ANNO DUEMILA E TRENTA (Racconto)
ANNO DUEMILA E TRENTA
(C) ARMANDO ASCATIGNO
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
CAPITOLO PRIMO
L’iguana stava immobile sulla sabbia dopo l’uragano che aveva colpito con
inaudita violenza l’isola al largo del Venezuela:
Mi ero catapultato quando aveva visto un pezzo di terra ferma ma non ero in
grado di stabilire assolutamente quanto grande fosse quell’isola che avevo
appena intravisto, in mezzo alla nebbia ed alla polvere, da venticinquemila
piedi di quota.
Ero capitato a meno di quindici metri dal grande rettile con il paracadute e
con il mio zaino salva-vita. Avevo in mano il lancia- razzi al laser e mi ero
accucciato dietro una piccola duna per osservarla.
Vedevo il colore verdastro del dorso e la cresta dorsale aculeata oltre alla
tasca cutanea pendente sotto la gola ma non mi rendeva conto se quel rettile
fosse immobile per mimetizzarsi o perché fosse morto
Sembrava stordito, tramortito ed io ero affamato.
Pensai che se l’avessi uccisa l’avrei potuta mangiare come mi avevano
insegnato al centro di sopravvivenza di Houston nel rifugio atomico, scavato
a novecento piedi sotto terra, da dove ero uscito con il mio caccia a
propulsione nucleare dopo un intero anno di segregazione.
Lentamente strisciando mi avvicinai all’iguana e quando fui vicino mi accorsi
che era moribonda forse per fame o peggio per il Fall Out del pulviscolo
radioattivo che l’aveva colpita, sei mesi prima, quando era scoppiata la
guerra tra gli Usa e la Colombia a causa della fornitura di ordigni nucleari,
da parte dell’Islam Integralista senza nome se non quello del terrorismo, al
Cartello della cocaina ormai padrone di quello Stato sud americano.
La prima bomba, di piccola potenza, era stata fatta esplodere a San Francisco
ed aveva fatto due mila morti oltre a provocare la distruzione dell’antico
ponte Golden Bridge e di quasi tutto il porto, compreso quasi tutto il centro
storico e commerciale da Daly City a Mill Valley al di là del Golden Gate.
Bastò quella bomba perché gli USA reagissero annientando Bogotà e mezza
Colombia.con conseguenze atomiche deleterie per tutto il Venezuela, la Guyana
britannica e francese nonché il Suriname.
L’ordine era venuto dal Presidente, uomo di sangue e di razza ebraica
irresponsabile, nella stessa misura dei terroristi arabi.
Io avevo tentato di ribellarmi a quella inaudita vendetta, quale Capo
dell’Air Force nel settore atomico, ma l’ordine era stato già eseguito quando
i miei uomini si erano raccolti attorno a me con le mie stesse motivazioni ed
il risultato era stato quello di rimanere bloccati nei rifugi, senza poter
fare nulla di quanto avevamo progettato e cioè di rispondere con l’uso delle
sole armi convenzionalì già di per sé ultrapotenti.
Avevo ottenuto il grado di generale per meriti di guerra e non c’era stato
nessun conflitto, degli otto, degli ultimi venticinque anni,che non mi avesse
visto in prima linea.
Ora il disastro atomico, di una unica bomba all’idrogeno di potenza enorme,
aveva provocato una catastrofe mai verificatosi prima sulla terra e già si
calcolavano i morti a decine di milioni e le conseguenze sugli uomini,
animali ed ecosistema che non si potevano ancora prevedere.
Il Presidente si era suicidato e gli USA erano governati da un Direttorio
democratico- repubblicano con a capo uno staff di scienziati.
Il compito che mi era stato assegnato era stato quello di controllare
dall’alto tutto il territorio a nord del Rio delle Amazzoni, ma mentre ero
sulla verticale della costa nord-est del Venezuela sull’Atlantico, un
improvviso guasto al propulsore nucleare del mio aereo, mi aveva costretto a
lanciarmi, per non precipitare insieme al mio veicolo non prima di aver
neutralizzato il reattore atomico, da una quota talmente alta che nessuno
fino allora aveva mai tentato. .
Così ora mi trovavo sull’isola senza la possibilità di comunicare a voce non
funzionando più il mio telefono satellitare ed avendo con me solamente un
goniometro ed una bussola.
Ero certo di trovarmi a nord-est del Venezuela e la savana alle mie spalle
con le paludi che potevo scorgere intorno, qualche laguna non molto estesa e
quei rilievi, che a mala pena intravedevo, in mezzo alla nebbia verso
occidente , mi avevano fatto pensare di essere a Trinidad.
Soltanto se fossi riuscito ad arrivare in alto, su quella montagna, avrei
avuto la conferma della mia deduzione perché sapevo che Trinidad, ad ovest
aveva un grande golfo con due piccole penisole..
La decisione che dovevo prendere subito, nel momento che ancora mi sentivo
sufficiente forza e vigore, poteva essere di importanza vitale per me che in
quel momento non sapevo nemmeno dove mi trovassi.
Così mi incamminai, con tutte le poche cose che possedevo racchiuse nello
zaino, verso quella specie di alta collina mentre osservandomi intorno vidi
una enorme anaconda, lunga più di dodici metri, stecchita tra la palude e la
savana con inequivocabili segni di morte per effetti nucleari.
Raggiunsi con molta fatica quasi la sommità del monte e mi guardai attorno.
Incredibilmente avevo visto giusto, ad occidente osservai il grande golfo di
Parià, scorgendo pure le due penisolette una a nord ed una a sud dello
stesso.
Sapevo che in mezzo al golfo, sulla costa, avrebbe dovuto trovarsi Port of
Spain la più importante città di Trinidad. Avrei forse capito cosa fosse
rimasto di quella città dopo l’esplosione nucleare in Colombia.
Misi in bocca un liofilizzato di proteine, di zucchero e maltosio, pescato
nello zaino e mi dissetai con una bottiglia d’acqua che era tra le cose più
preziose del Kit di sopravvivenza e, nello stesso tempo, proseguii il cammino
questa volta in discesa. verso la costa mentre mi guardavo attorno.
Non esisteva più nulla della vegetazione lussureggiante che invece avrei
dovuto incontrare. Tutto ciò che mi circondava era solo morte, non un filo
d’erba ed un lacerante panico si stava impadronendo del mio cervello mentre
immaginavo quale squallore avrebbe potuto attendermi a Port of Spain.
Verso occidente seguivo il sole tramontare e non perdevo di vista quel punto
di riferimento anche se lo sguardo osservava un sole, come avvolto da una
garza di colore giallognolo, malato che non era più il sole splendente di
luce come sempre era stato nelle Antille, anche se da quella parte dell’isola
non c’era più la nebbiolina che avevo visto al mio atterraggio col
paracadute, nella zona paludosa dell’isola e poi salendo i pendii della
montagna.
Riuscivo a mala pena a distinguere il sentiero per gli occhi arrossati e
stanchi benché avessi sul naso degli speciali occhiali anti radiazioni e
tutta la mia testa fosse avvolta da un cilindro di protezione.
Quando fui arrivato in pianura presi il mio contatore Geiger e lessi che
nell’aria vi erano poche tracce di radiazioni atomiche mentre il terreno mi
dava risultati appena sotto il limite di pericolo ma non era stato ancora
contaminato irrimediabilmente.
La speranza che nella città vi fossero dei sopravvissuti cominciò allora a
far capolino nella mia mente e con quella speranza entrai a Port of Spain.
Due individui mi accolsero poco dopo.
Erano coperti di stracci e si reggevano in piedi a malapena, sorreggendosi
l’uno con l’altro, appoggiati ad un muretto della piazzetta tutto annerito di
uno sporco strano che certamente era piovuto dal cielo.
Le loro facce, devastate da piaghe, incutevano pietà e con voce flebile mi
chiesero in un buon inglese se mi trovassi lì per aiutarli.
Li osservai attentamente, potevano avere l’uomo, una trentina di anni mentre
la donna implorante, solo un ventina.
Presi dallo zaino qualcosa da mangiare e la porsi a quelle ombre umane senza
rispondere, ma subito dopo chiesi se ci fosse altra gente viva.
Mentre quelli si erano buttati sul cibo, come due lupi famelici con i denti
tra gengive sanguinolente, prima di stramazzare al suolo per la debolezza, mi
dissero che c’erano ancora un migliaio di vivi tutti nascosti in un hangar
sotterraneo in condizioni migliori delle loro e che per questo non uscivano
all’aperto di giorno pensando che l’aria della notte fosse più salubre di
quella del giorno perché di notte non c’era vento proveniente da oriente.
Quei due, dissero, che non avevano voluto rimanere nascosti nella speranza
che qualcuno li avesse potuti soccorrere.
Quelli rifugiati nel hangar si nutrivano di ciò che riuscivano a trovare di
notte, frugando tra le botteghe ancora rimaste in piedi oppure tra quello che
era ancora rimasto in scatola in alcuni Super-Market.
Promisi ai due morti viventi che ci saremmo rivisti l’indomani in quel
medesimo posto e mi allontanai dirigendomi verso il porto.
Era ormai chiaro che nessuno dei sopravissuti coltivavano alcunché.
Né cacao o caffè o banane avrebbero più visto l’uomo attendere i loro
germogli e che avrei potuto dare una mano a tutta quella gente solo se avessi
potuto mettermi in comunicazione con Houston
Avevo fretta di giungere agli ancoraggi del porto e constatare “ de visu”,
personalmente, se vi fossero imbarcazioni ancora in uno stato tale da poter
prendere il largo con qualche possibilità di arrivare sulle coste del
Venezuela
Quando vi giunsi vidi il vuoto davanti ai miei occhi. Altro che battelli o
imbarcazioni! Non c’era più nulla che potesse navigare e pensai che i più
svelti di Trinidad avevano avuto molto prima il mio stesso pensiero.
Deluso mi spostai un poco più a sud e fui folgorato dalla visione di una
barca a remi posata su un piccolo molo.
La osservai attentamente, non mi pareva lesionata anche se non dava nessun
affidamento riguardo la sua solidità; avrei tentato in ogni caso di
allontanarmi da Trinidad con quella, qualsiasi fosse stato il rischio di
finire in fondo al mare.
Mi accucciai nella barca per dormire. Ero tremendamente stanco, quasi ubriaco
di sonno, ingoiai ancora dei liofilizzati e mi addormentai di colpo
profondamente. L’indomani, prima di imbarcarmi, avrei rivisto quelle due
anime ed avrei promesso che una volta in Venezuela avrei fatto in modo che
una nave sarebbe giunta a Trinidad per portarli in America dove tutti
avrebbero avuto le migliori cure possibili.
L’uomo e la donna della sera precedente erano ad attendermi quando verso le
sei di mattino tornai da loro.
Raccontai del mio piano e li salutai donando a quelli tutto ciò che avevo
nello zaino, di commestibile, ad eccezione dei contenitori con i liofilizzati
ed omogeneizzati che sarebbero serviti a me per sopravvivere.
L’unica cosa che mi dissero ancora fu che la donna aveva partorito due mesi
prima, invece che un bambino, un mostro senza testa e che essi stessi
sapevano di essere gravemente ammalati e senza un briciolo di speranza
CAPITOLO SECONDO
Mentre il generale Mike Stuart cercava di raggiungere il Venezuela a bordo
della barca sgangherata e rattoppata che aveva trovato a Port of Spain e che,
con un albero di fortuna, aveva trasformato in una fantomatica barca a vela
utilizzando una tela trovata a bordo di quella, al Quartiere Generale di
Houston ci si domandava dove fosse finito quel valoroso combattente e che
fine avesse fatto il suo aereo, dopo gli ultimi contatti radio-video
satellitari che lo avevano tenuto sotto controllo fino alle Antille.
C’erano due opinioni contrastanti.
Gli uomini del suo Gruppo giuravano che in ogni caso era salvo mentre di
opinione diversa erano gli altri importanti Generali del centro-antiatomico,
che affermavano che nessuno sarebbe potuto sopravvivere, in quella zona
territoriale dove era stato raggiunto l’ultima volta con il satellite delle
tele- comunicazioni, in quanto tutto quel territorio era stato dichiarato
“Off Limits” per la radioattività che continuava a dilagare senza freni.
In sostanza però nessuno dei due gruppi aveva supposto che l’aereo di Stuart
avesse potuto avere una avaria così grave, come in realtà era successo e così
repentina, da costringere il pilota a paracadutarsi dalla quota di
quarantacinquemila piedi. e per giunta sopravvivere.
Così, mentre i suoi uomini avrebbero voluto avere almeno qualche segno di
vita o di morte del loro Generale, gli altri affermavano che non valeva la
pena rischiare per qualcosa che secondo gli stessi era ormai assodata.
Il Generale Mike Stuart doveva essere considerato disperso, come dire morto,
usando un eufemismo.
Fu allora che il Maggiore Peter Frey, suo grande amico,.bypassò gli altri
facendosi autorizzare dagli uomini del Direttorio che facevano le veci di un
Presidente, Comandanti in Capo dell’aviazione USA.
Peter Frey, il giorno dopo, sorvolò a bassissima quota tutta la zona dove
avrebbe dovuto trovarsi Mike e passò a volo radente pure suTobago e Trinidad.
Stava dirigendosi verso il Venezuela, sempre a bassa quota sul mare, quando
vide un abbozzo di barca a vela, con a bordo un uomo che si stava sbracciando
verso di lui e che stava dirigendosi, spinta da un vento impetuoso, verso il
sud oltre il Venezuela ai confini con le Guyane.
Peter passò più volte sopra la barca, riconobbe non l’ uomo ma la tuta del
suo amico e immediatamente dopo virò verso Houston per dare la buona notizia
sia a tutti i fedelissimi amici di Mike sia alla moglie, che si stava
struggendo in lacrime nella sua casa di Dallas.
La barca con il suo straccio di vela, dopo aver avvistato con il cuore in
tumulto quell’aereo americano che mi era passato più volte sulla testa e che
mi aveva un po’ rinfrancato sulla mia sorte futura, aveva preso velocità a
causa di un forte vento da nord-ovest e di una altrettanto forte corrente
dell’oceano di direzione analoga.
Cominciavo a sperare di raggiungere la costa quando vidi delle altissime
colonne di fumo nero che salivano verso il cielo plumbeo, dalla zona che
presumevo essere il territorio paludoso ed acquitrinoso che circonda il delta
dell’Orinoco.
Tutto quel fumo se da una parte, mi aiutava a non perdere la prua della barca
verso il Venezuela, mi stava avvisando anche che se avessi continuato quella
rotta sarei capitato in mezzo agli incendi dei pozzi petroliferi venezuelani
senza che avessi nessuna possibilità di scampo.
Dovevo cambiare rotta e dirigermi più a sud, parecchio più a sud per non
finire arrostito.
Tolsi la vela stracciata ed imbracciai i remi governando la barca. spinta dal
vento ma soprattutto dalla corrente, in direzione sud-sud-est.
Sapevo che se avessi avuto molta fortuna sarei approdato su qualche spiaggia
delle Guyane e lì avrei potuto dire di essermi salvato almeno
momentaneamente.
Lottai tutta la notte per mantenere quella rotta e mi stavo meravigliando
della robustezza della barca quando al mattino ebbi la visione di una
spiaggia e dietro a quella dei canneti e più lontano una parvenza di foresta
che non bruciava.
Dopo tre ore ero finalmente sulla terra ferma certamente a sud del delta
dell’Orinoco forse sulle coste della Guyana Britannica, a qualche decina di
miglia da Georgetown ed abbastanza vicino alla foce dell’Essequibo.
Scoprii in seguito di essere sbarcato forse, oltre il confine meridionale
della Guyana Britannica e quella città che avevo intravisto da lontano non
era Georgetown ma New Amstrerdam, al confine con il Suriname sulla foce del
Berbice, vicina ad i numerosi fiumi che segano quella regione da sud-ovest
verso nord-est per raggiungere l’Oceano Atlantico, uno dei posti che fino a
qualche anno prima avevano conservato intatte le bellezze selvagge delle
foreste sopra-equatoriali.
Abbandonai la barca sulla spiaggia e con il contatore Geiger misurai la
radioattività del terreno tutto intorno.
Il territorio dove ero capitato presentava un radiosegnale sotto i limiti di
pericolosità per l’uomo e così era per l’acqua dei numerosi rigagnoli e
ruscelli che avevo visto nei paraggi.
Quello che non sapevo era se quell’acqua fosse potabile o meno ma un piccolo
uccello, che era spuntato dalla boscaglia, un miglio oltre il confine della
sabbia, mi fornì l’indicazione che volevo conoscere.
Quello aveva bevuto e mi sembrava in buone condizioni di salute, per cui
anche io avrei bevuto la stessa acqua almeno che non avessi deciso di crepare
per essiccazione e disidratazione.
Avevo visto pure un caimano in quel rigagnolo ed era un caimano che non
denotava segni di esposizione esogena ed endogena agli effetti dell’atomica
sganciata su Bogotà ed anzi vidi che, fuori dall’acqua, sembrava piuttosto
vivace nel muoversi e che stava trangugiando un piccolo di capibara
Comunque non avevo altra scelta e quindi mi sarei inoltrato verso l’interno
per scoprire una qualsiasi strada che mi portasse almeno in un villaggio.
Una folta vegetazione mi impediva di progredire rapidamente. Avevo nel mio
zaino un largo ed un acuminato pugnale e con l’aiuto di quello mi facevo
strada con fatica.
Dopo tre miglia di cammino mi imbattei in un acquitrino largo e profondo
tanto da sembrare un piccolo lago, dalla superficie piena di foglie secche e
maleodoranti.
C’era un silenzio irreale e non avevo visto nei pressi di quello nemmeno un
uccello come se fossero tutti spariti o avessero disdegnato quel posto.
Mi ero messo ad osservare se ci fosse qualcosa di vivo nello stagno e dopo
pochi minuti vidi uscire dall’acqua un essere orripilante metà uccello e metà
serpente.
Aveva due zampe lunghe e coperte di squame, dal colore grigio nerastro,
larghe e grosse e dalle quali usciva un siero giallastro e rossastro come se
fosse pus misto a sangue. Con la testa da serpente tirava fuori una lingua
che nulla aveva a che fare con quella di una serpe e con quella lingua piena
di ulcere si leccava le zampe voluttuosamente.
Mi allontanai dal mostro deforme impugnando la mia arma al laser e mirando
alla testa sparai una raffica. Il mostro non voleva morire e benché colpito
con tutta la brutalità e con tutta la paura che mi era penetrata fino dentro
lo stomaco, cominciò ad avvicinarsi minaccioso verso di me.
Presi il mio grosso pugnale e come un fulmine tagliai di netto la testa che
mi cadde tra i piedi, poi con tutta la forza che mi era rimasta presi una
pietra e gli schiacciai il cervello.
Mentre mi ero seduto, sfinito, riguardai ciò che era rimasto della bestia
spuntata dall’acquitrino e mi resi conto che quella non poteva essere altro
che una mutazione genetica causata dalle radiazioni atomiche che avevano
raggiunto anche la ex Guyana olandese cioè il Suriname.
Non avrei mai supposto che a così grande distanza dal punto di esplosione gli
effetti radioattivi avessero potuto combinare guai tanto seri ed atroci per
il mondo animale.
Ricordavo però che nei giorni dello scoppio della bomba H, le stazioni meteo
negli USA, avevano annunciato che nel Centro Sud-America si era formata una
nube radioattiva che sarebbe stata spinta dai venti, verso oriente in
direzione dell’Atlantico ma non avevo immaginato che quella sarebbe arrivata
fino al Suriname.
Infatti la mia missione era stata di constatare cosa fosse successo realmente
in Venezuela e nelle isole, ma il fato aveva voluto che io capitassi proprio
a Trinidad e poi, dopo avere visto dal mare i pozzi di petrolio venezuelani
ancora in fiamme, fossi giunto in un paese di cui da sempre avevo ammirato
l’ecosistema sia della fauna che della flora.
Avere visto quel mostro da me ucciso per paura, vergognandomene subito dopo,
non mi aveva arrecato che tristezza al pensiero che il genere umano
rappresentasse la vera belva feroce sulla terra e contemporaneamente quello
che ha sempre creato situazioni vergognose verso quel mondo che l’aveva
ospitato con amore, donandogli spontaneamente un sistema, che tutti ci
avrebbero invidiato se vi fossero stati altri esseri pensanti nell’Universo.
Tra l’altro, oltre al racconto di quei due poveri diavoli a Trinidad riguardo
al loro figliolo, il pensiero volò a tutte quelle centinaia di migliaia di
bambini che sarebbero nati deformi o gravemente ammalati e poi a mia moglie
Holly che avevo lasciato nella nostra villa nel Texas, piena di fiori ed
alberi, che ci rallegravano e che ci avevano dato in ogni occasione tanta
compagnia e tanta dolce tranquillità.
Di una sola cosa ero felice ed era quella per la quale avevo tante volte
bisticciato con lei.
Il non avere voluto figli era stata una mia decisione di cui ora mi sentivo
fiero, perchè Holly li aveva tanto desiderati con tutta la sua passione di
donna dolce e lontanissima da tutte le brutture umane, al contrario di me che
di atrocità ne aveva viste tante e sempre peggiori.
Anche se fossi sopravvissuto a quello scempio mai avrei dimenticato ciò che,
mio malgrado, avevo da sempre supposto e cioè che sarebbe stato l’uomo
l’artefice dell’Apocalisse.
CAPITOLO TERZO
Dovevo assolutamente raggiungere un aeroporto amico e quindi avevo due sole
possibilità, o dirigermi verso Georgtown, alla foce del fiume Demerara,
camminando lungo la costa ma all’interno o tagliare direttamente su Mackenzie
nei paraggi della miniere di bauxite ed ai piedi dell’altipiano a duecento
metri sul livello del mare, dove fin all’anno prima ero stato ospite di quel
Comando Aereo Britannico alcune volte, attraversando la foresta e la fitta e
pericolosa savana.
Pensai che la prima destinazione fosse la più sicura per orientarmi ma la
seconda mi attirava di più perché avrei potuto vedere altri animali e se
anche quelli fossero stati toccati dagli effetti delle particelle atomiche
come il mostro che avevo massacrato alcune ore prima.
Avevo ancora provviste sufficienti per alimentarmi per almeno sei giorni,
avrei soddisfatto la mia curiosità di studioso dei sistemi biologici della
Terra ed infine, nel caso che le cose fossero andate per il verso giusto,
avrei fatto un importante rapporto al mio Direttorio ed al gruppo di
scienziati che governavano gli USA.
Decisi per la seconda soluzione.
Mi sarei vergognato se avessi pensato soltanto a portare a casa la mia pelle
ora che mi trovavo proprio in quel posto che consideravo, come studioso,
fondamentale per le previsioni di come sarebbe stata la vita sul pianeta dopo
la catastrofe voluta da coloro che non avevano capito niente sulla
pericolosità dell’atomica.
Mi ero sufficientemente riposato in compagnia dei miei pensieri e delle mie
deduzioni tumultuose e probabilmente alquanto romantiche, in un posto
avvincente ma privo di un minima serenità.
Era ora che mi incamminassi ed attraversassi la foresta armato del mio largo
pugnale e del mio lancia-razzi.
Solo ai piedi avvertivo dolore e gonfiore.
Da quando mi ero paracadutato non mi ero levato i miei stivaletti e non avevo
usato acqua per lavarmi e cominciavo a puzzare sotto quelle piogge a tratti
copiose e violente di cui però avevo analizzato la radioattività sempre sotto
il limite di pericolo per gli uomini
Nelle prime tre ore di cammino non incontrai animali di nessuna specie e la
luce del giorno riusciva ancora a filtrare tra i rami e le foglie mentre il
caldo umido e soffocante mi impediva di respirare con facilità.
Quando però arrivai in piena savana, improvvisamente, fui circondato da
alcuni meticci e da diversi negri che mi minacciarono di morte se non avessi
consegnato loro il mio zaino e le armi.
Uno di questi negri, un tipo alto e grosso, orbo nell’occhio destro, parlava
bene l’inglese e sembrava il capo di quella banda di sbandati.
Gli dissi di non essere scemo e di prendere mille dollari, che era meglio per
lui trattarmi bene e che non potevo consegnarli né zaino né armi.
Gli dissi pure di appartenere ad un gruppo di assalto americano, il quale
stava girando con me nella foresta in perlustrazione di bande di predatori ed
ex carcerati, che avevano ordine di uccidere se avessero alzato un solo dito
contro un qualsiasi americano.
Non so se quello credé alle mie parole ma ciò che ricordo fu che prese i
mille dollari e mi disse di proseguire facendo attenzione perché, nei pressi,
aveva visto una specie animale che non conosceva e che gli era sembrata
mostruosa e molto pericolosa.
La bestia descrittami non era simile a quella trovata da me poco dopo essere
sbarcato e sembrava che facesse pensare ad una altra mutazione, questa volta
interessante i caimani.
Il negro, divenuto affabile dopo il bigliettone sparito nelle sua tasche, mi
raccontò anche che tra gli uomini che conosceva non era successo nulla di
strano e che solo alcuni bambini partoriti in quei tempi mostravano segni
anche gravi di malformazioni.
Aggiunse che l’acqua dei piccoli rivoli della foresta poteva essere bevuta
tranquillamente e che anche gli agrumi che avrei trovato, quando la
vegetazione sarebbe diventata meno fitta, poteva essere un buon alimento.
Essi si cibavano di riso, cocco e di qualche banana senza problemi ma
evitavano di entrare negli agglomerati umani e nei villaggi per le pestilenze
e malattie che lì regnavano sovrane.
Dopo che gli diedi altri trecento dollari per distribuirli tra i suoi uomini
ci salutammo entrambi soddisfatti di quell’incontro.
I tre caimani, che incontrai strada facendo in prossimità di un largo e
profondo stagno, più che paura indussero in me una profonda pietà.
Erano completamente diversi dal caimano che avevo visto perfettamente sano
mangiare il piccolo capibara nei pressi del luogo dove ero sbarcato e dedussi
che solo alcuni di quei rettili acquatici fossero stati contaminati.
La velocità nei movimenti di quelli avanzi della preistoria, che conoscevo
bene essendo stato per parecchio tempo in Florida, era ridotta almeno
dell’ottanta per cento. Strisciavano lentamente su zampe piccolissime e la
loro testa enorme aveva però una bocca talmente piccola che mi chiesi come
avrebbero potuto mangiare la stesse cose di cui si erano cibati per milioni
di anni.
Non sembravano pericolosi ma solo affamati ed il solo cibo con cui vidi che
si nutrivano erano dei piranha, numerosi in quello stagno coperto di
vegetazione grigio-verdastra.
Ero in dubbio se avvicinarmi o meno ad essi quando vidi un enorme anaconda,
grande e grosso almeno quattro volte di più del più gigantesco anaconda che
avessi mai visto, buttarsi su due dei tre caimani stritolandoli e poi
mangiarseli con un enorme boccone.
Esternamente l’ anaconda non aveva deformità gravi se non le dimensioni,
tuttavia mi accorsi che la sua testa e quindi presumibilmente anche il
cervello doveva essere di peso almeno triplo di quello che aveva avuto
precedentemente allo scoppio atomico e tale sviluppo si poteva notare dallo
sguardo del serpente che esprimeva vivacità ed attenzione incredibili.
L’anaconda, dopo aver ucciso e ingoiato i due caimani, volse la testa verso
di me e cominciò a guaire come un cane quando è in presenza del suo padrone.
Rimasi paralizzato quando con una velocità simile a quella di un proiettile
si pose a pochi centimetri dal mio capo ed immobile aprì la bocca.
Non credei alle mie orecchie quando udii distintamente il serpente abbaiare
come un cane contento mentre una specie di sorriso gli illumino gli occhi.
Non aveva nessun atteggiamento aggressivo nei miei confronti e mentre ero
rimasto completamente immobile, l’anaconda posò la sua enorme testa sul mio
collo come se volesse ricevere qualche carezza.
Non avevo il coraggio di fare nessun gesto tanto ero rimasto sbalordito e
subito dopo sentii il rettile posare delicatamente il collo sulle mie braccia
e leccarmele con voluttà.
Volli sondare le sue intenzioni pur essendo conscio del pericolo cui andavo
incontro e con i miei guanti ebbi l’audacia di passarli lievemente sul collo
ottenendone una assurda sensazione di tranquillità.
Capii che anche quel rettile aveva subito mutazioni, ma in questo caso
favorevoli , avvicinandosi di più alla scala biologica superiore.
Sarebbe stato bello ed interessante portare quel rettile negli Stati Uniti e
capire dalle cellule embrionali come si fosse modificato il DNA.
Ma queste erano solo fantasie mentali e speranze di uno studioso che
difficilmente, in futuro, avrebbero potuto realizzarsi.
L’importante per il momento era di raggiungere la meta prefissata e giungere
senza troppi intoppi pericolosi all’aeroporto di Mackenzie.
Approfittai che l’anaconda si addormentasse per andarmene alla chetichella,
continuando ad attraversare la foresta che, verso l’imbrunire, lentamente si
riempì di suoni alcuni piacevoli ed altri lugubri provenienti da ogni dove e
che incutevano timore misto a spavento.
Quando il buio della notte divenne profondo, senza che nemmeno un timido
chiarore lunare filtrasse attraverso gli alberi, il fogliame e le liane
divenute in quel posto fittissime, mi arrampicai su un albero e trovato un
robusto ramo scavato ad amaca mi legai a quello per riposare e dormire almeno
fino all’alba.
Stranamente il mio cuore aveva riacquistato un ritmo tranquillo. Erano
terminate le crisi tachicardiche che negli ultimi giorni non mi avevano mai
abbandonato e pur essendovi una umidità di oltre il novanta per cento la
sensazione di morire per l’eccesso di calore si era attenuata.
Prima di addormentarmi, nel dormi-veglia, ripensai al globo terracqueo nel
quale tutti gli uomini ancora vivevano increduli delle atrocità che altri
uomini, che pure si credevano normali e giusti, avevano perpetrato contro
tutti, nemmeno fossero solo essi degli Dei padroni della Terra.
Avrei voluto vedere in quel momento i loro volti sbarbati di fresco,
profumati dall’ultimo ritrovato della moda ed i loro vestiti tirati a lucido
con le scarpe splendenti di cromatina e le calze di giornata, mentre non
solamente io puzzavo di sporco ed avevo la divisa già quasi a pezzi pregna di
luridume, ma nello stesso tempo il mio viso sembrava essere quello di un
altro uomo, trasfigurato e nei lineamenti e nell’aspetto e nel carisma che
avevo sempre posseduto, alto e biondo con gli occhi azzurri e la fossetta al
mento a darmi un aspetto simpatico ed affabile.
Ora il Mike che tutti ammiravano era un poveruomo abbandonato a se stesso ed
in mezzo alla foresta della Guyana, tra i mostri provocati da quella
maledetta atomica ed i poveracci che speravano di farcela a sopravvivere, con
sulla testa il pericolo di ricevere anche lui una tal dose di radiazioni che
avrebbero potuto ucciderlo magari nel tempo
Non furono sufficienti i tristi pensieri a non farmi cadere in un sonno
profondo e senza sogni.
CAPITOLO QUARTO
Intanto, negli USA, il Direttorio governativo con la collaborazione dello
Staff di scienziati stava cercando di ricucire i rapporti diplomatici con
l’Europa, la Gran Bretagna e la Russia che erano diventati tesissimi, nonché
quelli con i Paesi Arabi ed il Giappone che non riuscivano a comprendere come
fosse stato possibile una così violenta ritorsione, all’atto terroristico
contro San Francisco, perpetrato con una atomica di piccola potenza anche se
micidiale per la città e per i suoi abitanti.
I morti erano stati meno di duemila, i contaminati non più di diecimila e i
danni ammontavano ad alcuni miliardi di dollari, oltre alla distruzione del
Golden Bridge che sarebbe stato ricostruito per intero più bello e più solido
di prima da una Società Privata.
Il motivo principale del furore dei paesi, che fino ad allora si erano
considerati amici degli USA, era che il Presidente aveva agito senza
interpellare nessuno ed aveva in sostanza immesso sulla Terra, dopo la totale
distruzione della Colombia e quello parziale del Venezuela, una quantità di
radiazioni mai prima prevista nemmeno dai più pessimistici esperti di
contaminazione radioattiva.
Gravissimi pericoli interessavano non solo, il Sud America e soprattutto il
Brasile con il polmone verde della Foresta Amazzonica e le migliaia di specie
animali, di insetti e la flora del sottobosco ma anche, l’Africa nei suoi
territori occidentali.
Infatti proprio nei giorni dell’esplosione su Bogotà si era formato un vento
violentissimo che dalla Colombia e dal Venezuela era giunto fino alle Azzorre
ed aveva poi proseguito fino al Marocco con piogge miste a pulviscolo
radioattivo lungo tutta la costa dal Senegal alla Nigeria.
Per placare l’odio che si stava spandendo in tutte le latitudini contro
l’America, il nuovo Governo degli Usa stava preparando una grande conferenza
internazionale sulle responsabilità sia del Terrorismo, sia del defunto
Presidente americano, espressione di ogni uomo della grande Potenza atomica
mondiale.
Nei preliminari preparatori della conferenza, gli americani che avevano
dichiarato il loro profondo rincrescimento per quanto accaduto scaricando
ogni colpa sul terrorismo arabo, fu comunicato ai Media la volontà degli
Stati Uniti di aderire ad un Governo Mondiale di scienziati che avrebbe messo
in secondo piano i politici in tutti gli Stati della Terra aderenti
all’accordo e che avrebbe bandito ogni congegno distruttivo sia atomico che
chimico o biologico.
E mentre tutti i popoli del globo terrestre alla fine esultavano per
l’iniziativa di pace, che così facendo, avrebbe portato anche alle Nazioni
poverissime almeno un certo grado di benessere, eliminando e la fame e la
sete ed a tutti sarebbe stata data la possibilità di curarsi gratuitamente
anche per le peggiori malattie, perché ogni fondo economico sarebbe stato
amministrato solamente per il bene dell’umanità annullando qualsiasi spesa
per gli armamenti, avvenne ciò che nessuno avrebbe mai immaginato.
Una serie di meteoriti di medie dimensioni si abbatté improvvisamente sulle
calotte polari senza che vi fosse alcun nesso con gli effetti atomici della
super bomba atomica sganciata sulla Colombia.
Le calotte polari si sciolsero quasi completamente alzando il livello degli
oceani di oltre centocinquanta metri.
Maremoti ed uragani cominciarono a tempestare la Terra.
I vulcani iniziarono ad esplodere mentre interi arcipelaghi scomparvero in
pochi giorni.
Violentissime piogge ed inondazioni fecero scomparire in un attimo intere
regioni e tutta la geografia dei continenti risultò così cambiata che i
deserti africani e quelli cinesi, tra gli altri, divennero degli immensi
bacini di acqua marina ed anche gli Stati Uniti, Russia e Siberia oltre il
Canada cambiarono faccia con la scomparsa tra l’altro di San Pietroburgo dove
solo le cime dei più importanti monumenti si potevano ancora vedere e così
avvenne anche con Central Park a New York.
Senza parlare dell’Europa dove le grandi pianure ed in particolare quelle dei
Paesi Bassi , la valle del Reno in Germania, la valle Padana e tutta la
penisola con il Tavoliere pugliese e tante altre ancora erano state sommerse.
Città come Venezia , Amburgo ,Copenaghen ,Barcellona, Londra e così via non
si riconoscevano più come San Francisco e Los Angeles.
Tutto questo era avvenuto tre giorni dopo il ritorno del Maggiore Peter Frey
alla Base, dove vi fu una grande festa nel sapere che Mike era ancora vivo
anche se quella barca, che si trascinava in un mare agitato e con onde alte
certamente più di quattro metri, poteva indurre al pessimismo pur
considerando la direzione favorevole della prua verso terra.
Si stava provvedendo ad un piano per il recupero di Mike con dettagli
meticolosi quando avvenne quel finimondo ed anche il centro atomico di
Houston sparì dalla terra in un battibaleno, con pochissimi sopravvissuti tra
cui Peter che fortunatamente il giorno prima si era allontanato per
raggiungere la Base Aeronautica ad est di Salt Lake City nello Utah a duemila
e settecento piedi di altezza allo scopo di organizzare lì i soccorsi con
molte più possibilità di successo.
Quando si seppe di quello che stava succedendo in tutto il mondo, Peter,
avvisando solo il Comando Aeronautico e nessuno altro, prese il primo F 18
con il pieno di carburante e partì verso il sud America, dirigendosi alla
stessa Base di Mackenzie nella Guyana Britannica, dove si stava dirigendo
Mike, perché anche lui riteneva quell’aeroporto l’unico che non fosse
disastrato, in quel Paese dal cataclisma marino.
Anche se per motivi diversi i due piloti amici avrebbero potuto incontrarsi
proprio in quella Base inglese
Peter aveva soltanto trentasette anni e l’amicizia con il più anziano collega
risaliva ai tempi che quello si era fidanzato con Holly.
Peter non era sposato né aveva mai avuto intenzione di farlo ma al matrimonio
di Mike era stato proprio lui che gli aveva fatto da testimone.
A dire il vero Hooly piaceva tanto pure a lui ma era contento che lei avesse
trovato un uomo in gamba come Mike fenomenale sia, nel carattere attento ad
ogni esigenza della moglie ed affettuoso oltre che affabile sia, nel suo
mestiere di Comandante in Capo dei più bravi piloti dell’aviazione USA.
Peter non sapeva se Mike avesse cambiato idea ma pensò che gli inglesi
certamente gli avrebbero dato un elicottero per ulteriori ricerche.
Avuta l’autorizzazione ad atterrare, Peter impiegò un attimo per chiedere e
sapere che il Generale Stuart non si era visto in quel campo e che nessun
elicottero inglese aveva visto dall’alto nulla che potesse fare pensare alla
presenza in quei territori di un uomo americano sbarcato nella Guyana
Britannica.
Peter non voleva nemmeno immaginare di avere sbagliato su Mike e così, dopo
aver ottenuto l’elicottero che gli serviva cominciò a fare molti voli a
raggiera intorno alla base.
Per due intere giornate continuò a volare con gli elicotteri senza l’ombra di
un avvistamento e senza che Mike si presentasse all’aeroporto.
Peter cominciò a sentirsi nervoso ed anche sfortunato. Mille volte aveva
consultato le carte nautiche del giorno del suo avvistamento e continuava a
ripetersi che non poteva essersi sbagliato: secondo lui Mike doveva trovarsi
a qualche decina di miglia dal punto che egli aveva segnato sulla carta con
un cerchio rosso.
Il terzo giorno Peter uscì a piedi con la guida di un meticcio che aveva
lavorato per anni nelle miniere di bauxite dalle parti del territorio ad
ovest della Base aeronautica e che conosceva ogni angolo della foresta
dell’interno della Guyana Britannica.
Era un tentativo che Peter doveva a Mike per l’affetto che aveva sempre
sentito per lui ed anche per Holly, che sapeva al sicuro dai propri genitori
nell’impervio Montana, ma era anche un tentativo che aveva il sapore di un
bel gesto disperato perché ormai anche per Peter era possibile che Mike fosse
morto magari annegato nell’Atlantico.
CAPITOLO QUINTO
Mi ero completamente perso nel mio peregrinare dentro la foresta dal giorno
che avevo deciso di raggiungere l’aeroporto di Mackenzie e gli esseri che
avevo incontrato non erano che animali, sicuramente storditi ed indeboliti
per gli effetti radioattivi secondari.
Dopo un settimana anche le mie forze si erano ridotte al lumicino non tanto
per la scarsità di cibo, che bene o male riuscivo a procurarmi, ma per il
caldo umido tremendo che riusciva a penetrare in me pur ancora protetto dalla
tuta di riserva, che mi ero portato appresso e che avevo messo addosso quando
l’altra ormai era caduta a pezzi
Parecchie volte avevo incontrato una razza di scimmie che non conoscevo e che
mi erano parse in piena forma, nel loro saltare da un ramo all’altro e da un
albero al successivo con estrema agilità e direi con lucida e pronta
intelligenza.
Certamente quelle scimmie non erano state contaminate e dimostravano di
possedere un fisico integro ed erano ben messe col pelo e con la faccia che
assomigliava a quella degli scimpanzé, soprattutto per gli occhi scuri ed
ovali, dall’espressione vivace e per gli atteggiamenti quasi umanoidi nel
loro insistere nel girarmi attorno.
Io, pure nella tristezza di non essere capace di orientarmi in quella
giungla, in quei momenti avevo l’impressione di incontrare degli esseri
meglio di me attrezzati per vivere felici in quei posti.
Mostri e serpenti non ne avevo più incontrati forse per il clima o per la
mancanza di stagni o lagune ed in particolare non aveva più visto neppure
l’ombra di un piranha, nei pochi corsi d’acqua che ogni tanto ero costretto
ad attraversare.
Quanto avessi camminato era un vero mistero. Dove fossi, un mistero anche più
fitto
L’unica cosa di cui mi ricordavo conto molto bene era che, dopo mezza
giornata da quando mi ero diretto verso quel punto che doveva essere il mio
salvagente e cioè l’aeroporto di Mackenzie, era arrivata una pioggia che
assomigliava più ad un uragano che a dei rovesci tropicali e questo mi aveva
molto stupito per la persistenza di quel fenomeno che era durato oltre
quarantotto ore.
Avevo un ardente desiderio che, se fosse stato realizzabile, avrei rinunciato
volentieri anche ad un “Hot Dog” bollente ed ad una bottiglia di birra.
Volevo incontrare degli uomini e non mi interessava se questi fossero
meticci, negri, bianchi od indigeni. L’importante per me era di avere un
qualsivoglia contatto umano e non mi importava quale
Ero dunque rimasto bloccato nei pressi del grande albero che mi aveva fatto
da albergo per due intere giornate a causa delle torrenziali piogge e quando
il diluvio si era un poco attenuato, pur scrutando la bussola mi accorsi,
dalle scarse ombre dei tronchi d’albero, come la direzione di marcia mi aveva
sospinto al di là della longitudine che avrei dovuto tenere per imbattermi
prima nelle miniere di bauxite e dopo nell’aeroporto.
Non solo avevo perduto più di cinque giorni ma purtroppo mi ero ancora di più
allontanato dalla mia meta.
Qualche passo dopo, a non più di mille metri in linea d’aria, trovai tra gli
alti fusti improvvisamente un largo spazio di savana senza alberi e coperto
di un unico tipo di foglie larghe e basse con in mezzo diversi fiori azzurri.
Non ricordavo di aver mai visto dei fiori simili a quelli e pur battendo con
il mio bastone di fortuna, ricavato da un ramo secco che precedentemente
avevo raccolto, non vidi tra le foglie nessun serpente od altro animale
pericoloso.
Un profumo di muschio mi inebriò il cervello e caddi tra le foglie ed i fiori
come può cadere un corpo morto.
Credo che dormii almeno dodici ore di fila perché al mio risveglio era già
l’alba di un altro giorno.
Mi sentivo tranquillo e riposato, al momento che aprii gli occhi ed un
silenzio irreale mi circondava, quando mi accorsi di non essere solo ma tra
un mucchio di indigeni dagli occhi a mandorla e dalle lunghe ciglia,
seminudi, promiscuamente uomini e donne con diversi bambini.
Girai il capo intorno lentamente e senza la minima sensazione di paura e
capii di non trovarmi più nel posto dove mi ero addormentato ma in una
località nella foresta certamente creata dall’uomo e che aveva l’aspetto di
un villaggio preistorico con le sue capanne costruite su palafitte e con un
torrente impetuoso nelle vicinanze di cui avvertivo il piacevole rumore.
Era certo che mi avevano trasportato lì mentre dormivo profondamente ma non
mi avevano messo in una loro capanna, bensì mi avevano lasciato all’esterno
sullo spiazzo di terra in mezzo alle palafitte, con sotto il mio corpo una
morbida pelle la cui provenienza non conoscevo assolutamente.
Mi misi a sedere sul quella pelle conciata ed incrociando le gambe cominciai
a scrutare tutta quella gente, che continuava a rimanere nel silenzio più
totale, cercando di capire chi fossero e se avessero intenzioni pacifiche nei
miei riguardi.
Erano di carnagione olivastra, di statura più che media e dalle gambe dritte
e muscolose gli uomini e particolarmente belle mi parvero le giovani donne,
che indossavano solo un minuscolo perizoma, al contrario degli uomini che
erano più coperti e con i capelli adornati di fronde di alberi.
Mi colpì che le donne allattassero al seno i loro figli anche se questi mi
sembrava che avessero più di due anni.
Di bambini ce ne erano molti, di tutte le età, ognuno in braccio alle
rispettive madri, con certi occhi grandi e vellutati ed il corpo che denotava
una ottima alimentazione.
Fu solo quando mi alzai che tutti i miei ospiti urlarono in un idioma
assolutamente incomprensibile una espressione di meraviglia vedendomi alto e
biondo e vestito di una tuta che probabilmente immaginavano appartenesse ad
un altro mondo.
Mi chinai per aprire lo zaino, che quelli avevano raccolto vicino al mio
corpo addormentato, senza aprirlo e tirai fuori la bussola mostrandola in
particolare agli anziani di quel piccolo agglomerato di persone.
Questi mi si strinsero attorno incuriositi e dopo che ebbi regalato a quello
che ritenevo il capo tribù uno dei miei due orologi, mi fecero intendere che
ero ben accettato mostrandomi una capanna dove intendevano ospitarmi.
Abbracciai il vecchio indigeno e feci cenno di avere molta fame.
Uomini e donne capirono i miei gesti e finalmente, dopo tanto tempo, potei
mangiare della carne che avevano già cucinato e che dopo seppi appartenere ad
un capibara da loro catturato ed ucciso.
C’era cibo sufficiente per tutti e così capii che quella gente non sapeva
cosa significasse la fame perché oltre alla carne mi offrirono del pesce che
avevano sicuramente pescato nel vicino torrente
Il posto dove ero stato trasportato era su un leggero altopiano e sopra
questo si inerpicava la montagna con zone rocciose debordanti dal verde della
vegetazione. Ebbi la sensazione che quel gruppo di indigeni, che parlavano un
idioma incomprensibile e che non somigliava a nessuna lingua moderna,
avessero scelto un ottimo posto per vivere.
Il clima lì era accettabile, l’umidità non così soffocante come più giù, dove
ero crollato per terra sfinito e dove mi avevano pietosamente raccolto.
Dopo aver mangiato feci cenno al gruppo di anziani di voler fare qualcosa per
loro molto importante.
Tirai fuori il contatore Geiger e sorridendo per fare capire loro le mie
buone intenzioni presi il primo uomo che mi capitò vicino e cominciai a
misurare con quello strumento, incredibile per tutti loro e che aveva tutta
l’aria di essere qualcosa di diabolico, la radioattività di ognuno della
tribù.
Con mia grande meraviglia mi accorsi che nessuno di quel gruppo aveva segnali
di contaminazione e lo stesso valeva per alcuni pappagalli che vivevano con
questa gente.
Feci a quella gente segnali espressivi che tutto era OK e credo di aver fatto
capire che tutti erano sanissimi o almeno credei che così avessero capito.
Il capo volle provare su di me il contatore ed anche io risultai nelle loro
stesse condizioni e fu a quel punto che il vecchio indigeno, in segno di
gratitudine, scelse per me la più bella delle sue figlie e mi fece capire che
quella sarebbe stata la mia donna.
Era una splendida creatura che poteva avere non più di diciassette anni, il
suo corpo era come il tronco di un giovane albero.
Piuttosto alta e con un corpo scolpito nel marmo, aveva una pelle liscia e
morbida, deliziosa ed un seno di dimensioni medie ma con due capezzoli
capricciosi ed invitanti tanto che mi sentii in estremo imbarazzo, quando si
coricò accanto a me, nella casupola, che mi avevano assegnato ed incrociò le
sue solide cosce con le mie.
Non mostrava nessuna vergogna, solo una certa soggezione, di stare vicina ad
una specie di divinità come sicuramente mi considerava.
Non sapevo come agire, se scansarla facendole capire che io non potevo
approfittare della sua innocenza oppure possederla come lei bella e pura
inequivocabilmente desiderava.
Ero anche io nudo ed il contatto del mio corpo con il suo mi aveva eccitato
tanto che l’eccitazione ebbe la meglio sulla mia coscienza.
Mi accorsi poi che non avrei potuto agire diversamente poiché il capo della
tribù aveva deciso così e che qualsiasi mio rifiuto sarebbe stato
interpretato come un grave sgarbo al suo dono.
Era stata Thai, così la chiamavano tutti, colei che mi aveva spogliato dei
miei vestiti la sera precedente ed al mattino, mentre ancora dormivo, me li
aveva lavati al torrente.
Mi svegliai molto tardi ancora stanco per la notte passata con la deliziosa
indigena ed i miei vestiti erano già là asciutti accanto al giaciglio. Con un
bel sorriso Thai mi porse il latte di una noce di cocco, con la grazia che
solo una giovane donna poteva mostrare a colui che considerava il suo uomo,
cercando di dirmi a gesti che potevo fare a meno di indossare la tuta ed
anche gli altri indumenti che indossavo il giorno prima.
I giorni seguenti furono piacevoli come la prima giornata che avevo passato
tra quella gente, pacifica e gentile nei miei riguardi come mai avrei potuto
desiderare.
Essi vivevano con naturalezza la vita che consideravano un dono prezioso e la
loro giornate erano tranquille con l’unico problema di procurarsi il cibo che
non avevano difficoltà di trovare.
Tra carne e pesce che riuscivano ad ottenere la prima con la caccia, a valle
del villaggio ed il secondo al ruscello, a monte, con il riso che coltivavano
e le noci di cocco insieme alle banane abbondanti in quei luoghi, non c’erano
problemi perché quelle persone si nutrissero abbondantemente e con alimenti
sani.
Avevo cercato di sapere sia da Thai che dagli uomini dove mi trovassi e se
fossimo ancora nella Guyana Britannica oltre il confine di questa. Senza però
avere una risposta precisa o almeno di probabilità.
Dai miei calcoli imprecisi pensavo di trovarmi ai piedi dell’altopiano della
Guyana, territorio che raggiunge l’altezza di oltre duemila metri e molto
esteso giungendo al Brasile a sud ed al Venezuela a nord, quasi fosse un
territorio di nessuno, particolarmente difficile da raggiungere da qualsiasi
direzione L’unica cosa che non riuscivo a comprendere era come avessi potuto
percorrere tanta strada in un relativamente breve periodo di tempo.
In realtà ero soltanto relativamente interessato a questo problema dal
momento che una vita così rilassante non l’avevo mai vissuta durante tutta la
mia esistenza.
Era come se mi trovassi in un posto paradisiaco. Tutti i problemi che mi
avevano sempre angustiato erano come svaniti in quella tribù primitiva ma
tanto cortese ed affabile.
Anche lo stare insieme a Thai non mi dispiaceva anche se qualche volta
pensavo intensamente a Holly e dove e come vivesse.
Speravo che tutto il finimondo successo non l’avesse fatta soffrire, buona e
sensibile come era, sarebbe stata una vera tragedia e non mi sarei mai dato
pace se fosse morta, cosa a cui non volevo pensare.
Non sapevo né potevo nemmeno lontanamente immaginare che il mio caro amico
Peter Frey stava cercandomi da quelle parti e che in quelle giornate era
giunto a poche miglia da me con l’aiuto della guida meticcia.
CAPITOLO SESTO
Peter ed il meticcio girarono per quatto giorni nell’interno della foresta e
per quanto avessero cercato in ogni angolo, anche tra quelli più selvaggi e
meno conosciuti, non trovarono nessuna traccia di Mike.
Il Maggiore era però un tipo che non si arrendeva mai e così, dopo essere
ritornato alla Base, volle dagli inglesi le carte più dettagliate che
possedessero riguardo il territorio attorno alla Base per un raggio di
duecentocinquanta chilometri con tutti i dati che la ricognizione aerea aveva
acquisito nell’ultimo decennio.
Fu informato anche su ciò che era accaduto in quei pochi giorni di assenza in
tutto il mondo.
Si trattava di una catastrofe immane. Il globo terrestre aveva cambiato
totalmente i suoi connotati. Il mare aveva sommerso più di un terzo delle
terre emerse ed i morti si potevano contare in centinaia di milioni.
Il restante terreno per un buon quinto era stato alluvionato e dai fiumi e
dagli uragani e le popolazioni sopravvissute erano state colpite in modo
massiccio da tutte le malattie più orrende e più mortali, specialmente tra i
popoli che non erano, o quasi, mai stati vaccinati contro il colera, il
vaiolo, la febbre gialla, il tifo e centinaia di altre.
Soltanto, incredibilmente, la Guyana Britannica, quella Francese ed il
Suriname non erano state colpite da quelle tremende malattie e non si capiva
il perché, come pure il Brasile e qualche altra Nazione del Sud America tra
le quali tutte quelle che si affacciavano sull’Oceano Pacifico.
Peter pensò che avrebbe fatto un ultimissimo tentativo per dare almeno una
qualsiasi risposta a Hooly.
Chiese all’Alto Comando dell’Aviazione ed al Direttorio un ulteriore permesso
per la missione di ricerca del Generale Mike Stuart e non ci fu nessun veto:
avrebbe potuto comportarsi come meglio credeva tanto in quei terribili
momenti in America erano necessari medici ed infermieri, ingegneri e
manodopera, soldati del Genio e pompieri piuttosto che valorosi piloti di
Jet.
Il nuovo piano di Peter era quello di utilizzare un mezzo semovente molto
piccolo ma potente, munito di una falciatrice e di parecchi mezzi elettronici
ed ad infrarossi del tipo di quelli usati dagli aeri da combattimento con
radar di ultima generazione e di controllare ogni punto del territorio e
soprattutto le zone di confine con gli altri Stati attigui.
Questa volta pensò che avrebbe agito da solo perché l’impresa comportava
molti rischi ai quali non desiderava che partecipasse nessun altro.
Avrebbe potuto non tornare più indietro e qualsiasi altra persona poteva fare
una brutta fine come forse sarebbe capitato a lui stesso.
Ci vollero alcune giornate per preparare quella ingegnosa macchina, per
attrezzarla ottimamente anche con strumenti fonici che potevano raccogliere
ogni minimo rumore del tipo dei sonar in dotazione ai sommergibili atomici.
Alla fine tutto fu pronto per partire e Peter si allontanò puntando verso
ovest nord ovest cioè verso l’altipiano dove in effetti era al sicuro Mike.
Nessuno avrebbe agito in un modo tanto devoto nei confronti di un amico come
stava facendo Peter per Mike.
Non esisteva altro fine, per quella cocciutaggine, se non un grandissimo
sentimento di amicizia e poteva sembrare che Peter non avesse più potuto
esistere senza il suo amico, tanto quello si era attaccato all’idea, quasi
ossessiva, di ritrovarlo.
I primi due giorni furono molto duri con quel semovente che ancora non aveva
imparato a guidare ed a manovrare in modo ottimale.
La foresta e le savane erano sempre ostili anche in quella nuova direzione
con l’unica novità che quel posto era molto ricca di uccelli e pappagalli
che, al passaggio di quel rumoroso veicolo, si alzavano in volo a migliaia.
C’erano anche moltissime scimmie di razze diverse, come al solito curiose ed
impertinenti nel arrampicarsi sul semovente ed anche, nelle savane, Peter
aveva potuto osservare caimani e serpenti, distesi o raggomitolati fra i
cespugli, che parevano dormire nel loro letargo.
Quello che gli risultava chiaro era però molto più importante degli animali
visti e cioè il fatto che tutta quella vasta zona era apparentemente salva
riguardo ai disastri di quasi tutti i luoghi del pianeta.
Ma, dopo altri quattro giorni di lotta con la foresta, avvenne il miracolo
tanto atteso da Peter quando raggiunse la stessa radura in cui era caduto in
un sonno profondo Mike, prima di essere trovato dalla tribù di indigeni che
lo aveva trasportato più a monte.
I segni erano inequivocabili.
Le tracce di un uomo con degli stivaletti si mischiavano alle orme di piedi
nudi, numerose e tutte dirette verso l’altopiano, tanto che Peter cominciò a
commuoversi come un bambino che abbia ritrovato il padre smarrito ed ad
emozionarsi al pensiero che avrebbe sicuramente ritrovato Mike
Peter continuò a muoversi con il suo mezzo che ora conduceva con abilità
estrema, cavandosela tra quelli ultimi ostacoli, finché raggiunse il posto da
cui poteva sentire il rumore del torrente vicino al villaggio dove si trovava
Mike.
Lì si allontanò dal semovente portandosi appresso solo quello che riteneva
indispensabile, le armi, il binocolo e gli strumenti elettronici importanti,
poiché non sapeva se Mike fosse prigioniero oppure libero di agire.
Quando finalmente rivide Mike attorniato dagli indigeni, seminudo e
sorridente con tutta quella gente, non poté fare a meno di esplodere in una
fragorosa risata tanto forte che tutti si rivolsero verso di lui
meravigliati.
Mike gli corse incontro con le lacrime agli occhi e lo abbracciò con tutta la
forza che possedeva.
Non si dava pace per aver pensato che a nessuno sarebbe importato della sua
sorte e nel rivedere il suo Maggiore in divisa, non riusciva nemmeno a
pronunciare una sola parola di ringraziamento.
Mike presentò Peter al capo villaggio e questo ricevette un binocolo come
regalo.
Tutti gli indigeni fecero festa al nuovo arrivato e gli anziani diedero
ordini alle donne di preparare un lauto pasto per il nuovo ospite.
Anche a Peter, che aveva fatto all’anziano indigeno un regalo principesco e
che gli aveva insegnato come usarlo, fu assegnata una capanna ed una bella
figliola di diciannove anni, che assomigliava come una goccia d’acqua a Thai
e che tutti chiamavano Clau.
Passato il primo momento di stupore e di allegria, Peter raccontò a Mike ogni
cosa che era successa nel mondo, mentre l’amico se la stava al momento
spassando tra quella gente e non volle criticare il suo comportamento con
Thai che aveva capito come fosse diventata la sua acerba amante,
dimenticandosi di sua moglie Holly che probabilmente lo stava piangendo come
morto.
Gli disse pure del semovente che aveva lasciato più a valle e si meravigliò
che Mike non gli avesse chiesto subito né di andarsene insieme, magari
l’indomani o qualche giorno più tardi, né di telefonare immediatamente in USA
a Salt Lake City dove avrebbero certamente fatto festa per il Generale
ritrovato.
Peter aveva capito che il suo Generale si trovava in un posto ideale, lontano
da ogni problema di angosciosi pensieri sulla fine che sarebbe capitata in
quel mondo, che aveva sempre immaginato idealmente puro e lontano dalle
brutture delle guerre e soprattutto libero, da schiavitù imposte dagli uomini
ad altri uomini con terribili armi e lontano pure da quella natura che pareva
essersi ribellata a tutti gli errori ed orrori che l’umanità aveva saputo
crearle contro.
Anche a Peter pareva di trovarsi in un luogo incantato senza che più dovesse
domandarsi del perché avvenissero quelle cose, mentre invece avrebbe dovuto
seguire Mike nel suo pensiero limpido di uomo finalmente felice di vivere
serenamente.
Troppe volte anche lui si era chiesto una risposta tranquillizzante sulla
sorte che lo avrebbe atteso e né Peter si sentiva un codardo e né Mike lo era
mai stato.
Forse era meglio sparire per sempre dal cosiddetto mondo civile e starsene lì
a vivere l’esistenza tra quella gente, ingenua ma forte delle proprie
tradizioni di lealtà nei confronti di quelli che erano nati in quello
stupendo posto e degli amici, se l’amicizia aveva ancora un senso.
CAPITOLO SETTIMO
Avevo avuto la sensazione, dopo un paio di giorni dall’arrivo di Peter, che
egli avesse molte perplessità riguardo il mio comportamento con gli indigeni
del piccolo villaggio che, in così breve tempo, trattavo in maniera troppo
familiare ed amichevole cercando addirittura di insegnare loro qualche parola
elementare d’inglese.
Era vero ed il bello stava arrivando in quei giorni quando avevo deciso di
aprire una specie di scuola, aperta a tutti, ma dedicata soprattutto ai
bambini dove avevo intenzione di dare anche lezioni elementari di fisica, di
aritmetica e di medicina spicciola.
Erano proprio i bambini coloro cui si stava rivolgendo la mia attenzione ed
il cammino che mi ero prefissato era di dare a quelli le basi delle
cognizioni fondamentali, per farli crescere non analfabeti e potenzialmente
pronti, secondo le loro attitudine, a migliorare e sviluppare l’intelligenza.
Era senza dubbio un bel lavoro che immaginavo pieno di soddisfazioni e di
gratificazioni per uno come me così appassionato di ecologia e di
antropologia.
Poi esisteva anche Thai, quella bella ragazza che mi adorava e che non
chiedeva niente in cambio per le sue attenzioni, con la quale il sesso aveva
un significato diverso, da quello che fino allora avevo creduto durante i
miei quarantacinque anni di vita.
Non era come il sesso che ero stato abituato ad avere con mia moglie, un
tesoro di donna ed anche lei fisicamente splendida, perché quello con Holly
implicava tante premesse e tante parole talvolta sdolcinate e certamente
frutto della sua superiore educazione e posizione sociale.
Con Thai tutto era più facile, senza parole se non quelle essenziali nei
momenti dell’orgasmo, senza il minimo pudore oppure imbarazzo né da parte mia
né sua. Era come immaginavo potesse essere in Paradiso dove tutto sarebbe
stato pulito ed innocente, quasi un atto divino senza peccato né rimorsi.
A Thai avevo già insegnato un po’ di inglese ed avevo potuto constatare che
la ragazza era molto dotata nell’apprendere ogni cosa come una bambina che si
trovasse nel paese delle meraviglie. Nello stesso tempo le avevo assegnato
l’incarico di organizzarmi la piccola scuola che avevo ideato forse per
sdebitarmi con quella gente o forse per non pensare a quella che era stata in
precedenza la mia vita.
Esisteva un ultima riflessione che, in quei momenti, mi ronzava nella mente
ed era la possibilità di levare dal cervello di quella gente il credere, come
erano stati educati da millenni, ad una religione nella quale gli astri
fossero, assieme ad altri eventi fisici spiegabili scientificamente, divinità
padrone della terra.
Alla fine di tutti i ragionamenti fatti, ritenni onesto da parte mia di
parlare chiaramente a Peter e di dirgli che per il momento non mi sarei
allontanato da quel luogo per nessuna ragione o alternativa e che lui avrebbe
deciso, in piena liberta cosa fare.della sua vita, con l’unica preghiera di
non raccontare mai a nessuno che mi aveva ritrovato, nel caso avesse deciso
di tornarsene in America.
Il giorno dopo Clau si era fatta bella mettendosi un microscopico tanga di
colore rosso, che lei stessa aveva tinto con quel colore ottenuto da una
specialissima qualità di fiori di alcuni stagni lì vicini, mentre aveva anche
intrecciato i lunghi capelli nerissimi con molta grazia.
Clau aveva un profilo perfetto con il naso dritto, le narici ovali ed il
mento leggermente curvato in avanti. La fronte, poi, era ampia e ben
disegnata sopra degli occhi a mandorla neri e dalle ciglia lunghe e curve.
Sembrava quasi un profilo di donna da mettere su qualche francobollo per
celebrare la bellezza femminile e Peter, vedendola al sole ne era rimasto
incantato.
Durante la notte precedente anche lei, come Thai con Mike, si era sdraiata
nuda accanto a Peter ma il Maggiore pur affascinato dalla bellezza del suo
corpo non aveva fatto sesso con lei nel dubbio di doverla lasciare subito al
suo destino se fosse ripartito dopo un paio di giorni.
L’uomo aveva pensato come un occidentale, educato da anni di disciplina
militare, ragiona riguardo ad una donna cui non vuole causare del male, non
sapendo che per quella gente un rifiuto simile potesse invece essere
interpretato come una offesa.
Clau si era confidata al mattino con la sorella ed era stata proprio Thai che
le aveva suggerito di farsi ancora più attraente per Peter che così non
l’avrebbe più rifiutata.
Così, Clau e Peter, trascorsero insieme la giornata ed anche senza che
nessuno dei due capisse nemmeno una parola dell’altro ridevano su ogni cosa
uscisse dalle loro labbra, sembrando felici come due adolescenti che avessero
marinato la scuola per la prima volta in compagnia l’uno dell’altra.
Fecero all’amore sulle rive di un piccolo ruscello a valle e si spinsero
nell’acqua fresca di quello durante l’amplesso.
Peter era rimasto inebetito dall’ardore che Clau gli aveva rivelato e
dolcemente continuò a baciarla su ogni centimetro quadrato di pelle, cosa che
tramortì pure Clau che non avrebbe mai immaginato una simile conclusione di
quel rapporto sessuale che continuò, ancora per molte volte, fino allo
sfinimento fisico dei due amanti.
Anche Peter poté provare, come era successo a Mike, cosa significasse la
mancanza totale di inibizioni per quelle due belle sorelle indigene.
Dopo più di quattro ore i due ricomparvero al villaggio così felici e con il
viso tanto distrutto che tutti si accorsero di quanto era accaduto tra loro
ed ognuno condivise quella felicità con grandi esclamazioni di soddisfazione
perché tutti avevano capito cosa era successo, nella notte precedente nella
capanna dove Peter e Clau avevano dormito insieme.
Il giorno successivo parlai con Peter, chiedendogli cosa avesse deciso sul
suo futuro.
Presi il discorso alla larga considerando che ciò che avevo deciso di dirgli
avrebbe potuto procurargli un piccolo shock dal momento che, secondo il mio
modo di vedere le cose, non avrebbe capito a pieno il significato della mia
volontà di rimanere in quel posto.
Cercai di essere il più chiaro possibile ma nello stesso tempo di fargli
capire che ero inamovibile riguardo il mio desiderio di dare un taglio netto
al mio modo di vivere.
Gli dissi anche che invece di ritirarmi per esempio in un convento a meditare
sulla essenza della vita e della morte e su l’esistenza o meno di un Dio
buono e giusto, preferivo insegnare a quella povera gente qualcosa di utile
ed essenziale.
Era chiaro che non volevo, figurativamente rimanendo lì, suicidarmi o fare il
sordo per non andare alla guerra ma che avrei utilizzato il mio bagaglio
culturale per il bene altrui per non sprecarlo ed in ogni caso per rendermi
utile al mio prossimo.
Volli essere chiaro anche riguardo a Thai e che non era per colpa sua se io
avevo fatto quella scelta.
Thai probabilmente mi aveva fatto aprire in tempo gli occhi anche se avevo un
unico rimorso nella mia coscienza e cioè quello di abbandonare al suo destino
la mia cara e bella moglie.
Holly non l’avrei mai dimenticata ed avrebbe avuto ottime possibilità di
vivere con quello che l’Aviazione le avrebbe dato per la mia scomparsa, se
Peter avesse mantenuto solo per se il segreto della mia sorte.
Avrei potuto dire a Peter tante altre cose che mi bruciavano dentro e tra
queste certamente la più importante.
Se fosse successo solo la catastrofe legata alla caduta dei meteoriti ai
poli, mai avrei abbandonato il mio Paese.
Ma quello che era accaduto prima, quella serie di errori politici e quelle
decisioni assurde nel non proteggere la natura, non ragionando su cosa
sarebbe accaduto al pianeta prima o poi, elemento in cui gli USA avrebbero
potuto far pesare la propria autorità in seno al consesso internazionale ed
anche il ruolo di prima potenza mondiale, lo ritenevo elemento di bieca
cecità e di immaturità.
L’atomica ultra potente fatta esplodere sulla Colombia, per me, aveva
completato un quadro di assurda paranoia.
Come poteva pretendere l’America di non causare danni ciclopici nel momento
in cui, dopo l’atto terroristico su San Francisco, ogni americano era pronto
a dare la propria vita per quella libertà che era stata, sempre assieme alla
democrazia, il pilone principale del credo di tutti gli statunitensi?
Sarebbe stato più che sufficiente attaccare la Colombia annientando tutto il
traffico di cocaina soltanto se in quel momento il Presidente non avesse
perso la testa ed avesse ordinato invece all’esercito, all’aviazione ed alla
marina di far piazza pulita di tutti i trafficanti imponendo la democrazia in
tutto il paese anche nelle zone più impervie e più nascoste dove fiorisce la
coltura e la raffinazione della cocaina.
Invece il signor Presidente aveva contaminato mezzo mondo soltanto per fare
vedere i muscoli degli Stati Uniti e senza considerare il cataclisma che
stava provocando.
Sapevo e me ne attribuivo la responsabilità di essere un disertore secondo la
legge ma non mi sentivo tale per tutte le considerazioni che aveva fatto a
Peter.
Lo avevo fissato negli occhi accigliati ed avevo capito che mi stava
considerando un povero malato di mente.
Come potevo rinunciare a tutti gli onori conquistati dopo una vita dedicata
al mio Paese? Come potevo dimenticare i doveri che mi derivavano proprio
dalla mia posizione di eroe di guerra, qualifica che non avevo mai chiesto ma
che mi era stata attribuita dal Parlamento e dal Senato.
E poi cosa credevo di fare in quello sperduto posto della Guyana tra quei
poveri indigeni?
E Holly cosa centrava e che male aveva fatto perché io mi comportassi così
con lei?
Sì forse ero diventato pazzo ma quella pazzia mi piaceva e non l’avrei mai
tradita.
Peter aveva ascoltato tutto in silenzio, poi mi aveva abbracciato e mi aveva
detto che nemmeno lui sarebbe tornato indietro.