
mondiale contro la città dove Paola mi aveva partorito, rasa al suolo dalle
superfortezze alleate.
Paola mi aveva raccontato ogni disastro di quei tempi che lei ricordava come
se fossero capitati il giorno prima ed i morti sparsi in ogni angolo di
Dresda e dei suoi amici scomparsi nel nulla.
Soffrivo, leggendo e sentendo dell’olocausto della mia razza israelitica
sotto il nazismo ed avevo deciso di non tornare mai più in Germania e di
trasferirmi invece in Israele.
In realtà, durante tutte le mie lunghe esperienze e peripezie, non avevo se
non distrattamente seguito attraverso i media cosa stesse accadendo in quel
momento in Palestina e se le carneficine fossero ancora in atto.
Il bisogno, direi quasi fisico, di andare dove erano state le mie radici,
migliaia di anni prima, mi aveva completamente preso
Non era stata cosa facile ma ugualmente, attraverso molti dubbi, ottenni il
mio scopo.
Arrivare in Palestina era il mio più grande ideale, immaginando come alla
fine la mia antica gente sarebbe riuscita pacificamente ad essere felice e
senza più nemici, integrandosi in quella zona del mondo dove li aveva portati
Mose.
Pensavo anche che ebrei e palestinesi avrebbero formato un’unica Nazione,
libera da pregiudizi e da frontiere.
Venni accolto a Tel Aviv con grande affetto. Un medico e per giunta un
chirurgo con notevole esperienza operatoria era, per il Governo di Israele,
un bel regalo tanto che mi proposero subito come aiuto chirurgo nel più
prestigioso pronto soccorso del maggiore Ospedale di quella città.
Ignoravo il perché di tutta quella fretta ma fu per poco.
Altro che pacifica convivenza tra ebrei e palestinesi!
I due Popoli non si erano mai odiati tanto e soprattutto da quando il
territorio era stato smembrato tra Cisgiordania e fascia di Gaza, tra
Insediamenti di cosiddetti coloni israeliani e Zone che da sempre erano state
altamente popolate soltanto da palestinesi.
Gli uomini che comandavano sia dall’una che dall’altra parte non volevano
accettare una pacifica convivenza.
La rivolta dei palestinesi era stata iniziata ed esercitata per mezzo di
ragazzi ed anche adolescenti giovanissimi, da prima col lancio di pietre
contro l’esercito ebraico, poi con fucili e mitra.
Contemporaneamente fu la religione islamica quella che li mise in riga
attraverso una distorta interpretazione del Corano.
I cosiddetti Martiri Suicidi, le cosiddette brigate di Hallas cominciarono a
fare saltare Bar ed Autobus, uccidendosi essi stessi e convincendosi che
sarebbero saliti nel Paradiso di Maometto dove avrebbero potuto avere
ciascuno, gloria e centinaia di vergini a loro disposizione.
Non da meno era il comportamento dell’esercito di Israele.
Armato come non mai sia in terra che in cielo, dotato di elicotteri da
combattimento e da bombardamento zeppi di missili e perfino dotato di bombe
atomiche, uccideva chiunque fosse sospetto di terrorismo ed anche innocenti
bambini e donne incinta.
Ogni giorno avevamo il nostro pronto soccorso pieno zeppo di feriti, alcuni
gravissimi.
Io lavoravo e nello stesso tempo osservavo il comportamento dei ragazzi ebrei
e palestinesi.
Alcune volte, di nascosto, li spiavo e incredulo li vedevo parlare tra loro
sorridendosi l’un l’altro.
Molti litigavano per qualche Campione di Foot-Ball italiano, che preferivano
ad un altro, ma sempre cercavano di aiutarsi a vicenda.
Mi commuovevo quando qualcuno di essi moriva ed il mio dolore era uguale a
quello degli altri ragazzi, nessuno escluso.
Da quel momento iniziai ad invitare a casa mia i ragazzi di entrambe le etnie
un volta dimessi, guariti, dall’Ospedale.
Potevano venire insieme ai loro familiari, le loro mamme e sorelle se le
avevano.
Le donne adulte avrebbero cucinato per tutti e noi insieme, pacificamente e
fraternamente, avremmo discusso su qualsiasi tema che ci stava a cuore.
Mi accorsi quanto la gioventù fosse semplice e pulita d’animo, affettuosa e
bisognosa di amore.
Nel complesso i bambini ed i giovanetti, che erano miei ospiti, a poche
centinaia di metri dai centri densamente popolati dai palestinesi e dalle
villette dei coloni, erano di età compresa tra i quindici ed i sei anni.
Ebrei e palestinesi erano, per me, tutti belli ed intelligenti, sorridenti ed
acuti nelle domande che mi ponevano.
Dell’OLP, di Arafat, di Hamas, del Libano, del Governo israeliano e così via
non si parlava quasi mai.
Delle condizioni di lavoro e delle difficoltà di poter essere liberi e tali
da intraprendere qualsiasi mestiere o professione, di circolare altrettanto
liberamente senza le estenuanti file ai checkpoint, invece, si discuteva
animatamente senza che io ponessi loro problematiche politiche oppure di
sicurezza.
C’era un fatto che desideravo entrasse nella loro mente.
“ Non poteva esistere Libertà senza Amore “e questo concetto era già dentro
l’anima di loro tutti.
Bastava osservarli giocare nel piccolo giardino della ma villetta, chi a
calcio, chi con minuscole bambole di pezza e come in ognuno di essi esistesse
già il desiderio di creare una famiglia degna di questo nome.
In ogni caso, da me, non si accennava nemmeno a tutto quello di cui era pieno
il loro cuore ed il loro cervello bombardato senza sosta dalle odiose parole
dei precettori religiosi, in particolare, dalla legge del taglione , anzi
cercavo di insegnare loro come l’Amore tra tutti gli uomini fosse il Bene
Supremo, il “ non plus ultra “ della vita su quella Terra che tutti noi
avevamo colonizzato da millenni.
Non era la morte, sia in campo medico che politico-sociale, l’episodio che
avrebbe portato al Paradiso tanto decantato dalle religioni monoteiste ma
all’opposto, era la vita, quella che avevamo ricevuto in dono dall’intero
Universo, la sola felicità che soltanto il nostro Pianeta avrebbe potuto
donarci senza chiedere nulla in cambio.
Attraverso gli occhi innocenti e puliti dei miei amici bambini e giovincelli
intravedevo, amaramente, cosa all’opposto sarebbe accaduto.
La miseria e la fame avrebbero avuto buon gioco sulle loro candide anime, i
loro occhi si sarebbero riempiti di odio irrazionale e di crudeltà, la natura
stessa non sarebbe mai divenuta generosa con loro né con tanti altri milioni
di coetanei sparsi ogni dove per la Terra.
Il mondo che alcuni chiamavano “terzo mondo”si sarebbe , col tempo, sempre
più abbruttito.
Così, dopo soli sei mesi, presi l’incredibile decisione di andarmene da Tel
Aviv e di cercare una risposta difficile in qualche altro luogo.
Con gli occhi pieni di lacrime presi il primo aereo in partenza per Honolulu
e lì rimasi a meditare sulle mie tristi esperienze e su quanto avessi potuto
fare con le mie povere forze.
Rimasi nelle isole del Pacifico per diversi anni ed ebbi anch’io il mio breve
periodo di felicità.
Lì mi sposai con una indigena da sogno del luogo, affascinante e colta
incredibilmente estroversa e che sprizzava gioia di vivere più che una
bambina .
Era una giovane donna oltre che stupenda anche molto affettuosa e colma
d’amore per me, con cui ebbi una figlia assai bella, spiccicata alla madre e
dolcissima.
Un giorno un maremoto, con uno Tsunami improvviso, me le portò via in un
attimo e rimasi solo, disperato e distrutto su quella isola soltanto per un
mese ancora.
Prima di andarmene via per sempre conobbi uno scienziato italiano ingegnere,
anche lui laureato all’Università “La Sapienza “ di Roma, esperto di Economia
Globale, Sociologo e Filosofo.
Con lui mi rifugiai a Città del Capo a discutere ed a pensare cosa si potesse
fare di speciale per fare sopravvivere, nella Pace, il nostro Mondo.
Avevamo entrambi le stesse idee riguardo il futuro della Terra e sapevamo che
soltanto un miracolo, uno sconvolgimento totale, poteva dare a tutti gli
uomini, donne, vecchi e bambini una speranza futura.
CAPITOLO NONO
Costui, l’amico recente col nome a me particolarmente caro di Francesco, era
ricchissimo.
Era l’unico proprietario, della importantissima e ricca miniera di diamanti
del Sud Africa, la seconda in assoluto ed aveva deciso di costituire un fondo
miliardario destinato al miglioramento dell’ecosistema terrestre.
Quando gli parlai del mio progetto, fu talmente entusiasta da nominarmi
Amministratore Delegato della Holding che stavo per creare, dopo tanto tempo
passato a riflettere, per la salvezza della Terra.
Fu ancora lui che mi presentò uomini stracolmi di denaro, suoi amici, con i
quali cominciai a dare vita alla Fondazione che in breve tempo ebbe tanto
successo.
Poi la sua morte per un banale incidente col suo aereo personale.
Tuttavia, ogni cosa procedette come avevo pensato fin quando fui costretto ad
instaurare quel regime di tipo dittatoriale nel quale il comando e le
decisioni erano passate al mio Robot Umanoide ed alle sue complesse
valutazioni.
L’unica cosa che potei fare per Francesco fu soltanto la creazione di una
borsa di studio per tre neo laureati in ingegneria automatica e robotica, i
migliori tra gli italiani, come era stato lui, usciti dalla “Sapienza”.
Considerai diverse volte se l’aver incontrato Francesco, quel uomo
eccezionale più che fratello, fosse stato per me un evento fortunato o meno.
Probabilmente, se non fosse stato così, non sarei stato in grado di mettere
in moto la mastodontica Fondazione “Nuova Genesi” ed il mio progetto, pur
avanzato con l’acquisizione dei migliori cervelli e tangibilmente presente,
attraverso il Super Robot ormai ad un ottimo punto di sviluppo, sarebbe
naufragato per insufficienza di fondi e quindi fallito.
Col senno di poi, se questa domanda me la fossi posta diversi anni più tardi,
quando ormai la clonazione di Narciso era divenuta un fatto compiuto ed
operante, avrei risposto che il progetto -ormai in piena realizzazione - era
stato il massimo che un uomo e la sua Fondazione avessero potuto creare per
la Pace nel Pianeta Terra.
Ma, se mi avessero chiesto quanto mi sentissi felice e soddisfatto del fatto
che tutti gli uomini e tutte le donne si erano trovate improvvisamente, a
causa dei cloni di Narciso, privi di volontà e di reazioni in ogni campo, la
risposta sarebbe stata totalmente negativa.
Era durissimo, per la mia coscienza, considerarmi un despota.
Anche se valeva ancora e sempre il detto che “ il fine giustifica i mezzi”,
non era facile per me sentire sulle mie spalle la responsabilità dello
sconvolgimento creato sia nei rapporti interpersonali che in quelli economici
sociali.
Se era vero che sulla Terra nessuno più moriva a causa di lotte e guerre, se
ancora più vero era che non esisteva nemmeno l’ombra di denutrizione per la
gente - qualsiasi fosse l’età - e che tutti ormai potevano curarsi e
prevenire le malattie infettive e degenerative, altrettanto sacrosanto mi
apparivano dolorose ed infami l’obbligo di costringere tutti ai voleri di
Narciso.
Parecchie volte io stesso avevo interrogato Narciso per motivi personali.
Mi mancava molto la compagnia di una donna.
Dopo la morte della mia dolce e bellissima moglie alle Hawaii non avevo avuto
nessuna altra compagna con cui stringere un rapporto affettivo e sessuale.
Sentivo di averne estremo bisogno e fu Narciso che mi illuminò consigliandomi
una giamaicana, nei riguardi della quale avevo una affinità totale di oltre
il 95 per cento.
Oltre all’affinità, quella era una ventisettenne laureata anche lei in
Medicina e specializzata in Psichiatria, talmente affascinante e bella da
essere stata eletta, da studentessa “Miss Giamaica”.
Da quando avevo superato i cinquanta anni, mi ero accorto di essere molto
sensibile alla bellezza femminile e non riuscivo a capire il motivo di questa
mia metamorfosi.
Narciso mi aveva spiegato che questo fatto significava in psichiatria una
tendenza all’ipocondria; la paura della morte poteva esserne la causa.
La bellezza femminile, in generale, mi permetteva di allontanare da me stesso
l’incubo della mia fine. Ero attratto dall’altro sesso poiché il contrasto
con la morte mi permetteva di allontanare quel pensiero lugubre dalla mente.
Come al solito Narciso era stato esauriente nelle sue spiegazioni ed
addirittura piuttosto crudele, ma aveva anche affermato che, se io mi fossi
accompagnato con quella giamaicana, il mio Io avrebbe ricevuto una
grandissima gratificazione e che quindi il fenomeno ipocondriaco si sarebbe
assopito in me certamente.
Decisi allora di fare giungere alla Dottoressa Maia Perez un invito per
raggiungermi nel mio luogo di lavoro con la scusa che ci sarebbe stato un
posto libero nel mio staff, di Psichiatra con un ottimo stipendio, affitto di
casa pagato e molti altri benefici come telefono satellitare, automobile
elettrica, un mese e mezzo di vacanze gratuite e un premio in denaro annuo
molto elevato e consono al lavoro svolto.
Era chiaro che mi avrebbe detto di sì e una settimana dopo, la vidi arrivare
e presentarsi piena di gioia e soddisfazione.
Maia non era soltanto una creatura da sogno ma pure, alle prove preliminari,
si dimostrò dotata di un quoziente intellettivo di 185.
Professionalmente parlando, non aveva nulla da imparare e le sarebbe stato
sufficiente un breve Master per potere dialogare con Narciso.
Mentre Maia mi si avvicinava sempre più amorevolmente ed io cercavo di
conquistarle il cuore, una nuova grande notizia mi distrasse, momentaneamente
da lei.
I miei fisici erano riusciti a realizzare il sogno di tutti.
L’energia pulita, quella dovuta alla Fusione Atomica dell’idrogeno era
divenuta una realtà.
Ogni cosa avrebbe potuto, da quel momento, funzionare con estrema facilità
soltanto con il semplice impiego dell’idrogeno.
L’illuminazione delle città e di qualsiasi sperduto paese, gli aerei, i
treni, ogni tipo di macchine sia industriali che quelle prodotte da case
automobilistiche non avrebbero mai più usato combustibili derivati dal
petrolio oppure dal carbone.
L’ecosistema si sarebbe salvato definitivamente, le foreste di ogni Nazione
non sarebbero, mai più, state massacrate dall’uomo, i ghiacciai non sarebbero
stati colpiti dall’enorme buco dell’ozono causato dagli insulti dei gas nel
corso del tempo.
Gli oceani non sarebbero stati inquinati dai disastri periodici delle super
petroliere e le loro acque potevano riacquistare la loro purezza mentre, ogni
tipo di animale acquatico, avrebbe potuto avere l’ambiente adatto senza il
pericolo di estinzione di migliaia di specie
In definitiva si apriva per la Terra una nuova epoca salubre e di prosperità.
Probabilmente io avrei vissuto soltanto il prologo di questa grandiosa
trasformazione ma non i miei figli che avrei avuto dalla mia adorata
giamaicana, una volta sposatala.
E fu così che, dopo il periodo di febbrile euforia per la realizzazione della
fusione nucleare, Maia cedette alla mia corte e disse di sì alla mia proposta
di matrimonio.
Maia però, prima di cedere mi avvisò che il modo di governare la Terra, da
parte della generazione dei robot clonati da Narciso non era da un punto di
vista etico tale da rendere felici gli esseri umani, privati della libertà di
decidere il loro destino.
In effetti lo stesso Narciso mi aveva comunicato che prima o poi l’uomo
avrebbe sviluppato una resistenza ai comandi della robotica, nella medesima
maniera di certi microbi oppure insetti nei confronti di antibiotici ed
insetticidi.
Non solo mi disse ciò ma anche che, sarei stato proprio io, colui che avrebbe
ridato al genere umano la libertà ed in buona sostanza il libero arbitrio.
Che negli anni a seguire il mio compito sarebbe stato il più difficile:
coniugare le conquiste scientifiche fatte, con l’esigenza- ancora non
avvertita -, dell’estremo dono da dare al genere umano ogni possibile libertà
di agire secondo coscienza.
Nemmeno Narciso sarebbe stato in grado di darmi dei consigli e quindi, di
quanto sarebbe accaduto, avrei portato l’onere interamente sulle mie spalle.
Compresso da questo stato d’animo, passai la Luna di Miele con Maia cercando
di dimenticare, almeno in quel periodo di felicità, quale stratosferica
esigenza mi avrebbe accompagnato nel futuro.
SECONDA PARTE
CAPITOLO DECIMO
Nascosti in una caverna naturale del Kilimangiaro, un uomo ed una donna assai
giovani seminudi, dormivano profondamente nel silenzio più assoluto.
Di pelle nera, sembravano quasi due animali antropomorfi, tanto erano simili
a dei piccoli gorilla che in passato erano stati i padroni assoluti di quel
massiccio.
In realtà erano privi di peli ma avevano sul capo dei radi capelli.
Che fossero degli umani non c’erano dubbi per la conformazione del cranio. La
fronte sporgente, il naso regolare di forma, con bocca ed occhi tali da
essere simili a quelli di antiche statue greche, avevano mani e piedi non
troppo grandi per la loro mole.
La femmina, non più che quattordicenne, aveva l’addome sporgente e doveva
essere gravida con le mammelle turgide come nelle donne che aspettano un
nascituro.
Il maschio era a torace scoperto, possente ed i muscoli delle braccia e delle
gambe si presentavano molto sviluppati.
Improvvisamente, dal cielo cupo e stracolmo di cumuli nembi, iniziò a cadere
una violenta pioggia mista a cenere con grande fracasso tanto che i due
individui si svegliarono e si alzarono in piedi con nello sguardo i segni di
un incredibile spavento.
Potevano essere alti almeno due metri ma la femmina era di una quindicina di
centimetri meno alta dell’uomo.
Lei, gridando, si portò le mani sul ventre e contemporaneamente perse un
liquido bianco giallastro dalla vagina.
Si mise in una posizione accovacciata a gambe larghe ed iniziò a spingere coi
muscoli addominali e pelvici, respirando con ritmo affannoso ma profondo
mentre la fronte ed il volto si riempivano di gocce di sudore.
Il suo compagno era rimasto immobile, quasi pietrificato e si era limitato a
guardare mentre lentamente cominciò a spuntare, dalla vagina di quella
donna-ancora ragazza-, il capo di un essere vivente.
Poi uscirono, oltre alla testa ed il collo, il torace e l’addome, due
braccini e per ultima, la pelvi e gli arti inferiori.
A quel punto l’uomo prese il bambino, un maschio, e tagliò poco tempo dopo,
con una pietra molto affilata, il cordone ombelicale liberando il neonato
dalla madre.
Un vagito assai acuto fu emesso nella caverna: era nato il figlio dei due,
tra il sorriso del padre e la serena soddisfazione della madre, prostrata
Di fuori continuava a piovere acqua mista a cenere mentre un pallidissimo
sole era riuscito, a stento e faticosamente, a fare filtrare un po’ di luce
sul fianco della montagna e davanti all’imboccatura della grotta.
Il bambino era già attaccato al procace seno della madre poco dopo che il
padre aveva rapidamente controllato l’assenza di anomalie fisiche visibili
sul corpo del figlio.
Quella famiglia era una delle poche sopravissute allo sterminio di tutta
l’Africa, avvenuto ormai anni prima, per lo sprofondamento improvviso della
crosta terrestre di quel continente.
Le catastrofiche conseguenze a carico del Mediterraneo e di tutte le Nazioni
che su quel mare si erano affacciate per millenni, erano state quasi
immediate.
L’Italia si era ridotta di due terzi ed erano state cancellate migliaia di
città e paesi, salvandosi soltanto gli agglomerati situati sui fianchi delle
montagne appenniniche, parte della Sicilia, della Sardegna e della Corsica.
Tutte le pianure erano scomparse e centinaia e centinaia di isole ed isolette
avevano preso il posto del centro sud mentre erano parzialmente rimasti
integri molti arcipelaghi ed anche qualcosa di Lampedusa e di Pantelleria.
La pianura padana era divenuta un mare mentre le Alpi e le zone montuose,
limitrofe a quelle, erano state risparmiate almeno in parte.
Analogamente per la Siria e Cipro, e verso sud ovest il Libano e la Palestina
avevano fatto la stessa fine, ad eccezione di poche montagne dei due Paesi.
Gerusalemme non esisteva più come non esistevano più tutte le città e
cittadine che da Viareggio, costeggiando il mare, arrivavano a Genova, a
Marsiglia, a Barcellona e così via.
Tutte le opere artistiche, dal Medio Evo in poi, erano state cancellate per
opera della Natura in un brevissimo lasso di tempo ed era come se uomini
divenuti i maggiori pittori, architetti, scultori della storia non fossero
mai esistiti.
Ormai, quando avvenne questa incredibile e non prevista catastrofe, io e Maia
eravamo sposati da cinque anni ed avevamo dedicato tutto il nostro tempo per
cercare la via giusta per ridare a tutti gli uomini il “libero arbitrio”.
Narciso stesso non aveva potuto avvisarci di quanto sarebbe accaduto e questo
per colpa mia e del mio staff.
Non era stato programmato per suggerirci uno sconvolgimento simile del
pianeta Terra e cosa eventualmente avremmo potuto fare per prevenire almeno
le centinaia di milioni di morti che avrebbe provocato.
Anzi, Narciso e Maia si erano dedicati in quel periodo, dopo il mio
matrimonio, al mio modo distorto di analizzare l’anima umana ed alla mia idea
fissa di donare al “ FATTORE Q “ e cioè all’uomo qualunque, la possibilità di
vivere felice e libero da qualsiasi condizionamento restrittivo.
Io sostenevo che era possibile arrivare ad una completa libertà se solo
avessimo creato una specie di “Galateo Comune” a tutti e che sarebbe stato
nostro compito immetterlo nel cervello per mezzo di un gene ubbidiente ma
allo stesso tempo rispettoso di ognuno, per esempio, con un qualche cibo
modificato geneticamente.
Così, la Terra sarebbe diventata un vero Paradiso ed i suoi abitanti,
liberati da ogni necessità per la sopravivenza della specie con le scoperte
scientifiche frutto del lavoro della mia Organizzazione, avrebbero potuto, da
subito, scoprire la gioia del Libero Arbitrio e non più delle imposizioni.
Tutto stava filando per il verso giusto, il cibo geneticamente modificato era
ad un passo dalla sua realizzazione, “il gene del Galateo”- così lo avevamo
soprannominato - era ormai pronto quando era avvenuta in Africa,
l’Apocalisse.
Di quella catastrofe eravamo stati informati immediatamente dai nostri
osservatori superstiti, sparsi in ogni angolo del Globo terrestre mentre dai
satelliti che osservavano la Terra dall’alto avevamo ricevuto una dettagliata
documentazione fotografica.
Disperato in preda ad una tremenda crisi di pianto, vedevo scomparire
d’incanto tutti i miei progetti.
Ero piombato in una crisi profonda di depressione, senza riuscire più a
ragionare razionalmente.
Maia si era rivolta a Narciso per salvarmi e tutto il nucleo di scienziati
che lavorava con me, non faceva più altro che pensare alla mia malattia e per
scoprire in quale modo potessi tornare ad essere quello di anni prima, colui
che aveva dedicato la sua intera esistenza al genere umano ed alla Terra.
Ricordo che mi pareva di essere sprofondato in un buco nero, di quelli
descritti dagli astro fisici e che il mio peso fosse divenuto immenso e che,
più cercavo di oppormi a questa straziante condizione più acquistavo una
folle velocità di caduta, tanto che nessun pensiero poteva rimanere nella mia
scatola cranica, mentre il solo motto della mia coscienza era rappresentato
dalla “Paura” terribile ed alla quale non ero in grado di opporre nemmeno un
milligrammo della mia volontà.
Ogni cosa nel mio cervello non era nitida, ma come avvolta in una nebbia
fittissima.
Mi sembrava che dal fondo del buco nero si potesse uscire, ma come?
Come in un sogno vidi una luce abbagliante corrermi incontro.
Udii una sola parola: “ vergognati “.
Da quel preciso momento oltre alla paura ebbi la vergogna come seconda
compagna.
Quindi la mia coscienza doveva ancora essere viva, attenta e non annientata e
quando ripresi le forze,almeno tre mesi dopo, vidi Maia su di me con il viso
pieno di pianto.
Dovettero tuttavia passare altri mesi perché potessi riprendere completamente
la mia coscienza e con quella, la mia capacità intellettiva.
Ero stanchissimo ma ricordavo perfettamente ogni cosa capitatami dal momento
che mi ero reso conto di quanto immane era stato il disastro.
Gli splendidi occhi di mia moglie e le sue carezze furono la migliore
medicina che potessi avere, mentre si stava ravvivando dentro di me un nuovo
vigore perché non avrei mai e poi mai abbandonato i miei progetti.
Adesso ero conscio che soltanto la violenza della Natura poteva tentare di
piegarmi e null’altro.
Ero più che consapevole che il nostro mondo non sarebbe resuscitato e che ci
avrebbe atteso un tempo difficilissimo da gestire.
Bisognava modificare, in parte, il nostro Robot Umanoide per poter riparare
almeno quella piccola porzione di quanto si era salvato in Africa, in Europa
e nel Medio Oriente.
Quando tutto era parso impossibile, per il tempo inutilmente perduto, riunii
una seduta straordinaria del comitato direttivo per il giorno successivo.
Tutti gli scienziati furono presenti e concludemmo che mentre era possibile
ancora arricchire Narciso con difficili altri compiti, nulla si poteva fare
riguardo alle centinaia di migliaia di robot clonati da quello, almeno che
non avessimo deciso di annientarli tutti e così ridare all’uomo, ovunque si
trovasse, la propria ed individuale libertà di azione annullando tutte le
coercizioni che essi trasmettevano direttamente ad ogni persona.
Il problema si mostrò subito di difficile attuazione perché se li avessimo
distrutti, immediatamente i popoli sarebbero tornati a fare tutto ed il
contrario di tutto.
Quindi bisognava dare ai robot clonati il tempo per agire, con il cibo
geneticamente modificato ma non ancora pronto, sulla morale, sull’etica
filosofica dello spirito e sui rapporti interpersonali della gente comune in
modo che poi, quelle macchine non sarebbero state più necessarie.
Per la prima volta, da quando avevo iniziato il mio lungo cammino sulla
strada della Rivoluzione Scientifica con i Robot, la mia lealtà e la mia
onestà veniva messa in dubbio non certamente dai miei collaboratori ma dal
mondo economico che mi aveva sempre dato retta, anche se in parte violentati
dal metodo che avevo adottato e cioè la costrizione dei loro più validi
agenti di Borsa e di Banca che non agivano mai secondo la loro personale
libertà ma come mi suggeriva Narciso.
Senza poter contare sul flusso di denaro che fino allora aveva riempito le
casse della Fondazione, “Nuova Genesi”, tutto si sarebbe bloccato ed il
lavoro di anni sarebbe stato di una inutilità totale.
Ci volle poco tempo per rendermi conto che l’economia era completamente
crollata da per tutto in America ed in Asia e che nemmeno un mago avrebbe
potuto risollevarla chissà per quanto tempo.
Le Imprese fallivano l’una dopo l’altra e si riusciva a mala pena a dare il
minimo di sussistenza a miliardi di uomini in ogni angolo della Terra.
Anche la “Nuova Genesi” era rimasta semiparalizzata ed io mi resi conto che
tutti i miei progetti sarebbero rimasti tali e completamente inutilizzabili
almeno per alcuni decenni e che potevamo soltanto dare il nostro sostegno di
Solidarietà alle parti del Pianeta colpito dal disastro epocale.
Ci riunimmo decine di volte per cercare una qualsiasi soluzione che
permettesse almeno a Narciso di sopravvivere.
E fui io che decisi che almeno gli uomini dovevano riprendere la propria
libertà di azione: i Robot clonati dovevano essere distrutti in anticipo sui
tempi precedentemente pensati, anzi si dovevano auto distruggere, consentendo
a noi di mantenere attivo e perfettamente funzionante soltanto Narciso, sul
quale avremmo potuto fare delle migliorie che forse sarebbero servite ai
nostri posteri.
Gli uomini superstiti al Cataclisma, che dall’Africa era divenuto universale,
avrebbero ripresa la loro coscienza da soli, con l’incognita che tutto
sarebbe tornato ad essere come nell’ultimo secolo del secondo millennio.
La speranza era che l’America, il Giappone, l’enorme Repubblica Russa, la
Cina e quel che rimaneva dell’Unione Europea avessero saputo risolvere ogni
nuovo e vecchio problema mondiale in un modo nuovo ed originale tale che,
l’aver riacquistato il “Libero Arbitrio”, portasse ad una nuova generazione
di uomini quella che- in modo coercitivo- avevamo tentato di creare noi della
Nuova Genesi senza successo.
In quella generazione futura potevo annoverare i miei due figli di tre e
cinque anni, una femminuccia di nome Chiara ed un maschietto cui avevamo dato
il nome di Giulio.
CAPITOLO UNDICESIMO
Cosa mi aveva insegnato la vita? Cosa avrei potuto lasciare ai posteri di
essenziale?
Due concetti, il primo che la Natura o meglio Madre Natura lentamente ma
inesorabilmente era la forza maggiore che governasse il Mondo.
Il secondo che nessuna macchina avrebbe mai potuto sostituire l’intelligenza
umana e la potenza delle idee di ogni uomo.
L’unica speranza, che era rimasta saldamente in me, era che Madre Natura
potesse effettuare il miracolo di permettere la nascita di uomini o donne
super dotati e provvisti di uno speciale carisma, tale che le loro parole ed
il loro linguaggio fossero talmente convincenti e persuasivi di quel Amore
per il genere umano di cui non c’era stato più segno dalla morte di Cristo
con qualche eccezione che poteva essere San Francesco, Gandhi e Madre Teresa
di Calcutta.
Ma prima che si avverasse questa speranza, con un gruppo di scienziati
geologici volli vederci chiaro sulle cause che avevano portato alla quasi
completa distruzione dell’Africa e conseguente dei Paesi limitrofi che si
affacciavano al Mediterraneo.
Questo gruppo venne alla conclusione che 250 milioni di anni prima, cioè
prima ancora della comparsa dei dinosauri, la Terra e di conseguenza l’Aria,
nel periodo di 10 milioni di anni, si era surriscaldata per una specie di
effetto serra esclusivamente per colpa di una continua e spesso contemporanea
eruzione di migliaia di vulcani.
Le conseguenze erano state la scomparsa del 75 per cento degli esseri allora
viventi sulla sua superficie.
La maggior parte dell’estinzione era avvenuta nei mari con punte del 90 per
cento.
La fauna e la flora erano state quasi completamente distrutte e di materia
vivente ne era rimasta solamente un quinto, per la riduzione dell’ossigeno
dei mari associata al surriscaldamento dell’aria.
Quindi prima dell’era triassica non erano stati i meteoriti la causa di
quella demoniaca catastrofe, ma, successivamente, essi contribuirono ad altre
immani tragedie.
La conclusione di questi studi fu che avremmo dovuto maggiormente ricercare
il perché fossero successe le esplosioni di quel numero enorme di vulcani e
conseguentemente i terremoti ed i maremoti.
In ultima analisi era stata una fortuna che in Africa fosse scoppiato
soltanto il Kilimangiaro.
Avevamo bisogno di qualche testimone ma commettemmo uno sbaglio di
valutazione, lasciando passare cinque anni dalla tragedia, perché eravamo più
che sicuri che nessuno fosse sopravvissuto e quindi, con immenso ritardo, ci
recammo prima con un super jet poi con alcuni elicotteri nella zona ove c’era
stato il maestoso Kilimangiaro.
Al posto di quello era rimasta un isola grande non più di venti chilometri
quadrati, rocciosa e piuttosto alta sul livello del mare che intorno mostrava
centinaia di isolotti molto piccoli.
Scendemmo con tre elicotteri in tre punti diversi, ma fu la mia squadra che,
dopo giorni di ricerche affannose, rintracciò la grotta ad una quota di mille
e trecento metri dove era nato il bambino dalla coppia dei due esseri umani
di colore.
I tre esseri, in non buone condizioni di salute ma vivi, li portammo
premurosamente nella sede della Nuova Genesi, a Vancouver Island al confine
del aCanada.
Lì il neonato ed i suoi genitori vennero ricoverati nella Clinica annessa
alla Fondazione, sottoposti a viste accuratissime ed a accertamenti
diagnostici minuziosi.
I tre, benché denutriti e con alcune manifestazioni di ipovitaminosi e di
carenze legate all’alimentazione, risultarono tuttavia in perfette condizioni
fisiche, in particolare cerebrali.
Non si riusciva a capire cosa dicessero e fu Narciso che ci spiegò come il
loro linguaggio contenesse parole proprie di un dialetto locale keniano così
che noi potemmo sfruttare il nostro Robot Umanoide per comunicare,
sufficientemente, con quei tre superstiti.
Sapemmo che l’uomo era nato dodici anni prima della catastrofe.
Che si era salvato unicamente per mera fortuna e per la prontezza della
madre, una sensitiva, che lo aveva messo al riparo, -assieme ad una giovane
donna con una figlia di nove anni ,- in una caverna stracolma di provviste ed
acqua quando l’eruzione del vulcano si stava per manifestare, cosa che era
avvenuta una settimana più tardi con l’esplosione di un mare di lava mista a
pomice,cenere e lapilli, seppellendo di conseguenza tutto il minuscolo
villaggio nel quale avevano condotto una vita povera ma semplice e felice
fino a quel momento.
La mamma di quella bambina era morta pochi giorni dopo la catastrofe ed era
stata proprio la madre del ragazzo, colei che l’aveva cresciuta per un
discreto periodo di tempo come se fosse stata sua figlia, per poi morire di
stenti e di una febbre maligna.
Erano, quelli del villaggio, di una razza praticamente scomparsa, molto alta
e robusta ed il motivo della sopravvivenza dei due bambini era stata
sicuramente legata ai loro geni.
Il maschio, che avevamo chiamato Tommaso, aveva scoperto nelle profondità
della grotta un esercito di topi che erano stati per loro due l’unico cibo,
per i primi lunghi anni durante i quali erano rimasti in quel luogo.
Poi erano usciti saltuariamente ed avevano scoperto delle radici e dei
molluschi mangiabili, per mezzo dei quali erano riusciti a vivere fino al
momento dell’arrivo dei nostri elicotteri.
Parlare di vivere in quelle condizioni era un eufemismo.
Tre quarti delle giornate, tappati nella grotta e soltanto sei ore fuori a
vagare su un territorio del quale non erano in grado di riconoscere nulla e
nemmeno orientarsi.
Tommaso, da bambino era stato un bravo ragazzo, amante della natura dove era
nato, affettuoso di carattere e non aveva mai visto il mare.
Con la sua giovane compagna avevano cercato qualcuno vivo nell’isola dove si
erano trovati, improvvisamente, soli in un territorio estraneo ed avevano
cercato almeno qualche accenno residuo del loro villaggio che era
completamente scomparso.
Delle migliaia di specie di animali, suoi abituali compagni dei primi anni di
vita, non ne era rimasta nessuna traccia sulla terra ferma.
Soltanto nell’ acqua torbida che circondava quella isola era riuscito a
captare l’esistenza di pochi molluschi sotto la sabbia nerissima che non
aveva mai visto prima.
Ne mangiarono per fame ma quelli erano pieni di proteine e furono essi che
permisero alla coppia di crescere ed infine di procreare.
Non era stato nessun sentimento d’amore ma soltanto l’istinto che li aveva
uniti.
Chiamammo lei Teresa ed il loro bimbo, Jose, come aveva voluto mia moglie
Maia innamoratasi subito di quel moccioso.
Per questo sentimento imperativo mi chiese di poter dare una mano concreta ai
tre superstiti ed in particolare di farli vivere con la nostra famiglia,
nella nostra casa.
Maia avrebbe pensato il modo per poter lenire tutte le sofferenze di Tommaso,
di Teresa e di Jose, riguardo il quale avrebbe profuso gli stessi sentimenti
di dolcezza, di intuito e di tenerezza di cui aveva coperto i nostri due
figli.
Jose avrebbe a suo tempo studiato e sarebbe diventato l’espressione della
dignità umana e della capacità dell’uomo di affermare i suoi pensieri e le
proprie idee liberamente ed onestamente.
CAPITOLO DODICESIMO
Chiara, coetanea di Jose, cominciò a trattarlo come un fratellino mentre
Giulio, il mio primogenito, non seppe trattenere un certo motto di gelosia
per la presenza in casa seppure in una “ dependance” di quel negretto che
intanto, giorno dopo giorno, cominciava a parlare sempre più correttamente la
nostra lingua.
La villetta, ormai di nostra proprietà dopo averla pagata come tutti con un
mutuo a breve scadenza, era situata sul fianco di una collina a breve
distanza dalla sede principale della “Nuova Genesi”.
Era quella il nostro angolo privato con un grande prato erboso dove avevo
voluto una stalla con tre mucche, tre purosangue, una grossa gabbia di
conigli ed un’altra di galline con un bel gallo di razza.
Non mancavano neppure una decina di tacchini, alcuni cani e gatti ed ancora
diverse specie di pappagalli.
Un mio dipendente provvedeva ad accudire tutti gli animali ed in particolare
a fornirci, ogni giorno uova freschissime per la nostra colazione.
Ma i cavalli erano un fatto personale di mia moglie e dei miei due figli.
Maia, nella vicina dependance, aveva creato un delizioso angolo per i tre
superstiti del Kilimangiaro con due stanze da letto, due bagni ed un bella
stanza da pranzo con cucina, senza dimenticarsi nemmeno un piccolo salottino
con una interessante libreria.
Erano stati sufficienti sei mesi di permanenza presso di noi, una volta
dimessi dalla Clinica, perché questi cominciassero ad imparare il nostro
linguaggio anche se avevano avuto un importante aiuto da parte di Narciso.
Ma anche prima, con il linguaggio semplice dei bambini, essi erano riusciti a
dialogare con me e Maia e con i nostri figli.
Nella loro semplicità, all’inizio, potevano pronunciare soltanto sostantivi
semplici ma in breve tempo furono in grado di esprimere intere frasi compiute
e questo con grande gioia di Chiara ed anche di Giulio che rapidamente si era
abituato alla loro presenza ed ai loro modi di agire, sempre educatamente e
con grande riconoscenza.
Dopo un anno di convivenza sembravano tutti e tre addirittura nati dalle
nostre parti.
A quel punto mentre i genitori del piccolo potevano avere un lavoro manuale
ben retribuito, costui era già in grado di frequentare la stessa scuola di
Giulio e Chiara.
Jose si dimostrò un bambino molto intelligente e calmo e gli insegnanti ci
dissero che senza alcun dubbio sarebbe stato in grado di arrivare con
facilità all’Università.
Intanto eravamo riusciti ad introdurre il gene “Galateo”, cioè quello che
forniva a tutti gli esseri umani l’educazione e gli istinti positivi e
pacifici, nel grano ed anche nel granturco.
Mangiando i derivati di questi due preziosi alimenti, il gene si trasferiva
nel cromosoma nove degli uomini e determinava, in un periodo piuttosto breve,
una modificazione del carattere tale che ognuno non avrebbe mai più avuto
istinti bellicosi di nessun genere.
Contemporaneamente ogni persona avrebbe riacquistato completamente il “Libero
Arbitrio” fatto già in atto da quando i piccoli Robot si erano auto
distrutti.
Il problema era solo temporale nella speranza che nel frattempo il Terrorismo
non avesse nuovamente rialzato violentemente la testa.
Questo fatto non era però sicuro anzi, da notizie fornite dall’Intelligence,
pareva che dei gruppi fossero sul “chi va là” ed erano poi i più pericolosi,
di stanza ai confini tra la Repubblica Afgana ed il Pakistan.
Erano comandati dal solito Usama Bin Laden ed ubbidivano ciecamente all’uomo
ricchissimo, oriundo dell’ Arabia Saudita ma ormai quasi mio coetaneo e
piuttosto malandato nella salute e forse stanco, come eravamo al corrente da
notizie provenienti dai Servizi Segreti.
Egli era stato il promotore lontano del ridimensionamento della superpotenza
russa e della caduta del muro di Berlino,quando aveva costretto le armate
comuniste ad abbandonare l’Afganistan, dove i russi avevano fatto la stessa
fine degli americani nel Vietnam.
Uomo colto, aveva anche studiato in Gran Bretagna, viveva ancora con l’Utopia
della Guerra Santa. Abile tessitore di congiure -era stato foraggiato dalla
CIA - oltre che dai suoi soldi non soltanto perché erede di un enorme
patrimonio personale proveniente dalla Arabia Saudita ma soprattutto da
quelli derivanti dall’oppio afgano e pakistano oltre che dal commercio di
armi.
Sistemati i russi con l’aiuto oltre che degli americani anche dei talebani e
creata Al Qaeda, fabbrica e base del terrorismo, riteneva gli Usa
responsabili dello sfruttamento dei poveri mussulmani sparsi nel mondo mentre
accusava gli islamici del Paese dove era nato di essersi venduti agli Stati
Uniti ed agli ebrei ovunque fossero dalla Palestina all’Europa.
Era stato per un periodo piuttosto lungo in Africa dove erano stati
perpetrati, a Nairobi in Kenia ed in Tanzania, colossali attentati alle
Ambasciate USA mentre in Somalia era riuscito a fare stragi di marines che
erano stati costretti ad andarsene, anzi a scappare abbandonando quel Paese.
Tutto ciò era stato possibile per la sua predicazione carismatica, attraverso
la quale solo la Guerra Santa contro gli infedeli imperialisti, avrebbe reso
giustizia ad Allah.
Non aveva mai affermato di essere lui il promotore di quanto era successo di
tragico sulla Terra ma che approvava quanto continuava a succedere e non
mancava occasione che non manifestasse odio mortale verso ogni americano ma
anche nei riguardi di quasi tutti gli europei occidentali.
Così era in grado di mantenere sempre la propria leadership su ogni
mussulmano integralista.
Non aveva importanza, ora che il petrolio non era più essenziale, se
potessero essere assassinati donne e bambini in ogni attentato,
-contraddicendo però in questo modo il Corano,- ma invece questo poteva
essere una risposta alla crudeltà di tutti gli americani che ricordava non si
erano nemmeno pentiti delle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Noi speravamo che quel uomo fosse rinsavito dopo la catastrofe planetaria
avvenuta in Africa e poi sparsa a macchia d’olio in tutto il Mediterraneo,
tra l’altro con la quasi completa distruzione della Palestina.
In passato nemmeno i piccoli robot clonati da Narciso erano riusciti ad
avvicinarsi a lui ed ora, per quel uomo, sarebbe stato molto più facile
riprendere la lotta antiamericana ed antiebraica su scala mondiale.
Sapevo perfettamente quale odio associato a sentimenti satanici egli
manifestasse verso l’Ateismo ed il Comunismo, gli riconoscevo tuttavia una
intelligenza non comune.
Così, concepii l’idea di incontrarlo e di parlare con lui.
Forse avrebbe capito l’inutilità dello spargimento di tutto quel sangue sia
orientale che occidentale nella speranza che avesse almeno intuito la
superiorità della Scienza, dagli intenti puliti e civili, rispetto a tutti i
pensieri religiosi diffusi, nei millenni, su tutto il globo terrestre.
Si dovevano attendere le prossime generazioni perché il grano ed il granturco
avessero portato nel uomo il nuovo gene “Galateo”.
Purtroppo non si poteva aspettare oltre.
Sapevo delle intenzioni di quello di passare ad una Guerra Santa assai
maggiormente terribile, quella biochimica e batteriologica.
Gli uomini sarebbero stati sterminati da nuovi e virulenti virus e batteri
oltre che da sostanze chimiche non al momento conosciute.
Alla prima mossa del Leader mussulmano, .gli USA avrebbero risposto
immediatamente con le atomiche e la Terra avrebbe cessato di vivere.
Pensai che non potevo aspettare l’evolversi dei fatti e che quindi sarei
partito verso la zona dove Usama Bin Laden viveva.
Mettevo a rischio la mia pelle ma non me ne importava assolutamente se avessi
saputo convincere l’uomo che odiava tutti e tutto.
Gli preannunciai la mia visita attraverso le TV arabe legate, in qualche modo
ad AL Qaeda.
Ero del resto molto conosciuto a lui ed alla sua organizzazione e speravo di
ricevere al più presto l’OK alla mia visita tramite uno dei suoi
luogotenenti.
Fu infatti il giordano Al Zarqawi colui che mi garantì, segretamente,
l’immunità una volta che fossi giunto in una località precisa del Pakistan al
confine afgano.
Con un volo diretto giunsi ad Islamabad in compagnia di Maia che aveva
ottenuto anche lei un lasciapassare speciale anche se io avevo,
violentemente, protestato con mia moglie che aveva deciso di essermi accanto.
Ci sistemammo nel Hotel indicatoci, sotto falso nome e dopo alcuni giorni ci
vennero a prendere un gruppo di persone, al buio notturno.
Con una colonna di fuoristrada partimmo mentre un tizio, che parlava
perfettamente il tedesco, ci spiegò che il viaggio sarebbe stato lungo e che
eravamo molto fortunati di essere sani e salvi da quelle parti.
Ci disse anche che non avrebbe dato nessuna altra spiegazione e che durante
gli ultimi due giorni saremmo stati bendati.
In effetti avvenne esattamente come l’uomo, alto e leggermente brizzolato con
il volto semicoperto da una sciarpa di stoffa nera, aveva sentenziato.
L’ultima mezza giornata fu un vero inferno.
La strada di montagna la percorremmo a dorso di mulo, completamente incapaci
di renderci conto sia dei sentieri percorsi sia delle montagne intorno, prima
di giungere ad una spianata sulla quale troneggiava, credo, una grande tenda
nella quale ci permisero di guardarci intorno.
Dopo averci dato un abbondante pasto a base di riso e di carne di montone,
fece il suo ingresso l’uomo più ricercato della Terra.
Il turbante, la lunga barba bianca e gli occhi nerissimi erano quelli di
Ulama.
Costui si sedette a gambe incrociate al centro della tenda ed in perfetto
inglese mi rivolse la parola chiedendomi se fossi io il famoso medico Walter
Shneider, figlio di un ebreo e di una donna italiana cattolica e molto
anziana che viveva a Roma, e se fossi sempre io colui che aveva creato un
Robot Umanoide al quale potevo addirittura chiedere qualsivoglia informazione
e consiglio.
Mi chiese anche il motivo per cui avessi fatto un così interminabile viaggio
e per quali motivazioni.
Risposi, dopo avergli presentato mia moglie, che non c’era prezzo per la
missione in cui credevo fin da bambino e che sarei morto felice se avessi
potuto trasformarlo in un nuovo Mahatma Gandhi.
Sorrise ed era molto strano vederlo in quella nuova versione.
Sembrava di ottimo umore anche se d’improvviso si incupì e mi disse che gli
americani avevano fatto di tutto per essere odiati come del resto gli ebrei.
A quel punto presi il coraggio a quattro mani ed accennai al fatto che,
secondo me, era ora di finirla con l’odio mentre era il caso di distribuire
Amore con la “a” maiuscola a tutto il genere umano, dal momento che nessuno
avrebbe mai potuto schiacciare l’avversario e se le cose fossero proseguite
alla vecchia maniera tutto sarebbe scomparso sul nostro pianeta.
Aggiunsi inoltre che soltanto la Forza della Natura avrebbe potuto
sconvolgere il mondo, come aveva già dimostrato in Africa, decretandone la
fine.
Che tutti gli uomini dovevano unirsi, abbandonando i vecchi rancori, in una
unica Società che io proponevo Scientifica ed al servizio dell’Uomo
Qualunque, pur consentendo a tutti di essere credenti di un qualsiasi Dio,
per i monoteisti oppure legati a qualsiasi altro tipo di religione
politeista.
Ad un certo momento, capii che mi aveva ascoltato molto attentamente e che
probabilmente la sua mente mi stava dando ragione.
Ci diede appuntamento per il giorno dopo e salutando cortesemente Maia, ci
augurò un buon sonno ristoratore.
Durante la notte, sbirciando le stelle splendenti nel cielo senza luna, io e
Maia facemmo all’amore come mai era successo precedentemente, tanto ed a
lungo che avrei voluto che quell’incantesimo non finisse più.
Poi, parlammo fittamente di quel uomo che noi per primi avevamo pensato
d’animo cattivo, burbero ed inavvicinabile.
Eravamo d’accordo sul fatto che il suo fanatismo religioso ed integralista
gli nocesse maggiormente rispetto all’uomo che avrebbe potuto diventare se
fosse nato in un vero Paese democratico, dove l’essere carismatico avrebbe
contato maggiormente del suo credo.
Non sapevamo entrambi il perché egli ci fosse entrato nella testa senza
violenza e particolarmente io lo avrei voluto amico e non nemico giurato.
Forse erano state le rughe, che gli solcavano profondamente la fronte, che la
dicevano lunga sulle sue sofferenze fisico psichiche portate avanti con
certezza dall’infanzia.
Maia, come psichiatra, non poteva odiare nessun uomo che riteneva avesse
potuto avere bisogno della sua opera professionale.
Io, poi, che gli avevo letto negli occhi il rimpianto di essersi cacciato in
un buco nero, - come mi era successo personalmente -, avevo pietà di questo
essere umano per quanto avesse fatto e di cui, pensavo, sentiva il peso della
vergogna.
Ci addormentammo con queste domande senza risposte certe, nella speranza che
il giorno dopo non ci fossimo pentiti dei nostri pensieri.
CAPITOLO TREDICESIMO
Mi ero portato appresso, nelle tasche dei pantaloni, una manciata di grano ed
una di granturco che non erano sfuggiti alla perquisizione degli uomini ad
Islamabad e che mi avevano permesso di portare con me quando ne avevo
ingerito alcuni chicchi per dimostrare loro che erano soltanto del cibo e non
roba avvelenata.
In realtà erano quei chicchi quelli modificati dal gene “ Galateo”.
Così, quando l’indomani rividi il Capo di Al Qaeda, pensai che dovevo
giocoforza parlargliene.
Come era stato gentile ed ospitale la sera prima, così fu ospite corretto se
non addirittura amabile in quella mattinata, almeno nei miei riguardi e nei
riguardi di Maia.
Cominciò a discutere, però, soltanto con me, cominciando con un monologo.
Dopo avermi accennato brevemente della sua vita lì tra le montagne, mi disse
che anche lui credeva alla superiorità della Forza della Natura ed ammirava
la Scienza.
Aggiunse che non c’era particolare della mia esistenza che non conoscesse a
fondo e che infine, per quanto si fosse convinto che io fossi ateo, ammirava
la mia testardaggine di credere al mio Progetto.
Anche a lui sarebbe piaciuto vivere in un mondo senza spargimenti di sangue,
libero e felice, ma sotto l’ala protettrice di Allah e che mai avrebbe
abiurato e che sempre avrebbe onorato con la preghiera.
Accennò appena ai campi di istruzione dei suoi guerriglieri che dichiarò
invincibili e pronti al sacrificio della vita per ottenere la fine
dell’egemonia americana ed ebraica nel mondo.
Tuttavia che avrebbe potuto concedermi una possibilità: quella di convincere
l’Amministrazione USA di stabilire con lui una tregua se essi si fossero
definitivamente disinteressati di tutti i Paesi mussulmani.
Lo ascoltavo e riflettevo. Sarebbe stato meglio non parlargli affatto del
grano e del granturco geneticamente modificato sul quale non ne sapeva
assolutamente nulla.
Risposi che il mio progetto permetteva ad ogni uomo di continuare ad avere la
propria religione ma pacificamente, che lo stesso progetto aveva già compiuto
tante opere importanti a partire dalla energia pulita per mezzo della quale
miliardi di uomini erano stati affrancati dalla fame e dalla sete.
Che non ero un politico e che potevo soltanto tentare di parlare con il
Presidente degli USA e riferire a questo le sue proposte.
Avremmo potuto rivederci ma che un ramoscello di ulivo me lo poteva dare: una
tregua di un anno ai suoi progetti bellicosi.
Convenne che questo poteva essere possibile se gli USA non avessero
continuato a fare da padroni nei riguardi dei Paesi arabi e mussulmani.
Offrì a Maia uno smeraldo verdissimo e purissimo e concluse dicendomi che ci
saremmo rivisti esattamente un anno dopo se Allah lo avesse voluto.
Tuttavia, prima che scomparissimo dalla sua vista, Maia volle che accettasse
un libro da lei scritto e dal titolo “ Chi è più intelligente, l’uomo o la
donna? “.
Usama prese il libro e per la seconda volta in due giorni sorrise e la
ringraziò dicendole che senza dubbio era “la donna” la più dotata di
intelligenza pura, senza la quale l’uomo non avrebbe potuto vivere
felicemente.
Il gruppo di uomini che ci avevano portati da lui era già pronto e noi
facemmo la strada del ritorno, bendati ma un po’ più sollevati.
A Vancouver, gli uomini della CIA che erano stati messi in allerta, ci
invitarono molto gentilmente a seguirli alla Casa Bianca dove era pronto a
riceverci il Presidente degli Stati Uniti in persona.
Con quello perorai, con grande convinzione, l’anno di tregua concordato con
Bin Laden e nel frattempo gli mostrai i campioni di chicchi di grano e
granturco da noi creati ex novo con il Gene Galateo, spiegandogli come
intendevamo distribuirlo a tutti gli uomini e donne del Pianeta.
Il Presidente si mostrò stupefatto che io avessi parlato di politica con la
bestia nera degli USA ed al medesimo tempo soddisfatto del mio operato.
Mi disse che tutto si poteva provare ed anche una specie di armistizio con
quel delinquente ma che si rifiutava di parlare con lui non volendosi
compromettere in modo pubblico.
Capii che aveva ragione da vendere ma gli spiegai come avessi pensato di
procedere.
Noi avevamo assolutamente bisogno di quel tempo per rifornire di cibo
geneticamente modificato almeno il maggiore numero di Stati e Paesi ma che
nel frattempo non era necessario la sua personale esposizione.
Attraverso le Televisioni Arabe avremmo potuto comunicare al mondo
l’intenzione unilaterale, di tutto l’occidente, di non usare più le armi nel
mondo arabo e filo arabo preferendo dimostrare a tutti i nostri progetti
umanitari, con la distribuzione gratuita delle farine ottenute dai nostri
cereali che solo noi sapevamo modificati.
Gli Stati occidentali e non occidentali sarebbero stati informati,
parzialmente, del nostro nuovo “Piano Marshall Mondiale”e non più soltanto
europeo, come era stato tra la fine del 1947 ed il 1952 e nessuno si sarebbe
opposto, dal momento che non avremmo chiesto a chicchessia finanziamenti e
basi militari oppure denaro ed anzi avremmo fatto risparmiare loro miliardi
di dollari per nuovi e più sofisticati armamenti.
Avrei agito da solo e sarei stato io che mi sarei esposto, con l’aiuto del
mezzo televisivo, affermando categoricamente che parlavo in nome
dell’Occidente intero e di Paesi altamente industrializzati, quali il
Giappone, la Cina, oltre che di tutti i Paesi che erano, da sempre, stati
amici fraterni della Gran Bretagna.
Lo slogan “Cibo Gratis per Tutti“ sarebbe apparso su tutti i canali
televisivi e su tutti i Media della carta stampata in ogni città o villaggio
sperduto.
Per dare maggiore credito all’iniziativa avrei avuto la collaborazione di mia
moglie Maia- protetta dallo stesso Ulama Bin Laden- che sarebbe rimasta come
medico psichiatra in Pakistan al confine afgano, per tutti i sei mesi di
prova, in un Ospedale dell’Associazione dei “Medici senza Frontiere”
Così, partì il mio Piano Alimentare Mondiale con l’OK del Presidente, degli
innumerevoli Stati stanchi di guerre e con l’approvazione del Principe del
Terrore, senza necessità di incontri.
Maia era convinta della sua altruistica decisione e dell’importanza di quanto
sarebbe accaduto per la Pace mondiale.
Lei non ragionava tenendo conto dei pericoli possibili a cui sarebbe andata
incontro e si fidava della parola dell’uomo, leader indiscusso del Terrorismo
Internazionale.
In parte le davo ragione ma allo stesso tempo io ero molto preoccupato per
quello che le poteva succedere o per puro caso oppure considerando che
comunque avrebbe vissuto in una delle zone più pericolose della Terra.
L’Organizzazione dei Medici senza Frontiere era assai ben vista, da tutti gli
abitanti di quelli impervi territori, per l’umanità dimostrata negli anni dei
vari conflitti avvenuti tra il Pakistan e le Terre afgane e per quanto, di
importante e generosamente, i medici avevano fatto per le popolazioni locali.
Sapevo che in particolare le donne si erano affezionate al personale
sanitario non solo per le cure ricevute ma soprattutto per i loro bambini,
bisognosi oltre che di medicine anche di coccole e protezione.
Più che in un Ospedale, Maia avrebbe prestato la sua opera di psicoterapeuta
in una grande tenda dalle proporzioni veramente colossali contenente almeno
cento letti.
In breve, la sua opera meritoria divenne il fiore all’occhiello di quel luogo
disastrato e segno di indelebile presenza di quanto gli eccidi potessero
causare alla popolazione civile, fino a quando lo stesso Usama si recò sul
posto e cominciò a corteggiare mia moglie, con grande eleganza e con infinite
premure.
Contrariamente a quanto Maia immaginasse, Usama era un uomo al quale le donne
piacevano parecchio ed era dunque vero, come diceva la leggenda su questo
Leader, che egli avesse diverse mogli come un qualsiasi buon mussulmano ricco
ed anche parecchi figli.
Ma, che potesse pensare di impalmare pure lei giamaicana puro sangue ed
inoltre mia moglie, era la cosa più assurda che si potesse immaginare.
In ogni caso egli la colmò di regali preziosi, di poesie scritte in inglese,
di conti svizzeri cifrati in dollari tali da fare impallidire chiunque.
Maia dunque si era improvvisamente trovata in una situazione assai delicata
poiché da un lato non poteva né voleva essere sgarbata, dall’altro lei stessa
aveva voluto aiutarmi per farmi guadagnare tutto il tempo necessario alla
distribuzione delle farine geneticamente modificate.
Tutta la sua intelligenza dovette esercitarsi per tenere, con molta
discrezione, lontano da se quell’uomo ormai invadente e che sembrava essere
impazzito d’amore per lei.
Fu un caso a salvarla dalle sue pressioni, divenute vere ostentazioni e fu
l’unico che mia moglie, anima pia, potesse desiderare.
Bin Laden si era ammalato seriamente tanto che stava succedendo un finimondo
tra i suoi seguaci.
Si trattava con certezza di un tumore, che lo avrebbe obbligato ad un
intervento chirurgico delicato e molto difficile, lontano da quei luoghi..
Maia non lo vide più e gli scrisse una lettera di auguri per una perfetta e
pronta guarigione.
Mentre mia moglie stava combattendo la sua battaglia incruenta, a Vancouver
veniva organizzata la distribuzione delle farine in tutto il mondo, sotto il
patrocinio dell’ONU.
Se tutto fosse filato liscio, in pochi mesi avremmo potuto dire che il gene
“Galateo”, ormai era divenuto parte integrante del patrimonio cromosomico
della specie umana e che si sarebbe trasmesso in maniera biologica a tutti i
discendenti, cancellando per sempre la parola “odio” e “guerra” dal
vocabolario.
C’era tuttavia un fatto che non quadrava.
Era del tutto improbabile che le nostre farine potessero arrivare al cento
per cento delle popolazioni.
Quindi, cosa avrebbero combinato coloro che non si fossero alimentati con i
nostri cereali?
Sarebbero rimasti dei nuclei umani immuni dall’azione del nostro “Gene” e
quelli avrebbero agito secondo le proprie personali convinzioni ataviche e
seguendo i propri istinti ereditari buoni o cattivi che fossero.
Qualcosa avremmo dovuto pensare anche per quella gente.
Interrogai Narciso a riguardo.
Costui si prese una settimana di tempo per dare una risposta e disse pure
che, nei limiti a lui posti, il problema era di difficile soluzione almeno a
breve termine.
Quali erano questi limiti? Non intaccare in maniera categorica il “ Libero
Arbitrio “e non usare nessuna violenza né fisica, né psicologica.
Il fattore “ Q “doveva rimanere libero nelle decisioni da prendere e riguardo
alla massa di “uomini qualunque”, eravamo obbligati ad agire con i guanti
bianchi.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Durante i mesi successivi alla mia visita alla Casa Bianca, Maia aveva
continuato la sua missione presso la Tendopoli dei “ Medici senza Frontiere
“.
Aveva toccato con mano gli strazi di tante donne e bambini e con tutto
l’amore che le riempiva ogni fibra del suo cuore si era prestata con estrema
abnegazione a sopperire, con la parola e con la propria preparazione
scientifica, ai vuoti dell’anima causati da tanti lutti ed abbandoni.
Con la tempra che le era propria non tralasciava nessuna possibilità per
esprimere tutto il generoso motto di se stessa, adoperandosi di dare agli
altri, chiunque fossero, le cose più belle della vita anche se era molto
difficile trasferirle a gente che dalla vita aveva ricevuto soltanto
brutture.
Erano trascorsi ormai cinque mesi da quando Bin Laden si era trasferito
altrove per farsi curare al meglio ed un mattino, Maya si vide recapitare un
messaggio da Ulama in cui quello la supplicava con urgenza di aiutarlo a
guarire.
Lei avrebbe dovuto raggiungerlo in una località segreta del Kashmir, il posto
più bello del mondo, per dargli una mano in modo che superasse, ora, anche la
crisi psicologica nella quale era caduto, dopo la guarigione clinica ottenuta
per mezzo della chirurgia e della chemioterapia.
Maia avrebbe potuto, senza problemi, rifiutarsi.
Invece, capì che Usama le aveva scritto annullando il proprio orgoglio di
uomo invincibile e con tutta la sincerità che poteva ancora possedere una
persona classificata da tutti come una belva.
Mia moglie, oltre che dotata di una eccezionale intelligenza era anche una
donna umile e timida, semplice ed ingenua e non fu in grado di negarsi ad un
uomo che si era rivolto a lei con tanta speranza.
Alla stessa maniera di come si cerca di consolare un condannato a morte in
attesa dell’esecuzione, Maia sentì prepotentemente il superiore valore dello
spirito su quello contingente del rischio che avrebbe corso con Usama una
volta vicina a lui.
Ma c’era anche dell’altro, Maia aveva in passato sentito, direi quasi palpato
con mano, quale personalità carismatica si nascondesse in quel uomo che
avrebbe potuto vivere tutta la sua vita in una suite del più splendido
Albergo di uno qualsiasi degli Emirati e colmare la propria vita di ogni
capriccio o desiderio.
Non aveva dimenticato tutte le premure che Ulama le aveva dimostrato mesi
prima, ma non era stata capace di comprendere appieno cosa quell’uomo volesse
da lei.
Così, decise di andare da lui come medico e non appena la condussero da
costui seppe di avere agito per il meglio.
Usama le si presentò come un uomo differente.
Prostrato, indebolito tanto da non sembrare più lui, del tutto inoffensivo
rispetto a ciò che ricordava tanto che appena la vide pianse lacrime vere.
Non poteva abbandonarlo in quelle condizioni ed ancora maggiormente dopo che
parlandole con voce flebile le raccontò che non era assolutamente vero che la
morte, per un mussulmano come lui, era un paradiso.
Aveva capito invece che la morte era la cosa più orribile che potesse
capitare ad un essere vivente e che se avesse avuto un futuro si sarebbe
adoperato in ogni modo, fosse costato qualsiasi prezzo, ad essere il Leader
della vita, del sole, di tutte le donne e bambini del mondo e che mai più
avrebbe accettato di condividere l’umana sete di sangue.
Disse pure che nemmeno Allah lo avrebbe voluto così cattivo e violento.
Che Allah era buono come il Dio dei cristiani e degli ebrei che si doveva
usare la parola perdono e non odio o guerra.
Maia non aveva creduto alle sue orecchie e si era messa in ginocchio per
pregare e ringraziare il momento che aveva fatto cambiare Usama.
Usama le disse anche che poteva comunicare a Walter la sua conversione di
carattere e di idee e che loro due insieme avrebbero saputo che fare per il
bene dell’Umanità.
Mentre era quasi terminata la settimana di tempo chiestami da Narciso, quasi
in maniera telepatica cominciai a pensare continuamente ed insistentemente a
Maia ormai lontana da me da più di quattro mesi,
Avevo avuto poche e scarse notizie di lei. Sapevo che era viva e che
continuava la sua opera presso i “Medici senza Frontiere”, ma non altro.
Intanto sentivo ogni giorno di più di amarla disperatamente e mi mancava
tanto la sua presenza fisica, i suoi occhi grandi e neri, la sua bocca dalle
labbra carnose, le sue dolcissime mani , le sue lunghe gambe da duecentista
ed i suoi morbidi capelli.
Cominciavo ad essere geloso di lei in modo sproporzionato ed invidiavo tutti
coloro che avevano la fortuna di starle in qualche modo vicino.
Poi, quando ricevetti una comunicazione diretta dall’associazione “ Medici
senza Frontiere ”con cui mi si comunicava che Maia non si trovava più lì ma
che era improvvisamente partita, divenni pazzo.
La mia gelosia non aveva nemmeno il garbo di essere nascosta minimamente da
me.
Nemmeno la possibilità che fosse ferita o morta mi aveva sfiorato il
cervello.
Una specie di piovra gigantesca mi stringeva la sostanza cerebrale e solo la
lontana possibilità che un uomo qualsiasi l’avesse presa per se, era divenuta
la mia più atroce idea tanto da farmi completamente dimenticare il mio
appuntamento con Narciso.
Fu a quel punto che decisi di tornare ad Islamabad, per rintracciare mia
moglie.
Era totalmente passato in secondo piano il grave problema delle popolazioni
che non sarebbero state raggiunte dalle nostre farine modificate, né
immaginavo cosa avesse potuto escogitare Narciso.
L’impulso di raggiungerla non mi faceva ragionare e senza chiedere il
permesso a nessuno mi trovai solo ed infelice, di nuovo, in Pakistan con lo
stesso passaporto che avevo usato nel primo viaggio.
Cominciai a girare per la periferia della città travestito da mussulmano e
spiegai ad ogni curioso che ero un archeologo, specializzato in geologia, che
dovevo raggiungere di fretta la zona montuosa ed impervia dell’ altopiano
“off limits”ad ogni essere vivente.
Riuscii a corrompere con migliaia di dollari tre guardie di frontiera e
passare dall’altra parte con un interprete ed un autista ai quali avevo dato
ciascuno cinque biglietti da mille dollari tagliati a metà, garantendo che il
resto lo avrebbero avuto una volta riportatomi ad Islamabad.
Entrato in territorio afgano, pensai che avrei fatto un salto all’ospedale
dei “Medici senza Frontiere” per parlare con qualcuno che mi avesse potuto
dare qualche notizia su Maia.
Fu un bambino cieco che mi raccontò come due uomini avessero portato la
Dottoressa probabilmente in Kashmir, almeno come aveva sentito dire ad uno
dei due.
Liquidai sia l’autista che l’interprete, subito, con diecimila dollari
ritirando le banconote tagliate in due ed il giorno dopo con un chirurgo
indiano giovanissimo prendemmo la strada, su una jeep per il Kashmir.
Egli conosceva, in una zona impervia di quella Regione, l’esistenza di un
Clinica Privata quasi inaccessibile dal basso dove lavorava un suo amico
indiano, medico anestesista, con il quale aveva studiato - a Nuova Delhi
–durante tutto il corso di Laurea.
Mi disse, in gran segreto, che era lì che probabilmente avrei incontrato sia
Maia che Ulama poiché era da tempo a conoscenza che in più occasioni il
Leader Massimo si era rivolto in quella Clinica, praticamente di sua
proprietà.
A circa un paio di chilometri dalla Clinica fummo fermati da un gruppo di
uomini armati fino ai denti che ci chiesero perentoriamente il lasciapassare
per proseguire e ci sottoposero ad una perquisizione totale ed ad un vero
terzo grado per sapere chi fossimo e cosa facessimo da quelle parti, con quel
camice bianco di cui eravamo bardati.
Fu Kamir, questo era i nome del giovane chirurgo, che rispondendo disse loro
di essere un amico fraterno dell’anestesista della Clinica, Yaref e che io
ero un famoso studioso molto ben conosciuto da Ulama che attendeva la mia
visita.
Il capo del plotone era rimasto di stucco ed al nome di Bin Laden ci fece
sdraiare sulla strada ghiaiosa a faccia all’ingiù, ordinandoci di non
muoverci e che avrebbe indagato personalmente se avessimo detto la verità.
Rimanemmo in quella scomoda posizione per oltre un ora poi, ci intimarono di
alzarci e di seguirli a piedi su per la salita fino allo spiazzo antistante
la Clinica che io riconobbi come un piccolo ma sicuro eliporto.
L’incontro che ebbi in quel luogo, ai confini del nostro universo, con Maia
fu intriso di lacrime ed intenso di emozioni e quando lei mi raccontò della
metamorfosi di Ulama, al momento, stentai a crederci.
Mi sembrava impossibile che Bin Laden fosse così mutato nel profondo del suo
io e che si fosse trasformato in un essere con il quale qualsiasi altra
persona sulla Terra avrebbe voluto avere degli ottimi rapporti.
Chiesi, geloso, quanto lei avesse avuto importanza in quella metamorfosi
tanto inaspettata ed allo stesso tempo tanto gradita e quando Maia,
baciandomi appassionatamente, mi raccontò come erano andati i fatti dal
principio capii che l’uomo, più ricercato del mondo, era stato graziato
soltanto dalla paura della morte e dalla sua incredibile intelligenza che era
rimasta nascosta- come in una prigione- nel suo cervello stordito dalla vita
che aveva condotto fin da bambino.
Maia mi disse che Ulama voleva vedermi ed abbracciarmi perché ormai sapeva
che insieme,io e lui, avremmo fatto del Pianeta la maggiore meraviglia
dell’Universo.
L’ Umanità intera avrebbe fatto un balzo in avanti di un millennio e non
solo, ma tutti si sarebbero considerati fratelli in nome della Pace e della
Vita.
Sembrava che tutti i miei sogni da ragazzino in poi si sarebbero avverati
solo se avessimo convinto il resto del Mondo che Bin Laden era completamente
cambiato,
Il buco nero della morte cerebrale intravista anche da me, aveva creato un
altro essere per il beneficio dell’Uomo Qualunque ed il fattore “Q” avrebbe
avuto ragione di esistere.
Conseguentemente tutti gli Stati altamente industrializzati e non, che
avessero o meno alimentato le popolazioni con i cereali modificati
geneticamente, che fossero stati colpiti oppure risparmiati dall’immane
cataclisma africano direttamente oppure indirettamente, rimasti con i propri
territori completamente indenni o ridotti ad isole più o meno grandi oppure
ad isolotti, solennemente sottoscrissero un Patto Universale di Pace.
CAPITOLO QUINDICESIMO
L’uovo di Colombo era divenuto realtà.
La mia teoria dell’XYZ e del fattore *Q* aveva finalmente preso corpo ed
ipotizzavo che mai nessuno avrebbe provato a scompaginare quelle carte così
faticosamente messe insieme.
Narciso ed i robot in miniatura che a centinaia di migliaia avevamo sparso su
tutta la Terra e che poi avevamo annientato per ridare agli uomini il Libero
Arbitrio, avevano svolto al meglio il loro difficile lavoro, completato poi
dai derivati dei nuovi cibi.
L’alleanza politica con il Leader dell’Integralismo islamico aveva
ulteriormente consolidato tutti i miei piani in modo tale da produrre un
monolitismo assoluto, basato sulla scienza, su tutta la Terra.
Ma proprio il sangue che a metà mi scorreva nelle vene era pronto per mandare
tutto all’aria.
Sì proprio la mia razza ebraica, che si era insediata nei millenni in ogni
terra emersa, era riuscita a mantenersi al di fuori da ogni accordo ed era
l’unica che non avesse firmato il Patto di Pace.
Gli ebrei non avevano in pratica più uno Stato Sovrano.
La loro presenza su ciò che era rimasta della Palestina era cosa effimera ma
ad essi tutto questo non bastava per andare d’accordo con il resto del mondo,
né sembrava che importasse ai loro capi che potevano sempre essere una volta
inglesi o tedeschi oppure americani o ancora greci, italiani, cileni, turchi
e via dicendo.
Per essi nulla aveva maggiore importanza del denaro che sapevano, con
maestria associata ad abilità ed intelligenza, fare fruttare in mille modi
diversi ma determinando nel resto della Terra sia l’invidia che la
consapevolezza che essi non si sarebbero mai sentiti fratelli di ogni altro
essere umano vivente, almeno che non appartenesse al proprio ceppo
millenario.
Tornava a galla come nel VI secolo avanti A.C. il mito di Creso : trasformare
in oro tutto ciò che si toccava senza badare al come ed al perché.
Per essi non aveva nessun peso a quali etnie appartenessero, ciò che era
veramente importante era la solidarietà tra tutti gli israelitici ed i posti
chiave nell’economia mondiale.
Erano gente che pur senza commettere reati, legalmente perseguibili,
viaggiavano ai limiti della nuove Leggi che regolarizzavano i rapporti tra
gli uomini.
Quando si discuteva con quelli, affermavano di essere cittadini integerrimi,
moralmente di esempio a tutti gli altri.
In realtà i fatti li contraddicevano.
Erano rimaste in piedi sia il Congresso Mondiale Ebraico che le
“Organizzazioni Casco” in Europa e specialmente in Inghilterra, Germania e
Francia.
Negli stessi USA gli ebrei della Diaspora avevano stanziato cifre enormi,
ancora, per la protezione fisica di tutti gli ebrei americani e questi non
riuscivano a dimenticare il passato anche dopo il Patto Universale per la
Pace.
Tutto questo alimentava in loro una paura Atavica e in tutti gli altri uomini
un Antisemitismo che, in particolare in Francia, metteva in una vera crisi di
coscienza ogni francese.
Soltanto una minoranza di ebrei si poneva contro questo modo di pensare e di
agire.
Questi erano consci che l’isolamento sarebbe stato impossibile per i nuovi
tempi e dei pericoli che sarebbero potuti capitare ad ogni ebreo nel futuro
prossimo a venire.
La rinuncia al Congresso Mondiale Ebraico sarebbe stato un bel primo passo.
Inoltre tutti i privilegi di cui avevano goduto per secoli, se non fossero
cessati, avrebbero continuato ad alimentare quel sordo odio di razza che
infine avrebbe potuto rivolgersi contro ognuno di loro, come insegnava la
storia all’epoca dl terzo Reich.
L’Antisemitismo diffuso era in parte giustificabile per il criterio assurdo
di uniche vittime che la maggioranza di loro aveva presentato nei confronti
del passato, guerre e terrorismo comprese.
Si era trattato di un comportamento codardo, defilato, ipocrita ed
ingannevole rispetto ai molti che avevano sacrificato le loro vite nelle
guerre cosiddette sante ed ancora, nei disastri provocati dagli attentati dei
guerriglieri Kamicaze anti Israele.
Non riuscivano ad interpretare saggiamente tutto quanto era avvenuto dopo.
Gli sforzi effettuati dalla mia Organizzazione Umanitaria e nemmeno il Patto,
di cui ero stato il promotore, con il Leader di Al Qaeda e con tutti i
Leaders del nostro povero Mondo erano stati sufficienti ad annullare la loro
proverbiale superbia.
Erano preda della Paura pur sentenziando di non avere timore di nulla e di
nessuno.
Temevano addirittura i viaggi sia via mare che con aerei di linea, non
facevano altro che celebrare il loro Olocausto pagando profumatamente le
varie Compagnie Televisive per avere, con frequenza almeno settimanale, sugli
schermi film -da essi stessi prodotti -con cui tentavano di fare rabbrividire
la gente comune per mezzo della visione dei terribili campi di concentramento
e della massa di scheletri e camere a gas, scoperte dalle truppe sovietiche
nel 1945.
Senza nemmeno accennare al fatto che tra i cinquanta uomini più ricchi del
Pianeta, gli ebrei ne rappresentavano almeno la metà, ad essere pessimisti.
Da Los Angeles ad Atlanta, da New York a Chicago, da Parigi a Berlino, da
Pechino a Tokio erano sempre gli azionisti di maggioranza di tutte le
Industrie e delle Società Finanziare che contavano.
Oltre a Narciso pure i miei figli, ormai laureati in Materie di Economia
Aziendale oltre a Maia e compreso Jose, che non aveva tradito le nostre
aspettative, essendo divenuto il maggior esponente vivente di astrofisica a
soli ventuno anni, tutti mi avvertirono di stare molto attento su cosa
avessero potuto combinare gli ebrei.
Non c’era pace per me nemmeno nel momento che avevo compiuto settantuno anni.
Il regalo di compleanno più amaro me lo diede proprio Il Congresso Mondiale
Ebraico che, improvvisamente, aveva deciso che tutti gli ebrei del mondo
sarebbero stati clonati, se lo avessero voluto.
Lo scopo era di moltiplicare di molto il numero degli israeliti in modo da
non andare incontro ad una qualche estinzione della razza.
Ulama Bin Laden ormai era deceduto, tutti i miei amici erano ormai
vecchissimi e non si interessavano più di Politica né di Bioetica oltre che
di Economia Sociale.
Nessuno era emerso sulla Terra per proseguire la mia opera, col carisma che
in passato era stato proprio di tanti miei collaboratori.
Giocoforza, l’unica speranza che mi rimaneva in quel momento era riposto in
Jose e nei miei figli.
Furono proprio loro coloro che mi diedero l’energia per fare ancora un ultimo
sforzo, quello di restituire al fattore *Q* la voglia di vivere serenamente e
così arrivare all’ultimo appuntamento, quello con la mia Morte, nelle
migliori condizioni psichiche possibili.
Molte manifestazioni popolari avvennero contro questo grave illecito etico ma
tutto fu inutile.
In un Referendum Ebraico risultò che l’ottanta per cento della popolazione
mondiale di razza israelitica era per la clonazione e che soltanto il venti
per cento, tra cui i rari ebrei poveri, non la voleva assolutamente.
Mettendo sul tappeto tutto il denaro allo scopo accantonato, che era una tal
massa di soldi più che sufficiente per mettere in attivo i Bilanci Medici di
ogni parte del mondo, il Congresso Mondiale Ebraico iniziò la clonazione di
quella enorme massa di uomini, donne e bambini israelitici.
La mia Associazione mise sull’avviso tutti quei poveri disgraziati del
pericolo che la clonazione comportava per malattie e degenerazioni possibili.
Tutto fu inutile.
Mi ricordai allora di quanto a suo tempo mi aveva ripetutamente detto mia
madre e cioè che il nemico più pericoloso per l’ebreo era un altro ebreo.
E così fu che, quattro anni più tardi, degli ebrei del pianeta Terra ne
fossero rimasti solamente quel venti per cento di poveri che non avevano
voluto essere clonati.
Tutti gli altri, nel breve giro di un anno, morirono senza speranza che
esistesse un minimo rimedio per le loro degenerazioni psicofisiche.
La Strage degli ebrei si era alla fine consumata unicamente per colpa loro.
Chi si era salvato era in gran parte appartenente al ceto ebraico più povero,
uomini qualunque anch’essi.
Sbalorditi divennero silenziosi e più poveri dei poveri.
Unicamente noi della “Nuova Genesi” fummo vicini a questa fetta della
popolazione che per colpa dei pescicani, cui avevano dato sempre retta, erano
stati abbandonati al loro miserabile destino.
Era probabile che il loro Dio e Signore li avrebbe fatti consumare nella loro
stupida idea di essere la razza eletta, ma questo non sarebbe potuto più
avvenire per merito della Scienza alla quale ormai tutti ubbidivano e
mostravano infinita gratitudine.
Un giorno mi sorpresi a rileggere la Bibbia.
Tutto, in effetti, era stato scritto anticipatamente ed il Muro del Pianto
non era servito a salvare la razza di mio padre da tutto il male che essi
avevano causato nel corso dei millenni.
CAPITOLO SEDICESIMO
Mi ritrovai solo con me stesso in una magnifica notte d’estate mentre le
persone cui maggiormente tenevo, Maia, i miei figli ed Jose si erano
sparpagliati chi sulle spiagge della California e del nord della Spagna, chi
in Giamaica per rivedere i vecchi genitori.
Fisicamente, ormai superati i settantasette anni, mi sentivo parecchio
acciaccato ma il mio spirito ed il mio cervello erano ancora in buona forma e
non facevo passare giornata senza meditare sulla mia vita e su quanto questa
mi avesse voluto donare.
Mi ricordavo ancora del mio adolescenziale fattore X 1, la Fortuna, che mi
aveva arriso in ogni occasione, anche le più scabrose e che ora potevo
considerare perfino disperate.
Ero rimasto a Vancouver tra la mia casa e la piccola fattoria con i cavalli e
tutti gli animali da cortile di cui tutti noi eravamo innamorati.
Avevo atteso la notte per potere usare il Telescopio donatomi da Jose e con
quello, nel cielo terso, ammirare le stelle brillanti ed affascinanti.
Jose mi aveva spiegato molte cose di quelli ammassi di stelle ed io le
adoravo tutte.
Misi in posizione il Telescopio e lo puntai sull’Orsa Minore, quel
raggruppamento di stelle tra cui spiccava la stella polare e che
nell’antichità aiutava i naviganti e forse anche Ulisse indicando sempre ed
in ogni caso il Settentrione.
Era quella la stella che preferivo dal momento che non era stata inutile agli
uomini e nel medesimo tempo, probabilmente, aveva consolidato in Ulisse il
desiderio di conoscere altre terre ed altre popolazioni, spingendolo ad
errare per i mari allora ancora sconosciuti.
Mi ricordavo ancora il verso di Dante Alighieri riferito ad Ulisse
nell’”INFERNO”: -fatti non foste a vivere come bruti ma per seguire virtute e
conoscenza-e mi pareva che Dante lo avesse scritto per me Walter Sneneider
tanti secoli prima.
Ero orgoglioso di come avessi impiegato la mia vita.
Sotto un altro punto di vista, non mi ero adagiato nelle chiacchiere inutili
ma avevo cercato di dare al Mondo una nuova Filosofia ed un nuovo modo di
Esistere, e non per niente avevo creato il mio capolavoro con la “NUOVA
GENESI”.
Adesso sì, avrei voluto scomparire in quel cielo nero trapuntato di bianche
fiammelle ed in questo modo dire addio alla mia Terra, soddisfatto ed ancora
sano di mente.
A dire il vero, avrei avuto ancora un desiderio.
Mi sarebbe piaciuto viaggiare tra quelle stelle e godere la bellezza
dell’Universo da vivo ma ciò non era ancora possibile e forse, se gli uomini
si fossero mantenuti nei secoli futuri così come fratelli, ci sarebbe stato
un gruppetto di esseri umani che avrebbero potuto coronare il mio sogno,
magari tra qualche centinaia di anni, poiché il fuoco della scienza e della
conoscenza - ne ero certo -, non sarebbe mai cessato nel genere umano.
Non mi rimaneva altro che immaginare come sarebbe stato il Pianeta Terra nel
futuro e cosa avrebbero fatto tutti i componenti derivati, all’inizio, da
semplicissime molecole proteiche con il proprio DNA.
I veri viaggi spaziali e non quelli effimeri delle pellicole
cinematografiche. avrebbero potuto essere progettati unicamente quando l’uomo
sarebbe stato in grado di fare viaggiare delle stazioni spaziali ad una
velocità assai vicina a quella della luce e non solo ma quando, o attraverso
l’ibernazione dei membri degli equipaggi oppure dopo avere applicato dei
sistemi matematici e fisici al tempo, questo sarebbe scorso molto più
lentamente che sulla Terra.
In ogni caso coloro che sarebbero stati scelti quali membri di quei viaggi,
era certo che non avrebbero fatto ritorno sulla Terra oppure al massimo,
potendo tornarci, non avrebbero mai più visto il Globo terrestre come quando
lo avevano abbandonato e nessuna delle persone lasciate lì prima della
partenza.
Tuttavia la voglia in me innata di conoscere non riusciva a spazzare, dal mio
insieme di neuroni cerebrali, l’idea favolosa che quanto dal cervello entrava
nella ideazione fosse unicamente il frutto di mie farneticazioni.
Guardavo dentro il telescopio e pensavo in continuazione a queste stupende
possibilità.
Avevo, in passato, chiesto a Jose le ultime notizie sui Buchi Neri ma non su
quello che personalmente avevo vissuto nel delirio della mia incoscienza
quando ebbi notizia del disastro epocale accaduto in Africa, tanti anni
prima.
Avrei voluto che egli mi spiegasse gli ancora insoluti misteri dell’Universo,
ma Jose mi raccontava come l’astrofisica si trovasse ancora lontana da chiare
e vere spiegazioni.
Era allora che cadevo nel malessere e nella tristezza e mi sentivo
sprofondare nell’immenso baratro della mia ignoranza e conseguentemente nel
buco nero della mia coscienza.
Ma quella notte d’estate, nemmeno i miei cattivi pensieri erano riusciti a
rovinarmi la gioia che mi aveva invaso nell’ ammirare la bellezza che copriva
tutto, sopra di me.
Mi trovavo in una specie di dolce estasi e mai avrei potuto immaginare cosa
sarebbe accaduto dopo la mezzanotte.
Avevo guardato il mio orologio da polso : segnava il primo quarto d’ora del
nuovo giorno quando, mentre gli occhi erano puntati attraverso il telescopio
sulla costellazione dell’Acquario, tutto il campo visivo divenne di un rosso
violaceo accecante.
Da prima pensai che fossi stato colpito da una emorragia cerebrale, poi mi
resi conto che quella palla di fuoco enorme non era altro che un immenso
meteorite che stava attraversando l’atmosfera.
Il tanto temuto disastro cosmico stava per abbattersi in qualche posto della
Terra.
La Natura stava per mostrare la sua immensa forza distruttiva.
L’Apocalisse si sarebbe compiuta entro quarantotto ore al massimo, ed io non
avrei mai più visto Maia e nemmeno i miei figli e Jose.
Conservai tutti i miei scritti in un contenitore di piombo spesso un metro e
nella speranza che forse un giorno, qualche essere di qualche altro pianeta
avesse potuto ritrovare i miei manoscritti, mi chiusi in una cellula di
sopravvivenza posizionata a cinquanta metri di profondità, sotto la mia casa,
attendendo la morte serenamente.